Sotto l’ululato della fame

di Alaa Alqaisi

Arablit, 23 luglio 2025.  

Molto prima che la fame si impadronisca del corpo, essa allenta le fondamenta del linguaggio, cancellando la lucidità, smantellando il ritmo e lasciando dietro di sé i fragili detriti del pensiero. Ciò che inizia come un paragrafo coerente si dissolve rapidamente in frammenti, finché non rimane altro che il tremore involontario di una mente troppo affamata per trattenere il significato. E così, prima che il linguaggio mi abbandoni completamente, scrivo questo, non tanto per essere compresa quanto per rimanere rintracciabile, per lasciare dietro di me la forma del pensiero prima che scivoli nel silenzio.

Cerco di perdermi nel lavoro, di dimenticare, anche solo per un momento, questo dolore che avvolge la nostra piccola città assediata. Non è solo il dolore dello spirito o il lutto, anche se ce n’è in abbondanza; è una fame fisica, implacabile, che mi divora dall’interno, che sale con un ululato basso e costante che riecheggia nel corpo come un secondo battito cardiaco. Si aggrappa alle mie costole come una maledizione sussurrata troppe volte per poter essere cancellata. Non importa quanto cerchi di distrarmi, piegando di nuovo la stessa camicia, traducendo una frase familiare, mescolando il sale nell’acqua bollente come se potesse cambiare qualcosa, la fame riemerge con silenziosa autorità, come fumo che si insinua attraverso crepe invisibili nel pavimento. Le lettere sullo schermo si confondono. Le parole che un tempo maneggiavo con disinvoltura ora mi sfuggono, scivolando fuori dalla mia portata come se anche loro cercassero di fuggire da questo luogo. Mi alzo per pregare, ma nel momento in cui mi metto in piedi, le vertigini mi assalgono, acute e improvvise, avvolgendo le loro dita intorno alla mia gola. Le gambe mi tremano e mi chiedo se sono diventata troppo vuota per stare davanti a Dio.

La fame sviluppa un linguaggio proprio, silenzioso e corrosivo. Non arriva con drammi o rumori, ma si insinua nel corpo e nella mente fino a renderli molli, piegati, logori. Si deposita come polvere: sui pensieri, sui ricordi, sul fragile guscio della pelle. George Orwell, le cui parole una volta sembravano appartenere a un altro tempo e a un altro luogo, ora parla direttamente alla vertigine che mi offusca la vista: “La fame riduce una persona a una condizione di totale mancanza di spina dorsale e di cervello… come se fosse stata trasformata in una medusa”. Quella metafora, un tempo grottesca e astratta, ora mi sembra precisa. Questo è ciò che sono diventata: senza struttura, alla deriva, incapace di ancorare il pensiero all’intenzione. Cerco un’idea e trovo che si dissolve prima che io riesca ad afferrarla, lasciando dietro di sé solo una pallida impressione di ciò che un tempo viveva con chiarezza.

Ci sono momenti in cui Gaza sembra meno una città e più il residuo di un incubo che apparteneva a qualcun altro, a uno spettatore lontano che l’ha sognato e poi si è dimenticato di svegliarsi. Non sembra parte del mondo, non nel modo in cui le città sono collegate ai fiumi, alle nazioni o al tempo. Sembra invece che siamo stati cuciti in una sceneggiatura parallela, un mito ripetuto all’infinito a beneficio di chi guarda senza conseguenze. Ma a differenza dei miti, questo non ha un arco morale, né una catarsi. Non c’è fine all’orrore, né dissolvenza in nero. I bambini qui continuano a invecchiare senza mai crescere. Gli anziani parlano del pane come altri parlano degli amori perduti. E da qualche parte, sempre, c’è un pubblico che chiede come finisce questa storia. Ma per noi che la viviamo, non c’è fine, solo il lento svanire delle possibilità con ogni giorno di silenzio.

L’assedio pesa molto sul linguaggio stesso. Anche le mie frasi ne soffrono. La sintassi cede sotto la pressione degli stomaci vuoti. La grammatica non può competere con la disperazione. Mi siedo davanti alla tastiera e cerco di evocare ciò che un tempo mi veniva così naturale, ma le parole si disperdono a metà strada, come uccelli spaventati che dimenticano come volare. Non è una questione di dimenticanza, ma di erosione, un costante disfacimento di tutto ciò che credevo mi appartenesse. Eppure io insisto. Parlo. Scrivo. Perché il silenzio sarebbe una forma di sconfitta ancora più profonda. La testimonianza, anche se frammentaria e incerta, è l’unica cosa che posso ancora offrire. Tenerla chiusa dentro di me significherebbe lasciare che questa fame consumi anche la voce che le dà nome.

Vivere a Gaza oggi richiede una coreografia dell’assenza. Non camminiamo, andiamo alla deriva. Non mangiamo, cerchiamo. Non dormiamo, restiamo all’erta, con le orecchie tese al rumore che ci farà scappare. La sopravvivenza è un rituale di adattamento in un mondo che non offre nulla. Eppure, in mezzo a queste routine spezzate, incontro ancora momenti che mi ricordano la nostra ostinata umanità. Una donna spezza a metà l’ultimo pezzo di pane e lo offre alla vicina. Un bambino disegna fiori colorati su un muro annerito dal fuoco e dalla fuliggine. Una nonna recita Al-Fatiha sull’acqua bollente, anche se sa che non c’è nulla da aggiungere. Questi gesti non sono illusioni. Sono atti di resistenza. In un luogo dove le istituzioni e i sistemi sono crollati, è il gesto umano, offerto liberamente, che preserva il sacro.

La fame rivela verità che nessuno cerca. Spoglia ogni illusione confortante e mostra ciò che rimane quando non c’è più nulla da perdere. Ho imparato che la dignità non è un possesso, ma una pratica: emerge dal modo in cui si sopporta, non da ciò che si possiede. Ho capito che anche la memoria è una forma di sfida. Dare un nome al proprio dolore, registrarlo fedelmente, significa rifiutare la cancellazione. Non cerco pietà. La pietà appiattisce. Trasforma Gaza in un oggetto, in un monito, in un titolo troppo spesso ripetuto per suscitare una reazione. Quello che cerco, quello su cui insisto, è il ricordo. Non solo della fame, ma delle menti che ha offuscato, delle mani che tremano su un’ultima tazza di tè, degli occhi che scrutano il cielo non alla ricerca di stelle ma di segni di fuoco.

Qui le metafore sono spezzate. Anche la bellezza, in questo luogo, arriva con una ferita. Eppure, il cipresso nel nostro vicolo continua a fiorire, rosso di sfida. Eppure, una bambina canticchia mentre salta sulle pozzanghere piene di cenere. Eppure, io scrivo. Perché da qualche parte in questa devastazione, il significato sopravvive. Non il significato come spiegazione – non c’è giustificazione per questo – ma il significato come testimonianza, come presenza, come rifiuto di essere dimenticati. Noi eravamo qui. Abbiamo amato, abbiamo pianto, abbiamo pensato. Abbiamo costruito un linguaggio dalle rovine, abbiamo plasmato storie dalla cenere e ci siamo aggrappati alla memoria anche quando ci scivolava tra le mani come fosse acqua.

E quando il mondo finalmente volterà pagina, se mai lo farà, che non si dica che Gaza era silenziosa. Che non si immagini che siamo scomparsi senza dire una parola. Abbiamo parlato con la bocca piena di polvere. Abbiamo cantato, anche con i denti rotti. Abbiamo pregato con le ginocchia fratturate. E anche se il mondo ha distolto lo sguardo, che questo almeno sia ricordato: abbiamo dato un nome alla fame. L’abbiamo sopportata. Abbiamo resistito. Che questo rimanga.

Alaa Alqaisi è una traduttrice, scrittrice e ricercatrice palestinese di Gaza, profondamente appassionata di letteratura, lingua e del potere della narrazione di unire le culture e testimoniare le realtà vissute.

https://arablit.org/2025/07/23/beneath-the-howl-of-hunger/

Traduzione a cura di AssopacePalestina

Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

Lascia un commento