di Rita Baroud,
La Repubblica, 12 maggio 2025.
La fuga dalla guerra, la lotta per non perdere identità e memoria: il racconto dell’autrice del nostro “Diario da Gaza”
MARSIGLIA – Ci sono voluti 570 giorni per lasciare Gaza. Cinquecentosettanta giorni di bombardamenti, sfollamenti, perdite, fame e paura. Cinquecentosettanta mattine senza un sonno profondo, senza il sapore del pane fresco, senza il suono del silenzio. Ogni giorno pensavo di aver toccato il fondo, solo per scoprire poi che l’abisso era più profondo, più crudele. Il 23 aprile 2025 tutto è finito — e tutto è cominciato. Sono salita su un autobus, lasciandomi alle spalle una città che non mi ha mai lasciata davvero.
Portavo con me solo una piccola borsa, un corpo logorato dalla guerra e una memoria bruciata dall’odore delle macerie. La strada verso l’uscita da Gaza non era un sentiero di salvezza. Era un passaggio verso l’ignoto, un attraversamento che sembrava un tradimento. Non solo del mio popolo, ma anche della mia memoria, della mia voce, delle storie che non avevo ancora scritto. Un addio alla memoria stessa.
Al valico di Kerem Shalom, per la prima volta, ho sentito che non stavo semplicemente lasciando un luogo, ma stavo abbandonando un’intera lingua che viveva dentro di me e parlava di una fine: i soldati, i fucili, gli sguardi freddi, il pesante cancello di ferro, persino l’aria sembrava occupata.
I soldati ci hanno ordinato di non scattare foto, di non portare nulla con noi. Ma io ho nascosto il mio taccuino nella tasca dei pantaloni — come chi cela una ferita che non vuole guarire. Temevo che lo confiscassero, che mi portassero via l’ultima parte di me, l’unica prova che ero stata lì, che avevo visto, che avevo scritto. Intanto ci perquisivano come se non avessimo dei nomi, come fossimo solo dei numeri. Ogni gesto ci diceva che non siamo sopravvissuti, ma esiliati. Ad ogni passo sul suolo del valico, la mia memoria si restringeva, come se qualcosa in me si stesse erodendo metro dopo metro. Non ho pianto davanti ai soldati. Ma dentro, stavo crollando, come se stessi seppellendo una patria nel mio petto, senza nemmeno una tomba a contenerla.
Quando l’autobus ha cominciato a muoversi, ho sentito la terra scivolarmi da sotto i piedi. Non riuscivo a credere che le ruote stessero davvero girando, che il cancello non si fosse chiuso davanti a noi, che nessuno ci avesse richiamati indietro. Mi sono seduta accanto al finestrino, osservando in silenzio tutto svanire.
Ogni angolo, ogni strada, ogni muro distrutto: sembrava che stessi dicendo addio a una città che, a sua volta, di rimando mi salutava. Per le strade di Khan Younis, tra le ombre delle macerie di Rafah, ho rivisto la mia infanzia bruciare, come se le macerie da cui fuggivo mi rimproverassero in silenzio: perché stai andando via da sola? Perché sei l’unica a sopravvivere?
Abbiamo attraversato le macerie e io — giornalista abituata a scrivere del dolore — ero incapace di descrivere questo tipo di morte: la morte del restare vivi. Sull’autobus tutti tacevano. Alcuni piangevano, altri chiudevano gli occhi come a voler cancellare il momento. Io, invece, scrivevo in silenzio. Non per pubblicare, ma per conservare. Come se la memoria avesse bisogno di prove — come se temessi che questo dolore potesse scivolarmi via e io diventassi una sconosciuta a me stessa.
L’arrivo in Giordania
Siamo arrivati in Giordania dopo molte ore di viaggio. I volti attorno a me hanno iniziato a cambiare — gli occhi spenti ritrovavano il colore, i corpi stanchi cominciavano a ricordare di essere umani. Abbiamo passato la notte in un grande hotel pulito, con acqua calda e un letto che non crollava sotto di te. Ma io non riuscivo a dormire. L’odore della stanza non era come quello di Gaza. Il silenzio non era il silenzio dello sfollamento. La calma non portava pericolo — eppure sentivo come se qualcosa mi stesse osservando. Non una persona, ma la colpa.
Sono andata a fare la doccia, sperando in un sollievo. Ma nel momento in cui l’acqua calda ha toccato la mia pelle, ho cominciato a piangere. Ho pianto come mai prima.
Cinquecentosettanta giorni di attesa e polvere, di acqua fredda versata da bottiglie di plastica all’aperto si sono sciolti con quella prima goccia. Ho ricordato quelli che non ce l’hanno fatta. Quelli che non sono usciti. Quelli che non hanno mai conosciuto questo calore. E mi sono chiesta con voce tremante e sommessa: è un diritto? O un privilegio che non merito. Quella notte ho scritto più di quanto abbia dormito. come se scrivere fosse tutto ciò che mi restava, l’unico modo per dire: sono ancora qui, anche se sono altrove.
Il mare di Gaza
Cammino per le strade come una sconosciuta tra i sopravvissuti, con un corpo stanco e una piccola borsa, ma dentro di me ci sono solo macerie. Marsiglia è una città sul mare — ma non è quello di Gaza. Qui le onde sono morbide, eleganti, mentre laggiù urlano.
Ogni giorno vado al porto, fisso l’acqua come per cercare frammenti del mio volto persi tra le rovine. La gente parla una lingua che non capisco. Ma anche se la capissi, nessuno conosce lo sguardo affamato di un bambino o come si dorme col terrore delle bombe. A Marsiglia non c’è nulla di visibile che mi sta uccidendo. Ma la voglia di piangere mi lacera. La colpa non tace mai. Mangio, e poi smetto: come posso farlo se a Gaza non hanno nemmeno la farina? Come posso dormire se loro sono svegli nel terrore dei raid?
Tutto in Francia parla di vita: strade larghe, panifici pieni, risate di bambini, alberi in fiore. Ma dentro di me non c’è vita. Ho la polvere ancora attaccata alle costole. La notte ascolto il silenzio senza droni e sirene. Ma anziché darmi conforto mi fa sentire il vuoto che la guerra ha scavato dentro. Chiudo gli occhi e vedo il volto del mio vicino colpito mentre faceva il pane. Sento la voce di mio cugino. Rivedo il cratere al posto di casa mia. Di notte tremo: non per il freddo, ma per il peso della sopravvivenza. È questa la vita? Uscire dal fuoco per vivere in una pelle che non mi appartiene più? Vivere sapendo che gli altri stanno ancora morendo?
L’esilio è sentirmi qualcuno che non riconosco più
Questo è l’esilio. Sentirmi qualcuno che non riconosco più. Io, che insistevo per restare, ora sono lontana. Io, che scrivevo dell’assedio, ora sono colei che è fuggita. Me lo porto sulle spalle, nella voce, in ogni parola. Persino il mio volto è cambiato. Mi guardo allo specchio e non so più chi sono: quella che ha resistito? O quella che è sfuggita alla morte? O nessuna delle due, solo una somma di perdite? E ogni giorno mi sveglio con una domanda: tornerò? Ci sarà qualcosa a cui tornare? Sarò capace di farlo? A Gaza sopravvivere era una lotta contro la morte fisica, qui è una battaglia contro la scomparsa della mia identità. Sono una rifugiata? Una scrittrice? Una testimone? O solo un corpo che cammina legato a un luogo che non esiste più?
Il mondo mi chiama sopravvissuta, ma io mi sento una pagina strappata da un libro che nessuno vuole leggere. Ogni volta che dico “sono palestinese”, vedo negli occhi degli altri qualcosa che non riesco o a spiegare — un misto di pietà, distanza e paura. Ma io non voglio pietà. Voglio che mi si ascolti. Che si sappia che dietro ogni cifra, ogni statistica, ogni breaking news, c’è una storia come la mia.
A Marsiglia a volte mi sveglio pensando di essere ancora a Gaza. Poi apro gli occhi e realizzo che sono salva. Ma non intera. Salva non significa guarita. Viva non significa libera. Sopravvissuta non significa che ho superato. Non lo scrivo per commuovere, ma per resistere. Perché la memoria è tutto ciò che possiedo. E se la mia storia sparisce, allora è come se non fossi mai esistita.
E io sono esistita. Io sono ancora qui. E scrivere è il mio modo di tornare.
Dalle pagine del nostro giornale la 22enne giornalista palestinese Rita Baroud ha raccontato dal maggio 2024 la guerra con il “Diario da Gaza”, scritto da Deir al-Bala
https://www.repubblica.it/esteri/2025/05/12/news/diario_gaza_fuga_francia_rita_baroud-424181145
Grazie a Rita di condividere con coraggio le sue esperienze e sentimenti. Per tutte e tutti noi è importante sapere. Grazie a chi rompe i silenzi e le indifferenze, complici del massacro del popolo palestinese e dei suoi diritti.