No, Israele non è una democrazia

Lug 13, 2020 | Riflessioni

Israele non è l’unica democrazia del Medio Oriente. Anzi, non è per nulla una democrazia.

diIlan Pappe

Da Dieci miti su Israele, ora pubblicato da Verso Books.

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Un checkpoint dell’esercito israeliano a Gerusalemme Est. Kashfi Halford / Flickr

Agli occhi di molti Israeliani e dei loro sostenitori in tutto il mondo –anche di quelli che potrebbero criticare alcune sue linee di condotta– Israele è, a conti fatti, un benevolo stato democratico, che cerca la pace con i suoi confinanti e che garantisce uguaglianza a tutti i suoi cittadini.

Quelli poi che criticano Israele ritengono che, se qualche cosa è andata storta, allora è a causa della guerra del 1967. Secondo questo punto di vista, la guerra ha corrotto una società onesta e di grandi lavoratori, offrendo soldi facili nei Territori Occupati, consentendo a gruppi messianici di entrare nella politica israeliana e, soprattutto, trasformando Israele in una oppressiva entità d’occupazione nei nuovi territori.

Il mito che un Israele democratico abbia cominciato ad avere dei problemi nel 1967, ma sia rimasto comunque una democrazia, è sostenuto anche da alcuni famosi studiosi palestinesi e filo-palestinesi, ma non ha fondamento storico.

Prima del 1967, Israele non era una democrazia

Prima del 1967 Israele, per certo, non avrebbe potuto essere dipinta come una democrazia. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, lo Stato sottopose un quinto della sua popolazione a un regime militare, basato su draconiane norme d’emergenza del Mandato Britannico, che hanno negato ai Palestinesi qualsiasi basilare diritto umano o civile.

Governatori militari locali rappresentavano l’autorità assoluta nella vita di questi cittadini: potevano escogitare per loro leggi speciali, distruggere le loro case e privarli dei mezzi di sostentamento; mandarli in prigione tutte le volte che volevano. Soltanto verso la fine degli anni ’50, si fece strada una forte opposizione ebraica a questi abusi, che, alla fine, alleggerì la pressione sui cittadini palestinesi.

Per i Palestinesi che sono vissuti nell’Israele dell’anteguerra e per quelli che sono vissuti nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dopo il 1967, questo regime permetteva perfino ai soldati di rango più basso dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane) di governare e di rovinare le loro vite. Non c’era alcuna speranza se un soldato di questo tipo, o la sua unità o il suo comandante, decideva di demolire le loro case, o di trattenerli per ore a un checkpoint, o di incarcerarli senza processo. Non c’era niente che potessero fare.

In qualsiasi momento dal 1948 ad oggi, c’è stato qualche gruppo di Palestinesi che ha vissuto un’esperienza del genere.

Il primo gruppo a soffrire sotto questo giogo è stato quello della comunità palestinese all’interno di Israele. Tutto è cominciato i primi due anni dopo la proclamazione dello Stato, quando i Palestinesi vennero forzati a risiedere in ghetti, come quello della comunità palestinese di Haifa che viveva sul monte Carmelo, o espulsi dalle città dove avevano abitato per decenni, come Safad. Nel caso di Isdud, l’intera popolazione fu spostata nella Striscia di Gaza.

Nelle campagne, la situazione era anche peggiore. I vari movimenti legati ai Kibbutz avrebbero voluto i villaggi palestinesi situati su fertili terreni. Tra questi anche il kibbutz socialista di Hashomer-Ha-Zair, apparentemente impegnato in una solidarietà binazionale.

Molto tempo dopo che le lotte del 1948 si erano placate, gli abitanti di Ghabsiyyeh, Iqrit, Birim, Qaidta, Zaytun, e di molti altri villaggi, furono indotti surrettiziamente a lasciare le proprie abitazioni per un periodo di due settimane, in quanto l’esercito disse che aveva bisogno delle loro terre per esercitazioni. Solo per scoprire, al ritorno, che i loro villaggi erano stati spazzati via o concessi a qualcun altro.

Questo stato di terrorismo militare è esemplificato dal massacro di Kafr Qasim dell’ottobre 1956, quando, alla vigilia dell’operazione del Sinai, 49 cittadini palestinesi furono uccisi dall’esercito israeliano. Le autorità dichiararono che questi stavano tornando a casa tardi dal lavoro nei campi, quando nel villaggio era stato imposto un coprifuoco. Questa, però, non è la ragione vera.

Prove successive dimostrano che Israele aveva considerato seriamente l’espulsione dei Palestinesi dall’intera area chiamata Ara Wadi e dal Triangolo in cui si trovava il villaggio. Queste due zone –la prima una valle che connette Afula, ad est, ad Adera sulla costa del Mediterraneo; la seconda che espande l’entroterra est di Gerusalemme– furono annesse a Israele seguendo le regole dell’armistizio con la Giordania del 1949.

Come abbiamo visto, l’acquisto di nuovo territorio era sempre ben visto da Israele, ma non altrettanto un aumento della popolazione palestinese. Quindi, ad ogni momento critico, ogniqualvolta lo stato di Israele si espandeva, cercava dei modi per limitare la popolazione palestinese nelle aree recentemente annesse.

Operazione “Hafarfert” (talpa) era il nome in codice di una serie di proposte per l’espulsione dei Palestinesi, quando scoppiò una nuova guerra con il mondo arabo. Molti studiosi oggi ritengono che il massacro del 1956 sia stata una prova generale per vedere se, con le minacce, si sarebbe riusciti a indurre i Palestinesi ad andarsene.

Gli autori del massacro furono portati in giudizio grazie alla diligenza e alla tenacia di due membri della Knesset: Tawaq Tubi del Partito Comunista e Latif Dori del Partito Sionista di sinistra Mapam. In ogni caso, il comandante responsabile dell’area e la stessa unità che aveva commesso il crimine, se la cavarono assai a buon mercato, ricevendo solo multe di piccola entità. Questa è una prova ulteriore che all’esercito era consentito farla franca in caso di omicidio nei Territori Occupati.

La crudeltà sistematica mostra il proprio volto non soltanto in un evento tragico come un massacro; le atrocità peggiori possono essere perpetrate anche dalla presenza quotidiana, ordinaria, del regime.

I Palestinesi di Israele, ad oggi, non parlano molto di quell’epoca prima del 1967, e i documenti di quel periodo non rivelano il quadro completo. Sorprendentemente, è in poesia che troviamo un’indicazione di come fosse realmente vivere sotto regime militare.

Natan Alterman fu uno dei più famosi ed importanti poeti della sua generazione. Teneva una rubrica settimanale chiamata “La settima colonna”, nella quale commentava gli eventi di cui aveva letto o aveva sentito parlare. Qualche volta ometteva dettagli sulla data o anche sul luogo dell’evento, ma offriva al lettore informazioni sufficienti per fargli capire a cosa si riferiva. Spesso esprimeva i propri attacchi sotto forma di poesia:

 La notizia è apparsa brevemente per due giorni, ed è scomparsa. E a nessuno sembra interessare, e nessuno                      sembra sapere. Nel lontano villaggio di Um-al-Fahem 
dei bambini –dovrei dire dei cittadini dello Stato– giocavano nel fango e uno di loro sembrava sospetto a uno dei nostri coraggiosi soldati, che
gli ha gridato: Fermati!
Un ordine è un ordine.
Un ordine è un ordine. Ma il ragazzino, incosciente, non si è fermato. È corso via.
Così il nostro coraggioso soldato ha sparato, naturalmente. E ha colpito e ucciso il ragazzo.
E nessuno ne ha parlato.

In un’altra occasione scrisse una poesia su due cittadini palestinesi uccisi a Wadi Ara. Un’altra volta, raccontò la storia di una donna palestinese, molto malata, che fu espulsa, senza spiegazioni, con i suoi due bambini di tre e sei anni e mandata oltre il fiume Giordano. Quando cercò di tornare, lei e i suoi bambini furono arrestati e mandati in una prigione a Nazareth.

Alterman sperava che la sua poesia sulla madre avrebbe commosso cuori e menti, o, almeno, provocato una qualche risposta ufficiale. Comunque, una settimana dopo commentò:

E questo scrittore dava per scontato, erroneamente che questa storia sarebbe stata negata o spiegata. Ma niente, non una parola.

Ci sono ulteriori testimonianze che Israele non fosse una democrazia prima del 1967. Lo Stato perseguiva una politica spara-per-uccidere nei confronti dei rifugiati che cercavano di recuperare la propria terra, il raccolto, gli animali e inscenò una guerra coloniale per far cadere il regime di Nasser in Egitto. Le sue forze di sicurezza avevano il grilletto facile e uccisero più di 50 cittadini palestinesi nel periodo dal 1948 al 1967.

Soggiogare le minoranze in Israele non è democratico

La cartina di tornasole di qualsiasi democrazia è il livello di tolleranza che essa è disposta ad estendere alle minoranze che vivono al suo interno. Da questo punto di vista, Israele è ben lontana dall’essere una vera democrazia.

Ad esempio, in seguito ai nuovi ampliamenti territoriali, furono approvate parecchie leggi che assicuravano alla maggioranza una posizione di superiorità: leggi che disciplinavano la cittadinanza, il possesso della terra, e, la più importante di tutte, la legge del ritorno.

Quest’ultima attribuisce automaticamente la cittadinanza a qualsiasi Ebreo del mondo, in qualsiasi posto sia nato. Questa legge, in particolare, è platealmente non democratica, in quanto è stata accompagnata da un rifiuto totale del diritto al ritorno palestinese, riconosciuto internazionalmente dalla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1948. Questo rifiuto del diritto al ritorno impedisce ai cittadini palestinesi di Israele di ricongiungersi con i loro più stretti familiari o con coloro che furono espulsi nel 1948.

Negare alla gente il diritto di ritornare sulla propria terra e, allo stesso tempo, offrire questo diritto ad altri che non hanno connessioni con quella terra, è un modello di pratica non democratica.

A ciò si aggiunga un’ulteriore coltre di diritti negati al popolo palestinese. Quasi tutte le discriminazioni perpetrate contro i cittadini palestinesi di Israele sono giustificate dal fatto che questi ultimi non fanno il servizio militare. L’abbinamento tra diritti democratici e obbligo militare si capisce meglio se riconsideriamo gli anni formativi in cui i politici di Israele si scervellarono per trovare soluzioni su come trattare un quinto della popolazione.

Essi presumevano che i cittadini palestinesi non volessero, in ogni caso, unirsi all’esercito e questo presunto rifiuto giustificava la politica discriminatoria nei loro confronti. Tale assunto fu messo alla prova nel 1954, quando il Ministro israeliano della Difesa decise di convocare tutti i cittadini palestinesi che avevano i requisiti per arruolarsi nell’esercito. I Servizi Segreti assicurarono il Governo che ci sarebbe stato un diffuso rifiuto alla convocazione.

Con loro grande sorpresa, tutti quelli che erano stato convocati si presentarono all’ufficio di leva, con il benestare del Partito Comunista, la più grande e più importante forza politica della comunità in quel momento. I servizi segreti più tardi spiegarono che la ragione principale era che i teenagers erano annoiati dalla vita rurale e avevano desiderio di un po’ d’azione e d’avventura.

Nonostante questo episodio, il Ministero della Difesa continuò a spacciare una narrazione che rappresentava la comunità palestinese come riluttante a servire nell’esercito.

Inevitabilmente, con il passare del tempo, i Palestinesi in realtà si sono rivoltati contro l’esercito israeliano, che è diventato il loro perpetuo oppressore, ma lo sfruttamento di quest’atteggiamento come pretesto per discriminarli solleva un dubbio enorme sulla pretesa dello Stato di essere una democrazia.

Se sei un cittadino palestinese e non hai fatto il servizio militare, i tuoi diritti all’assistenza di stato come lavoratore, studente, genitore o componente di una coppia sono drasticamente ridotti. Ciò si riflette in particolare sulla possibilità di trovare una casa o anche un lavoro, poiché il 70 % di tutta l’industria israeliana è considerata security-sensitive (sensibile alla sicurezza) e, quindi, chiusa a questo tipo di cittadini come luogo in cui trovare lavoro.

L’ipotesi sottintesa del Ministero della Difesa era che i Palestinesi non solo non avrebbero voluto fare il servizio militare, ma che erano potenzialmente dei nemici interni, dei quali non ci si poteva fidare. Ma questo ragionamento è contraddetto dal fatto che, in tutte le maggiori guerre tra Israele e il mondo arabo, la minoranza palestinese non si è comportata come ci si aspettava. Non ha costituito una quinta colonna, né si è sollevata contro il regime.

Questo comportamento, comunque, non li ha aiutati: ad oggi i Palestinesi sono visti come un problema “demografico” da risolvere. L’unica consolazione è che, ancora oggi, la maggior parte dei politici israeliani non crede che il modo per risolvere “il problema” sia il trasferimento o l’espulsione dei Palestinesi (almeno non in tempo di pace).

La politica israeliana della terra non è democratica

La pretesa di essere una democrazia è discutibile anche quando si consideri la politica economica relativa alla questione della terra. Dal 1948, le giunte e le municipalità locali palestinesi hanno ricevuto molti meno fondi rispetto alla loro controparte ebraica. La mancanza di terra, assieme alle scarse opportunità di lavoro, crea una realtà socioeconomica abnorme.

Per esempio, la più ricca comunità palestinese, il villaggio Me’ilya nell’alta Galilea, si trova comunque a un livello molto peggiore della più povera città ebraica recentemente sviluppata nel Negev. Nel 2011 il “Jerusalem Post” ha riportato che “il reddito medio ebraico era dal 40 al 60 % più alto del reddito medio arabo negli anni tra il 1997 e il 2009.”

Oggi, più del 90% della terra è proprietà del Jewish National Fund (JFN). Ai proprietari terrieri non è concesso fare compravendite con cittadini non-ebrei, e il terreno demaniale viene utilizzato prioritariamente per progetti nazionali. Il che significa che, mentre vengono costruiti nuovi insediamenti ebraici, non c’è quasi nessun nuovo insediamento palestinese. Così, la più grande cittadina palestinese, Nazareth, nonostante la sua popolazione sia triplicata dal 1948, non si è espansa di un chilometro quadrato. Al contrario, la città costruita al suo fianco, Upper Nazareth, ha triplicato le sue dimensioni, su terra espropriata a proprietari palestinesi.

Ulteriori esempi di questa politica si possono trovare in villaggi palestinesi in tutta la Galilea: tutti raccontano la medesima storia. E cioè come, dal 1948, la loro superficie sia stata ridotta del 40%, talvolta addirittura del 60%, e come nuovi insediamenti ebraici siano stato costruiti su terre espropriate.

In altre parti, queste politiche hanno iniziato tentativi di “Giudeizzazione” in piena regola. Dopo il 1967, il governo israeliano si è preoccupato della mancanza di Ebrei che vivessero nel nord e nel sud dello Stato. E ha quindi pianificato di aumentare la popolazione in quelle aree. Un cambio demografico di questo tipo ha generato la necessità di confiscare terra palestinese per costruirvi insediamenti ebraici.

La cosa peggiore è stata l’esclusione dei cittadini palestinesi da questi insediamenti. L’aperta violazione del diritto di un cittadino di vivere dove vuole continua tutt’oggi, e tutti gli sforzi fatti da varie Associazioni Non Governative ( ONG) in Israele per sfidare questo apartheid, si sono conclusi, ad oggi, con un fallimento totale.

La Corte Suprema di Israele è solo stata capace di mettere in discussione la legalità di questa pratica in pochi casi individuali, ma non in linea di principio. Immaginate se nel Regno Unito o negli Stati Uniti, cittadini ebrei, o anche cattolici, non potessero, per legge, vivere in certi villaggi, quartieri o, forse, intere città. Come potrebbe una situazione del genere, essere riconciliata con la nozione di democrazia?

L’Occupazione non è democratica

Quindi, dato il suo atteggiamento nei confronti di due gruppi palestinesi –i rifugiati e la comunità in Israele– lo stato ebraico non può, nemmeno con uno sforzo d’immaginazione, essere considerato una democrazia.

Ma la contestazione più ovvia a questa ipotesi viene dallo spietato atteggiamento israeliano nei confronti di un terzo gruppo palestinese: coloro che hanno vissuto sotto il suo dominio diretto e indiretto dal 1967, a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Dall’organizzazione giuridica messa in atto fin dall’inizio della guerra, al potere indiscusso ed assoluto dell’esercito all’interno della Cisgiordania ed all’esterno della Striscia di Gaza, con l’umiliazione di milioni di Palestinesi divenuta una pratica quotidiana, “l’unica democrazia” in Medio Oriente si comporta come una dittatura del peggior tipo.

La risposta israeliana più frequente, in ambito diplomatico ed accademico, a quest’ultima accusa è che tutte queste misure sono temporanee – che cambieranno se i Palestinesi, ovunque essi siano, si comporteranno “meglio”. Ma se si studia, o addirittura si vive nei territori occupati, si capirà quanto siano ridicoli questi argomenti.

I responsabili politici israeliani, come abbiamo già visto, sono determinati a mantenere in vita l’occupazione fintanto che lo stato ebraico rimarrà intatto. L’occupazione fa parte di ciò che il sistema politico israeliano considera essere lo status quo, che è sempre meglio di qualsiasi cambiamento. Israele controllerà la maggior parte della Palestina e, dal momento che questa includerà sempre una rilevante popolazione palestinese, questo controllo potrà avvenire solo con metodi non democratici.

In aggiunta, nonostante tutta l’evidenza del contrario, lo stato israeliano afferma che l’occupazione è di natura illuminata. Il mito che viene propagandato qui è che Israele è venuto con le migliori intenzioni per condurre una occupazione benevola, ma che è stato costretto ad adottare un atteggiamento più duro a causa della violenza dei Palestinesi. 

Nel 1967, il governo ha trattato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza come una parte naturale di “Eretz Israel”, la terra di Israele, e questo atteggiamento è continuato da allora. Quando si guarda al dibattito tra i partiti di destra e di sinistra in Israele su questo tema, il loro disaccordo è stato sul come raggiungere questo obiettivo, non sulla sua validità.

Tra il grande pubblico, tuttavia, vi fu un vero dibattito tra quelli che si potrebbero chiamare i “redentori” ed i “custodi”. I “redentori” credevano che Israele avesse recuperato l’antico cuore della sua terra natale e che senza di esso non avrebbe potuto sopravvivere in futuro. Al contrario, i “custodi” sostenevano che i territori avrebbero dovuto essere offerti in cambio della pace con la Giordania nel caso della Cisgiordania, e con l’Egitto nel caso della Striscia di Gaza. Tuttavia, questo dibattito pubblico ha avuto poco impatto sul modo in cui i principali responsabili politici hanno deciso come governare i territori occupati.

La parte peggiore di questa presunta “occupazione illuminata” sono stati i metodi del governo per la gestione dei territori. Inizialmente l’area fu divisa in spazi “arabi” e spazi potenzialmente “ebrei”. Le aree ad alta densità di popolazione palestinese divennero autonome, gestite da collaboratori locali sotto una amministrazione militare. Questo regime è stato sostituito da una amministrazione civile solo nel 1981.

Le altre aree, gli spazi “ebraici”, furono colonizzati con insediamenti ebraici e basi militari. Questa politica ha avuto lo scopo di lasciare la popolazione sia in Cisgiordania sia nella Striscia di Gaza in enclave scollegate tra loro senza spazi verdi né alcuna possibilità di espansione urbana.

Le cose sono solo peggiorate quando, subito dopo l’ occupazione, Gush Emunim ha dato il via agli insediamenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, affermando che stava seguendo una mappa di colonizzazione biblica piuttosto che un progetto governativo. Mentre i coloni sono penetrati in aree palestinesi densamente popolate, la spazio lasciato per i nativi si è ridotto sempre di più.  

Ciò di cui ogni progetto di colonizzazione ha bisogno in primo luogo è la terra: nei territori occupati questa è stata ottenuta solo attraverso la massiccia espropriazione di terre, la deportazione delle persone da dove avevano vissuto per generazioni, ed il confinamento della popolazione in enclave con condizioni ambientali difficili.

Quando si vola sopra la Cisgiordania, si possono vedere chiaramente i risultati cartografici di questa politica: cinture di insediamenti che dividono il territorio e racchiudono le comunità palestinesi in ambiti piccoli, isolati e disconnessi. Le cinture di giudaizzazione separano tra loro i villaggi, i villaggi dalle città e talvolta dividono in due un singolo villaggio.

Questo è quello che gli studiosi chiamano una geografia del disastro, non per ultimo perché queste politiche si sono rivelate anche un disastro ecologico: per l’esaurimento delle sorgenti d’acqua e per il degrado di alcune delle parti più belle del paesaggio palestinese.

Inoltre, gli insediamenti sono diventati focolai in cui l’estremismo ebraico è cresciuto in maniera incontrollata – e le principali vittime di questo estremismo sono stati i Palestinesi. Così, l’insediamento a Efrat ha rovinato il sito classificato come patrimonio mondiale della valle di Wallajah nei pressi di Betlemme, mentre il villaggio di Jafneh nei pressi di Ramallah, che era famoso per i suoi canali di acqua dolce, ha perso la sua identità come attrazione turistica. Questi sono solo due piccoli esempi su centinaia di casi simili.

 Distruggere le case dei Palestinesi non è democratico

La demolizione di case non è un nuovo fenomeno in Palestina. Come molti dei metodi più barbari di punizione collettiva usati da Israele dal 1948 in poi, anche questo è stato inizialmente ideato e messo in pratica dal governo del mandato inglese durante la Grande Rivolta Araba del 1936-39.

Questa è stata la prima rivolta palestinese contro la politica pro-sionista del mandato britannico, e ha richiesto tre anni all’esercito britannico per sedarla. Nel corso delle operazioni, l’esercito britannico ha demolito circa duemila case durante le varie punizioni collettive inflitte alla popolazione locale.

Israele ha demolito case quasi dal primo giorno della sua occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. L’esercito ha fatto saltare in aria centinaia di case ogni anno in risposta a vari atti compiuti da singoli membri della famiglia.

Si trattasse di lievi violazioni dei regolamenti militari o della partecipazione ad atti violenti contro l’occupazione, gli Israeliani inviavano velocemente i loro bulldozer per radere al suolo non solo un edificio fisico, ma anche un centro di vita e di esistenza. Nell’area di Gerusalemme (come in tutto Israele) la demolizione è stata anche una punizione per l’ampliamento di una casa già esistente senza licenza o per il mancato pagamento di bollette.

Un’altra forma di punizione collettiva che è recentemente tornata nel repertorio israeliano è quella di sigillare le case. Immaginate che tutte le porte e le finestre della vostra casa siano chiuse da cemento, malta e pietre, così che voi non possiate più rientrarci o recuperare qualsiasi cosa non siate riusciti a prendere in tempo. Ho cercato a fondo nei miei libri di storia per trovare esempi simili, ma non ho trovato nessuna evidenza di provvedimenti così brutali praticati altrove.  

Schiacciare la resistenza palestinese non è democratico

Infine, sotto “l’occupazione illuminata”, è stato permesso ai coloni di formare bande di vigilantes per molestare le persone e distruggere le loro proprietà. Queste bande hanno modificato il loro comportamento nel corso degli anni.

Durante gli anni ’80, hanno usato il vero terrore – dal ferimento dei leader palestinesi (uno di loro ha perso le gambe in uno di questi attentati), al progetto di far esplodere le moschee del Monte del Tempio a Gerusalemme.

In questo secolo, essi sono impegnati nella intimidazione quotidiana dei Palestinesi: sradicare i loro alberi, distruggendo i loro raccolti, e sparando a caso alle loro case e ai loro veicoli. Dal 2000 ci sono stati almeno un centinaio di questi attacchi segnalati ogni mese in alcune zone come ad esempio a Hebron, dove i cinquecento coloni, con la collaborazione silenziosa dell’esercito israeliano, hanno terrorizzato in modi ancora più brutali gli abitanti che vivono nelle zone circostanti. 

Come conseguenza, fin dall’inizio dell’occupazione, i Palestinesi hanno avuto due opzioni: accettare la realtà di una definitiva incarcerazione in una gigantesca prigione per un tempo molto lungo, o affrontare la potenza del più forte esercito del Medio Oriente. Quando i Palestinesi hanno davvero utilizzato pratiche di resistenza –come hanno fatto nel 1987, 2000, 2006, 2012, 2014 e 2016– sono stati affrontati come se fossero soldati e unità di un esercito convenzionale. Così, i villaggi e le città sono stati bombardati, come se fossero state basi militari, mentre la popolazione civile disarmata è stata presa a fucilate come se si fosse trattato di un esercito sul campo di battaglia.

Oggi noi ne sappiamo fin troppo della vita sotto occupazione, prima e dopo Oslo, per prendere sul serio l’affermazione che l’abbandono di ogni pratica di resistenza garantirà meno oppressione. Gli arresti senza processo, affrontati da così tante persone nel corso degli anni; la demolizione di migliaia di case; l’uccisione e il ferimento di innocenti; l’inaridimento dei pozzi d’acqua – queste sono tutte testimonianze di uno dei regimi più duri dei nostri tempi.

Amnesty International documenta annualmente in modo molto esauriente la natura dell’occupazione. Quanto segue è estratto dal loro rapporto 2015:  

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno commesso omicidi illegali di civili palestinesi, compresi bambini, e arrestato migliaia di Palestinesi che hanno protestato o si sono opposti in altri modi alla perdurante occupazione militare di Israele, trattenendone centinaia in detenzione amministrativa. Tortura e altri maltrattamenti hanno continuato ad essere all’ordine del giorno e sono stati commessi impunemente.

Le autorità hanno continuato a promuovere gli insediamenti illegali in Cisgiordania e hanno fortemente limitato la libertà di movimento dei Palestinesi, rafforzando ulteriormente le restrizioni nel corso di un’escalation di violenza iniziata ad ottobre, che ha visto attacchi a civili israeliani da parte dei Palestinesi ed evidenti esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze israeliane. I coloni israeliani in Cisgiordania hanno attaccato i Palestinesi e le loro proprietà restando praticamente impuniti. La Striscia di Gaza è rimasta sotto il blocco militare israeliano che ha imposto una punizione collettiva ai suoi abitanti. Le autorità hanno continuato a demolire case palestinesi in Cisgiordania e in Israele, soprattutto in villaggi beduini nel Negev (Naqab), sfrattandone in maniera forzosa i residenti.

Guardiamo le fasi di questo processo. In primo luogo, gli omicidi, che il rapporto di Amnesty chiama “uccisioni illegali”: circa quindicimila Palestinesi sono stati uccisi “illegalmente” da Israele dal 1967 ad oggi. Tra di loro c’erano duemila bambini.

Imprigionare i Palestinesi senza processo non è democratico

Un’altra caratteristica “dell’occupazione illuminata” è l’incarcerazione senza processo. Un Palestinese su cinque in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza ha vissuto questa esperienza.

È interessante confrontare questa pratica israeliana con simili politiche americane, del passato e anche attuali, giacché i critici del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) affermano che le pratiche americane sono di gran lunga peggiori. In realtà, il peggior esempio statunitense è stato l’incarcerazione senza processo di centomila cittadini giapponesi durante la seconda guerra mondiale, con circa trentamila di essi detenuti in seguito durante la cosiddetta “guerra al terrorismo”.

Questi numeri non sono nemmeno prossimi al numero di Palestinesi che hanno vissuto un’esperienza simile: tra questi ultimi ci sono stati quelli molto giovani, i vecchi, e quelli che sono stati incarcerati per tempi assai lunghi.

L’arresto senza processo è un’esperienza traumatica. Non conoscere le accuse nei propri confronti, non avere alcun contatto con un avvocato e quasi nessun contatto con la propria famiglia sono solo alcune delle preoccupazioni che assillano un prigioniero. Più brutalmente, molti di questi arresti sono usati come mezzo per spingere le persone a collaborare. Diffondere voci o svergognare persone per il loro orientamento sessuale, presunto o reale, sono pratiche spesso utilizzate come metodi per ottenere la complicità dei detenuti.

Per quanto riguarda la tortura, l’affidabile sito Middle East Monitor ha pubblicato uno straziante articolo che descrive i duecento metodi utilizzati dagli Israeliani per torturare i Palestinesi. L’elenco si basa su un rapporto delle Nazioni Unite e su un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Tra i vari metodi sono incluse le percosse, l’incatenamento dei prigionieri per ore a una porta o una sedia, versare acqua fredda o calda su di loro, strappar loro le dita, e torcere i testicoli. 

Israele non è una democrazia

Quello che dobbiamo sfatare, di conseguenza, non è solo la pretesa di Israele di condurre un’occupazione illuminata, ma anche la sua pretesa di essere una democrazia. Questi comportamenti nei confronti di milioni di persone sotto il suo dominio sbugiardano un tale raggiro politico.  

Tuttavia, anche se una gran parte delle società civili di tutto il mondo negano ad Israele la sua pretesa di essere una democrazia, le loro classi dirigenti politiche, per una molteplicità di ragioni, ancora trattano Israele come un membro del club esclusivo degli stati democratici. In molti modi, la popolarità del movimento BDS riflette le frustrazioni di quelle società riguardo alle politiche dei loro governi nei confronti di Israele.

Per la maggior parte degli Israeliani queste argomentazioni sono irrilevanti nella migliore delle ipotesi e perfide nella peggiore. Lo stato israeliano si trincera dietro la pretesa di essere un occupante benevolo. Grazie a questa “occupazione illuminata”, secondo il cittadino ebreo medio in Israele, i Palestinesi stanno molto meglio sotto l’occupazione che non senza, per cui non hanno alcuna ragione al mondo per resistere ad essa, tanto meno con la forza. Anche i sostenitori esteri senza se e senza ma di Israele accettano questa descrizione.

Ci sono, tuttavia, parti della società israeliana che riconoscono la validità di alcune delle critiche riportate sopra. Negli anni ’90, con vari gradi di convinzione, un significativo numero di Ebrei del mondo academico, di giornalisti e di artisti hanno espresso i loro dubbi circa la definizione di Israele come una democrazia.

Ci vuole un po’ di coraggio per sfidare i miti fondativi della propria società e del proprio Stato. Questo è il motivo per cui parecchi di loro, in seguito, hanno ritrattato questa posizione coraggiosa e sono tornati a seguire la linea generale.

Tuttavia, durante l’ultimo decennio del secolo scorso, questi Israeliani hanno prodotto opere che hanno messo in discussione l’ipotesi di uno stato di Israele democratico. Hanno raffigurato Israele come appartenente ad una ben diversa comunità: quella delle nazioni non democratiche. Uno di loro, il geografo Oren Yiftachel della Università Ben-Gurion, ha dipinto Israele come una etnocrazia, un regime che governa uno stato etnicamente misto con una preferenza legale e formale per un gruppo etnico su tutti gli altri. Altri si sono spinti oltre, etichettando Israele come uno stato di apartheid o uno stato coloniale. 

In breve, qualunque fosse la definizione offerta da questi studiosi critici, il termine “democrazia” non ne faceva parte.

http://www.jacobinmag.com/2017/05/israel-palestine-democracy-apartheid-discrimination-settler-colonialism

Traduzione di Anna Maria Torriglia e Maurizio Bellotto – AssopacePalestina

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