di Amira Hass,
Haaretz, 22 agosto 2025.
Immaginate i vostri amici, costretti a fuggire per almeno l’ottava volta: affamati, addolorati, in fuga dai bombardamenti. Mentre Gaza viene svuotata da bombe e bulldozer, il silenzio israeliano è un’altra forma di violenza.

Probabilmente ai miei amici di Gaza verrà presto ordinato di “evacuare” dai loro rifugi di fortuna e di essere “assorbiti” nella parte meridionale della Striscia di Gaza, proprio come i miei genitori furono una volta “evacuati e assorbiti”: mia madre nel Campo di Concentramento dì Bergen-Belsen, mio padre in un ghetto in Transnistria (Moldavia).
Il linguaggio appiattito e menzognero dell’esercito inquina ogni resoconto, ogni discussione. Questo non è un problema dei miei amici esausti e affamati. È nostro, degli israeliani. Così come il grido di coloro che, volontariamente ciechi e insensibili, insistono: “Non dovreste mai fare paragoni”.
Il Ministro della Guerra, Israel Katz, ha fatto una promessa e la sta mantenendo: la missione di spostare e trasportare, concentrare e ammassare, comprimere e schiacciare centinaia di migliaia di esseri umani in un piccolo fazzoletto di terra nel Sud di Gaza sta andando avanti, incurante di proteste, condanne o parallelismi storici.
Nessuno sta salvando i palestinesi, gli ostaggi o noi stessi dal nostro stesso io ripugnante.
Scrivo, sperando ancora in un miracolo. Che l’Europa e gli Stati arabi si sveglino. Che usino le vere leve del potere che effettivamente detengono.
I bombardamenti dei nostri eroici piloti, i bombardamenti dei nostri coraggiosi comandanti di carri armati, assicureranno che Gaza venga svuotata della sua popolazione e schiacciata dalle fauci dei bulldozer guidati dagli esultanti e timorati di Dio Zarviviti. (da Avraham Zarviv, che si vanta di distruggere 50 case la settimana a Gaza.)
I soldati israeliani sono imbevuti di valori, educati a svolgere un servizio militare significativo. Persino coloro che protestano contro il governo insieme ai genitori e alle famiglie degli ostaggi non rifiutano la leva né disobbediscono agli ordini.
Quando il Capo del Comando Meridionale Yaniv Asor dichiarerà Gaza una “zona criminalizzata”, ogni soldato avrà il permesso di sparare a qualsiasi cosa si muova. Persino una donna di 78 anni. Persino suo nipote di 12 anni.
Riesco già a sentire la voce imperturbabile: È colpa loro; hanno avuto il tempo di evacuare a Sud.
I manifestanti di Kaplan Street hanno ancora una leva per far fallire i piani decisivi del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, piani legati alla riforma del regime in stile Putin: un rifiuto di massa di partecipare a queste campagne di distruzione ed espulsione.
Ma non la tirano fuori, questa leva. Per loro, la bandiera non è mai abbastanza nera.
La mia limitata immaginazione non mi permette di immaginare i miei amici e le loro famiglie, scarni, malati, addolorati, espulsi per quella che deve essere almeno l’ottava volta, inciampando nell’ennesimo ignoto, in un tratto di terra ancora più piccolo e affollato del precedente. Su un carro? A piedi per 20 chilometri? Correndo, senza fiato, mentre i proiettili li inseguono, colonne di fumo nero e polvere che si alzano dietro di loro?
La mia immaginazione terrorizzata si rifiuta di vederli rimanere indietro in case semidistrutte, nonostante l’inquietante consiglio del Portavoce dell’IDF Avichay Adraee, pregando invece per una rapida morte per bombardamento.
I loro appartamenti dentro e intorno ai campi profughi, costruiti e acquistati con anni di sacrifici, sono diventati muri fumanti e fatiscenti. Delle poche cose che sono riusciti a recuperare o improvvisare dall’ultima espulsione, materassi, pentole e mestoli, assi di legno, coperte, forse un pannello solare, cosa saranno costretti a lasciarsi alle spalle questa volta?

Di sicuro non il sacco di farina che hanno comprato per 1.000 shekel (250 euro). Non la tanica con 20 litri di acqua semi-depurata. Non i pannolini per la loro madre novantenne.
La mia immaginazione inadeguata non riesce a immaginare dove, tra tutte le tende stipate, pianteranno la loro.
Dove suderanno fino all’arrivo dell’inverno, poi tremeranno fino alle ossa mentre la pioggia e il mare in piena li inzuppano, tra un bombardamento e l’altro. E i droni sopra di loro continueranno a ronzare, giorno e notte.
Terrore. Desiderio. Fame. Sete. Prurito. Dolore. Rabbia. Sfinimento. Un bambino malato che piange. Le parole sono le stesse, ma a Gaza hanno un peso, una sostanza, un volume che va oltre la nostra comprensione.
Le parole sono scomparse dal mio dizionario, tranne queste voci: “impotenza”, “paralisi” e anche “complici di un crimine, contro la nostra volontà”.
Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i Territori Occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità corrispondente dai territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il Mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolti dei suoi articoli.
Fonte: https://archive.md/4750p
Traduzione: La Zona Grigia