Muri

C’era una volta il muro che divideva le due Berlino.

C’è il muro del pianto a Gerusalemme, folto di devoti salmodianti vestiti di nero.

C’è il muro di oltre 400 chilometri (saranno più di 700 quando sarà completato) che, a grandi pezzi non comunicanti e contorti in curve bizzarre, angoli retti o acuti, segmenta il territorio palestinese per rendere difficili, faticosi e umilianti gli spostamenti dei palestinesi e anche, secondariamente, per difendere i coloni da eventuali manifestazioni ostili palestinesi.

C’è un forte rapporto simbolico fra muro e identità. L’identità, per prima cosa, deve tracciare dei confini fra l’identico e l’altro. In Palestina, questo si tocca letteralmente con la mano.

Il primo muro, quello berlinese, era in fondo il più labile. Non voleva fissare un’identità etnico- religiosa, come il muro ebraico e il muro israeliano, ma solo impedire la fuga di cittadini di Berlino est verso Berlino ovest. Era un muro strettamente politico-poliziesco, anzi, negli ultimi tempi, assai più poliziesco che politico.

Il muro del pianto è un muro della memoria mitologica, vissuto come il residuo dell’antico fondamentale tentativo di distruggere l’identità ebraica. Chi vi si reca a pregare riafferma la propria identità etnico-religiosa e territoriale, un tempo come nostalgia della Terra Promessa, oggi come conferma della Terra Occupata.

Il muro di Palestina vuole spezzare l’identità palestinese e confermare la nuova identità sionista. Stabilisce un brutale dentro e fuori col cemento, il filo spinato, le torri di guardia.

Perciò le continue proteste, gli assalti, le manifestazioni, i tentativi di scavalcarlo, i murales, talora bellissimi, i manifesti appiccicati sopra mi sembrano anche una lotta contro l’identità come modo d’essere.

L’impressione che io ho avuto nel mio incontro, certo limitato, con i palestinesi non è tanto quella di un’identità contro un’altra, quanto dell’affermazione di un diritto a vivere in quella terra, contro la negazione di quel diritto non solo e non tanto diritto giuridico, sancito dal diritto internazionale, ma rivendicazione di un bisogno elementare e profondo della condizione umana e, direi, di ogni vivente: quello di avere delle radici, una storia, un passato su cui edificare un futuro.

Nel campo di Aida, vicino a Betlemme, sul portale d’ingresso c’è una grande chiave, segno di questo bisogno e  desiderio. Il bisogno/desiderio – più che un diritto sancito – di tornare alla terra natale, alla terra storica, alla propria casa, nel sentimento prima che nella consapevolezza che senza un’origine non si può avere un futuro. Nei campi di rifugiati, che sono appunto il non luogo dello sradicamento, lo si vede, lo si sente con la forza che hanno i corpi, gli sguardi, le cose. La Palestina come nazione, come Stato, viene dopo per ovvia e ormai necessaria contrapposizione speculare con lo Stato d’Israele, ma a me non pare il cuore della lunghissima resistenza palestinese.

Lo sradicamento riguarda ormai una parte grandissima e crescente di esseri umani in fuga da terre rese inospitali e pericolose. E crescono i muri. Quello fra Messico e stati Uniti. Quello ai confini dell’enclave spagnola di Ceuta. Il muro liquido del mediterraneo fra la Libia e la Sicilia, dentro cui sono sepolti a migliaia.

Ma riguarda anche gli stanziali, non solo nei paesi impoveriti, devastati da guerre e secolari sfruttamenti, ma anche noi, gli “occidentali”, veniamo, più lentamente, sradicati nei nostri stessi luoghi e con la nostra tranquilla  collaborazione.

Lo sradicamento è proprio di una civiltà che ha fatto del denaro la misura della vita – una misura astratta,  quantitativa, per se stessa radicalmente sradicante, più di ogni invasione:

“Il denaro distrugge le radici ovunque penetri, rimpiazzando ogni desiderio con il desiderio di guadagno. Vince senza fatica sugli altri desideri perché richiede un impegno di tutta la persona molto meno grande. Niente è così chiaro e semplice quanto un numero”. (Simone Weil, L’enracinement, Gallimard 1949, trad. mia).

Lo sradicamento riguarda oggi l’intera umanità, che si sta sradicando dalla radice comune, la terra o, più precisamente, il sistema terrestre, fonte e dimora della vita. E’ anche questo movimento storico verso uno sradicamento generale della condizione umana che provoca dei tentativi paranoici di radicamento, come quelli cosiddetti fondamentalisti, il ritorno violento e schematico d’immaginari religiosi estremizzati, come quelli islamici, quelli cristiani di matrice protestante negli stati Uniti, assurti sotto il secondo Bush alla presidenza, quello sionista, nato laico e divenuto sempre più confessionale.

In tal senso, quello che avviene in terra di Palestina è emblematico di una deriva generale della condizione umana, che nulla sembra in grado di arrestare. Anche per questo la capacità di vivere creativamente, persino gioiosamente e non solo di sopravvivere che abbiamo visto nei palestinesi è un messaggio per tutti noi.

Strano: la mia sensazione, dopo questo viaggio, è che loro aiutino noi più di quanto noi aiutiamo loro.

Gian Andrea

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