Uno stato senza la liberazione: la risposta dell’Europa al genocidio

di: Inès Abdel Razek, Yara Hawari e Diana Buttu,   

Al-Shabaka, 14 agosto 2025.  

Introduzione

Dall’ottobre 2023, l’assalto di Israele a Gaza ha provocato una delle crisi umanitarie più catastrofiche della storia recente: un genocidio in atto, reso possibile dalle potenze mondiali e che continua senza sosta nonostante la vasta solidarietà globale che ha suscitato. Oltre ai bombardamenti incessanti e agli sfollamenti di massa, il regime israeliano sta conducendo una campagna deliberata di fame. L’Integrated Food Security Phase Classification (Classificazione Integrata delle Fasi di Sicurezza Alimentare) ha confermato che a Gaza è già stata superata la “soglia della carestia”, con fame, malnutrizione e malattie diffuse che stanno causando un forte aumento di decessi evitabili. Queste condizioni non sono casuali, ma riflettono una politica coordinata di Israele volta a uccidere, sfollare e annientare i palestinesi.

In risposta a questa catastrofe provocata da Israele, diversi stati europei hanno iniziato a riconoscere o a manifestare l’intenzione di riconoscere lo stato di Palestina. Più recentemente, la Francia ha annunciato la sua intenzione di riconoscere uno stato palestinese all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a settembre. Il Regno Unito ha dichiarato che seguirà il suo esempio a meno che Israele non rispetti il cessate il fuoco e si impegni nuovamente a favore di una soluzione a due stati. La recente ondata di riconoscimenti simbolici iniziata nel 2024 sembra ora essere l’unico passo che molte potenze europee sono disposte a compiere di fronte al genocidio, dopo quasi due anni di sostegno morale, materiale e diplomatico al regime israeliano e alla sua quasi totale impunità.

Questa tavola rotonda con le analiste politiche di Al Shabaka Diana Buttu, Inès Abdel Razek e la co-direttrice di Al Shabaka, Yara Hawari, affronta le seguenti domande: perché ora? Quali interessi politici o strategici stanno guidando questa ondata di riconoscimenti? E cosa significa riconoscere uno stato palestinese sulla carta, lasciando intatte le strutture dell’occupazione, dell’apartheid e del regime genocida che le sostiene?

Il riconoscimento dello Stato palestinese è un passo avanti significativo?

Diana Buttu

È essenziale collocare l’attuale ondata di riconoscimenti in un contesto storico. La spinta verso il riconoscimento dello stato palestinese non è iniziata nel 2024 come risposta al genocidio, ma risale al 2011. Dopo l’assalto israeliano a Gaza del 2008-09, l’Autorità Palestinese (AP) si è trovata politicamente a mani vuote. Con il crollo del quadro negoziale basato sulla soluzione dei due stati e nessun processo di pace in vista, il presidente Mahmoud Abbas si è rivolto alla scena internazionale.

In mancanza di una strategia praticabile, Abbas ha lanciato la campagna per il riconoscimento con due obiettivi: sostenere l’Autorità Palestinese, il cui ruolo di organo di transizione era ormai scaduto da tempo, e proiettare rilevanza politica. Smascherata come subappaltatrice della sicurezza del regime israeliano, l’Autorità Palestinese aveva urgente bisogno di legittimità. Allo stesso tempo, la campagna offriva agli stati europei un modo per evitare il confronto con Israele, che avrebbe richiesto misure come sanzioni o embarghi.

Questo schema è riemerso nel 2024, quando Irlanda, Spagna, Norvegia, Slovenia e, più recentemente, Francia e Regno Unito hanno esteso il riconoscimento in risposta al genocidio in corso. La strategia serve sia all’Autorità Palestinese che agli stati europei: sostiene un’autorità screditata e offre alle potenze occidentali un comodo mezzo per evitare di assumersi le proprie responsabilità.

Il risultato è una messinscena politica. La convinzione che il riconoscimento stimolerà l’azione internazionale è infondata. Se il mondo non interviene per fermare un genocidio, perché dovrebbe agire solo perché uno stato membro dell’ONU ne sta occupando un altro?

Inès Abdel Razek

Quello a cui stiamo assistendo nell’ultima ondata di riconoscimenti europei non è un sostegno all’autodeterminazione palestinese, ma un’approvazione politica all’Autorità Palestinese. Ad esempio, la Norvegia ha incentrato il suo riconoscimento sull’Autorità Palestinese e sulla sua infrastruttura istituzionale. Questa riformulazione mina l’autodeterminazione palestinese e non soddisfa nemmeno i criteri giuridici più elementari per la statualità. Dopo tutto, l’Autorità Palestinese non esercita alcun controllo sui confini, sullo spazio aereo, sulle risorse naturali o sul territorio: è Israele a farlo.

Il riconoscimento della Norvegia è stato quindi esteso a un’entità politica che opera sotto il controllo israeliano, priva sia di sovranità che di legittimità democratica.

Peggio ancora, gesti simbolici come il riconoscimento sono spesso presentati come atti di coraggio morale quando, in realtà, servono solo da copertura diplomatica. Anche i lobbisti filoisraeliani hanno riconosciuto che tali mosse non cambiano in alcun modo la realtà sul campo. Al contrario, consentono agli stati di apparire impegnati, eludendo i loro obblighi legali di imporre sanzioni a Israele.

Tutto ciò è in linea con la strategia più ampia di Israele: distruggere, espropriare e poi spingere i palestinesi a negoziare per le briciole secondo i termini dettati dalla potenza occupante. Dagli accordi di Oslo degli anni ’90 agli attuali meccanismi umanitari a Gaza, il regime israeliano ha costantemente manovrato per controllare l’agenda.

Il riconoscimento simbolico di uno stato palestinese serve solo a premiare questa manipolazione. L’indignazione manifestata dai funzionari statunitensi e israeliani per il riconoscimento dello stato palestinese è, ovviamente, solo di facciata.

In questo contesto, il genocidio a Gaza non è affrontato con atti concreti, ma solo con cerimonie. L’Autorità Palestinese si aggrappa alle apparenze e gli stati occidentali abbracciano gesti simbolici, mentre i palestinesi non ottengono né giustizia né uno stato, ma solo un divario sempre più ampio tra realtà vissuta e performance internazionale.

Yara Hawari

Dobbiamo essere chiari su ciò che viene effettivamente riconosciuto quando gli stati dichiarano il loro sostegno allo “Stato di Palestina”. Non si tratta di un riconoscimento della sovranità, ma di una finzione diplomatica. In sostanza, codifica una narrativa di divisione coloniale: la frammentazione della Palestina storica in enclavi geografiche e politiche.

Questo tipo di riconoscimento non solo è inefficace, ma è anche pericoloso. Rafforza un quadro divisionista ristretto che riduce la “Palestina” alla Cisgiordania e a Gaza e il popolo palestinese a meno della metà di ciò che siamo.

Per gli stati europei, il riconoscimento funge da diversivo dalla complicità. Queste dichiarazioni sono per lo più prive di sanzioni, embarghi sulle armi o qualsiasi impegno concreto per smantellare l’occupazione o l’apartheid. Al contrario, operano come gesti simbolici in ambito giuridico, proteggendo Israele dalla responsabilità per i crimini di guerra e le violazioni sistematiche.

L’affermazione che il riconoscimento garantisce l’accesso ai forum internazionali e potrebbe contribuire a livellare il campo diplomatico è ingenua e fuorviante. Gli stati non sono uguali nell’ordine globale. Gli Stati Uniti, con il loro diritto di veto, garantiscono che Israele non sia mai chiamato a rispondere delle proprie azioni. E in quanto principale alleato di Israele, garantiscono che i palestinesi non negozieranno mai da una posizione di parità.

E questo è proprio il problema: non siamo uno stato sovrano. Siamo un popolo colonizzato, assediato e occupato che sta affrontando un genocidio a Gaza. Qualsiasi impegno politico serio deve partire da questa realtà, non dall’illusione di uno stato che non esiste. Invece di fermare il genocidio e la fame forzata – in gran parte facilitati proprio dagli stati che offrono il riconoscimento – ci viene detto di concentrarci su una fantasia di stato che nessuno è disposto a realizzare. Questa discrepanza la dice lunga.

Cosa rivela la recente ondata di riconoscimenti dello stato palestinese sul modo in cui gli stati stanno affrontando le loro responsabilità giuridiche ai sensi del diritto internazionale?

Inès Abdel Razek

La maggior parte dei governi continua ad agire nell’ambito del quadro obsoleto del cosiddetto processo di pace in Medio Oriente. Questo quadro domina ancora il dibattito sulla Palestina e influenza quasi tutte le decisioni politiche odierne. Lo abbiamo visto, ad esempio, nella conferenza sui due stati co-ospitata dall’Arabia Saudita e dalla Francia alle Nazioni Unite a New York alla fine di luglio. L’intero evento è stato incentrato sull’idea che ci siano “due parti” in conflitto. Questo quadro rimane prevalente, come dimostrano le recenti dichiarazioni del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, secondo cui l’unica soluzione praticabile rimane quella dei due stati, “con Israele e Palestina che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza”. Questo linguaggio tratta la situazione come una disputa reciproca tra pari, eludendo la realtà dell’occupazione, dell’apartheid e dell’aggressione unilaterale.

Non si fa alcun riferimento al colonizzatore e al colonizzato. Non si riconosce l’aggressore e il popolo sotto attacco. Non si riconosce l’occupazione o l’apartheid. Questa falsa equivalenza non è solo fuorviante, ma è una trappola politica pericolosa.

Il paradigma del processo di pace deve essere abbattuto, e c’è già chiarezza giuridica su ciò che gli stati dovrebbero invece fare. La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), sia nel suo parere consultivo del 2004 che in quello del 2024, indica un quadro giuridico di responsabilità che offre un’alternativa allo stallo politico del quadro a due stati.

Infatti, i pareri giuridici della CIG attribuiscono alla comunità internazionale la responsabilità di agire, non solo di mediare. Tuttavia, le potenze mondiali rimangono nella zona di comfort della cosiddetta neutralità e della falsa simmetria, proteggendo Israele dalle conseguenze ed eludendo la responsabilità. Finché persisterà la narrativa di “ambedue le parti”, l’impunità israeliana continuerà ad aumentare e il genocidio non potrà che intensificarsi.

Diana Buttu

Ciò che è particolarmente inquietante è che anche questo riconoscimento simbolico rimane intrappolato nella logica dei negoziati bilaterali. È ancora radicato nell’idea che i palestinesi debbano negoziare ogni aspetto della loro libertà, come se la liberazione dovesse essere sempre condizionata, graduale e mediata dal loro colonizzatore. È questa la logica in cui siamo rimasti bloccati.

È proprio così che l’Europa, in particolare, ha cercato di assolversi da una responsabilità più profonda. I governi europei continuano a comportarsi come se fossero osservatori neutrali, come se avessero le mani legate. Ma non sono neutrali. Sono attori terzi con obblighi vincolanti ai sensi del diritto internazionale di riconoscere l’occupazione per quello che è, non di favorirne il proseguimento e poi adoperarsi per porvi fine. Si tratta di obblighi che stanno scegliendo di ignorare.

Yara Hawari

Preferirei che gli stati riconoscessero il genocidio piuttosto che riconoscere uno stato palestinese. Secondo il diritto internazionale, il riconoscimento del genocidio comporta obblighi chiari: gli stati devono fare tutto ciò che è in loro potere per prevenirlo e fermarlo. Non mi illudo che adempiranno a tali obblighi, ma almeno esiste un quadro giuridico e la pressione che esso genera è reale.

Concentrarsi invece sul riconoscimento di uno stato palestinese permette agli stati di tirarsi fuori comodamente. Permette loro di eludere le loro responsabilità giuridiche ai sensi della Convenzione sul Genocidio e del Diritto Internazionale Umanitario. Crea l’apparenza di un’azione senza il peso di conseguenze significative.

Più in generale, è stata investita una quantità sproporzionata di energie, anche da parte di alcuni alleati e sostenitori, nel riconoscimento dello stato palestinese. Ma se vogliamo continuare a impegnarci nell’arena giuridica internazionale, l’attenzione dovrebbe concentrarsi sulla responsabilità. La responsabilità è l’unica via percorribile per fermare gli orrori che si stanno consumando a Gaza e l’unico modo per impedire che si ripetano.

Inoltre, il riconoscimento di uno stato palestinese non serve a scoraggiare ulteriori violenze. Non ha il peso giuridico né le conseguenze che derivano dal riconoscere che a Gaza è in corso, in questo preciso momento, un genocidio.

L’Europa sta usando il riconoscimento di uno stato palestinese per promuovere la normalizzazione arabo-israeliana?

Yara Hawari

Recentemente è emersa una nuova narrativa: il riconoscimento europeo di uno stato palestinese potrebbe servire come via per la normalizzazione delle relazioni tra l’Arabia Saudita e Israele. In questo modo, il riconoscimento non riguarda i diritti o la giustizia dei palestinesi, ma serve piuttosto come merce di scambio nella più ampia geopolitica regionale. L’idea è semplice: più stati europei riconoscono la Palestina, più facile diventa per l’Arabia Saudita giustificare la normalizzazione dei rapporti con Israele.

Si tratta di una logica profondamente transazionale e di un compromesso a buon mercato. Come abbiamo già discusso, il riconoscimento è, al massimo, simbolico. Non offre alcuna garanzia ai palestinesi in termini di fine del genocidio, smantellamento dell’occupazione o realizzazione dei loro diritti inalienabili. Ma per il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il riconoscimento fornisce una comoda copertura politica per qualcosa che cerca da tempo: la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Questo è ciò che rende questo momento così pericoloso. L’anti-normalizzazione, un tempo posizione di principio nella regione, radicata nella consapevolezza che Israele è un regime coloniale costruito sulla spoliazione dei palestinesi – è stata quasi completamente abbandonata a livello statale. Al suo posto si è affermato un sistema di ricompense: normalizza con Israele e riceverai incentivi militari, economici o diplomatici, soprattutto dagli Stati Uniti.

Gli Accordi di Abramo hanno reso esplicita questa logica. Non si è trattato di riallineamenti ideologici, ma di accordi transazionali. Nonostante ciò, il sentimento popolare in tutta la regione rimane fortemente filopalestinese e anti-normalizzazione. Ma i governi continuano a muoversi nella direzione opposta.

Quello a cui assistiamo oggi è il riconoscimento utilizzato non come strumento di giustizia, ma come copertura politica. Il riconoscimento da parte dell’Europa fornisce ai regimi arabi, in particolare all’Arabia Saudita, la scusa di cui hanno bisogno per normalizzare le relazioni con Israele, mentre i palestinesi continuano a subire genocidio, fame e occupazione.

Diana Buttu

Ciò che colpisce della normalizzazione è che gli israeliani, in generale, sono indifferenti al riguardo. Non fa nemmeno più parte del dibattito pubblico. Anche durante gli accordi di normalizzazione del 2020 nell’ambito degli Accordi di Abramo, non ha suscitato quasi nessuna reazione nell’opinione pubblica israeliana. Non c’è stato entusiasmo, né dibattiti importanti.

Dopotutto, questi accordi non hanno prodotto alcun reale coinvolgimento tra i popoli. A livello popolare, hanno fallito. E in termini di benefici per gli stati che li hanno firmati, hanno prodotto poco oltre ai contratti di sicurezza e alla cooperazione in materia di intelligence, che probabilmente era l’obiettivo principale fin dall’inizio.

In realtà, la notizia di una potenziale normalizzazione con l’Arabia Saudita ha poco significato per l’opinione pubblica israeliana. Semplicemente non le interessa. Più il principe ereditario saudita e i leader europei spingono per la normalizzazione, ora legata al riconoscimento dello stato palestinese, più essa appare distante dalla realtà popolare. I sondaggi mostrano che la maggioranza degli israeliani si oppone a tali mosse, non per solidarietà con i palestinesi, ma perché la normalizzazione non offre loro nulla. Molti israeliani non sono in grado di nominare cinque paesi arabi, figuriamoci esprimere interesse per la regione. Il loro orientamento culturale e politico è da tempo rivolto all’Europa, non al mondo arabo.

Ci troviamo quindi di fronte a uno strano paradosso. I leader regionali e occidentali promuovono con entusiasmo il riconoscimento e la normalizzazione, come se queste mosse potessero cambiare qualcosa di fondamentale, ma sul campo, sia per i palestinesi che per gli israeliani, hanno ben poco significato. In particolare, per il primo ministro Benjamin Netanyahu e la sua base, sono irrilevanti.

E questo ci riporta al punto centrale: il riconoscimento di uno stato palestinese non riguarda soluzioni reali o cambiamenti significativi. Si tratta di un’operazione di facciata, un’azione performativa che segnala l’urgenza senza fare praticamente nulla per fermare un genocidio.

Inès Abdel Razek

Dal punto di vista degli stati arabi, in particolare quelli che flirtano con la normalizzazione, sta diventando sempre più difficile giustificare l’inazione. L’espansione coloniale di Israele non si limita alla Palestina. Le sue forze di occupazione stanno intensificando le campagne militari in Libano, occupando parti del sud, mentre continuano le operazioni e il rafforzamento delle posizioni in Siria. L’annessione delle Alture del Golan è stata progressivamente normalizzata, con i confini dell’impunità spinti sempre più in là. La situazione è diventata sempre più scomoda per i regimi arabi e destabilizzante per le dinamiche regionali, anche se chiaramente non abbastanza da provocare conseguenze significative.

Siamo ben lontani dal tipo di reazioni viste durante la guerra del 1973, quando l’Egitto e la Siria lanciarono una campagna militare coordinata per riconquistare i territori occupati e i regimi arabi imposero un embargo petrolifero agli Stati Uniti e ai loro alleati per protestare contro il loro sostegno a Israele. Quel momento di pressione collettiva sembra ormai un lontano ricordo. Oggi non c’è alcuna voglia di scontro, solo gesti simbolici e diplomazia evasiva.

Tutto questo mentre Israele continua la sua strategia della terra bruciata, distruggendo tutto al suo passaggio, annettendo territori e spingendo i palestinesi sull’orlo della sopravvivenza. In questo contesto, anche il più piccolo passo, come consentire l’ingresso di un solo camion di aiuti a Gaza, viene presentato come una svolta e un gesto benevolo che presumibilmente segnala una via più luminosa per il futuro. I regimi arabi hanno accettato questa logica.

Proprio come in passato i quadri di riferimento quali la “pace economica” e la “ricostruzione di Gaza” hanno consentito al regime israeliano di portare avanti le sue campagne militari, sapendo che i donatori internazionali avrebbero finanziato le conseguenze, oggi la fornitura di beni di prima necessità come farina e carburante viene spacciata per un intervento strategico.

Perché la soluzione dei due stati rimane il quadro di riferimento predefinito per l’autodeterminazione palestinese e cosa servirebbe per superarlo?

Yara Hawari

Parte della risposta sta nel fatto che la leadership che promuove questa strategia – il quadro dei due stati, il riconoscimento e la divisione – non opera con un mandato elettivo o popolare. Questa leadership non ha alcuna legittimità reale tra i palestinesi e non ci rappresenta in alcun senso democratico significativo. Ecco perché è così importante, soprattutto in questo momento, chiederci: cosa significa sovranità al di là della logica della divisione e della frammentazione coloniale? Che aspetto avrebbe l’autodeterminazione se rifiutassimo i confini della “fattibilità” che ci sono stati imposti per decenni?

Ci viene ripetuto continuamente che la statualità palestinese e il riconoscimento internazionale sono le uniche vie percorribili per andare avanti. Eppure l’una rimane perennemente irraggiungibile e l’altra non è altro che una mera dichiarazione diplomatica. Questi quadri non ci liberano, ci contengono, ci sminuiscono e riformulano la nostra lotta in termini accettabili per chi ha interesse a mantenere lo status quo, non a ottenere giustizia.

Naturalmente, è difficile anche solo affrontare questi discorsi nel mezzo di un genocidio. Per molti versi, sembra un privilegio discutere di orizzonti politici mentre a Gaza la gente viene bombardata, affamata e sterminata in tempo reale. Ma penso anche che sia proprio questo a rendere il dibattito ancora più urgente.

Come palestinesi, è nostra responsabilità porre queste domande e rivolgerle direttamente alla nostra cosiddetta leadership. La nostra sovranità non può e non deve essere definita da schemi costruiti sulla nostra frammentazione. Dobbiamo immaginare qualcosa di più, perché ciò che ci viene offerto non è la liberazione. È il contenimento.

Inès Abdel Razek

Dobbiamo anche riconoscere che molti governi occidentali continuano a trattare Israele come un attore in buona fede all’interno del quadro dei due stati, concedendogli ripetutamente il beneficio del dubbio nonostante le prove schiaccianti del contrario.

Infatti, Israele continua a essere considerato un attore credibile e autorevole, nonostante il fatto che l’inganno sia da tempo una caratteristica fondamentale della sua strategia diplomatica e militare. Che si tratti di insabbiare l’assassinio di Shireen Abu Akleh, giustificando il bombardamento di ospedali o attaccando la credibilità dell’UNRWA, il regime israeliano ha costantemente fatto ricorso a narrazioni false per proteggersi dalla responsabilità. Questo modello è sia sistematico che deliberato.

Tuttavia, molti stati occidentali accettano per buone queste narrazioni. Spesso ricevono documenti ufficiali israeliani in ebraico, una lingua che pochi nei loro ministeri degli Esteri sono in grado di leggere, eppure questi briefing vengono accolti con accezione acritica e ritenuti credibili. Non si tratta solo di pregiudizi politici, ma riflette una visione del mondo più profonda, spesso razzista: Israele è percepito come moderno, razionale e credibile.

I palestinesi, al contrario, sono considerati irrazionali, sospetti o sacrificabili.

A meno che questa logica non venga smantellata alla radice, nulla cambierà. Finché il regime israeliano sarà considerato in buona fede, non ci sarà alcuna seria responsabilità. E finché la comunità internazionale non affronterà il modello di inganno ed espansione coloniale di Israele, la giustizia per i palestinesi – e il riconoscimento del loro diritto all’esistenza e alla resistenza – rimarrà irraggiungibile.

Diana Buttu

Ricordo che durante i negoziati post-Oslo ci chiedevamo spesso: perché limitiamo la nostra visione di liberazione a uno stato che occupa solo il 22% della nostra patria storica, uno stato che esclude la maggioranza dei palestinesi e non offre alcuna possibilità concreta di ritorno?

E la risposta che ci è stata data, allora come oggi, è che gli insediamenti sono un cancro. Proprio così: cancro. La logica era che per fermare questo cancro era necessario un processo, qualsiasi processo, che potesse arrestare l’espansione degli insediamenti, rallentare la colonizzazione e preservare la possibilità di uno stato.

Questa logica permea oggi il dibattito sul riconoscimento. I diplomatici insistono sul fatto che riconoscere uno stato palestinese è urgente perché potrebbe aiutare a fermare il cancro. Il riconoscimento, sostengono, potrebbe fermare l’annessione, tracciare una linea rossa politica o almeno congelare l’espansione degli insediamenti.

Ma sappiamo che non è vero. Il riconoscimento non ha fermato il cancro. È un gesto simbolico una tantum, che consuma capitale politico senza alterare l’equilibrio di potere. Alla fine, Israele ne esce con una maggiore legittimità, non minore.

La leadership palestinese avrebbe potuto scegliere una strada diversa. Avrebbe potuto organizzare una campagna seria e sostenuta per chiamare il regime israeliano a rispondere delle sue azioni, spingendo per sanzioni, embarghi sulle armi e meccanismi legali.

Sì, l’Autorità Palestinese non ha alcuna legittimità elettorale, ma ciò non significa che non abbia capacità. La leadership dell’Autorità Palestinese avrebbe potuto lottare per la sopravvivenza invece di arrendersi.

Invece, ha scelto di mettere da parte, e talvolta persino di sabotare, la ricerca della giustizia.

Questo è il cuore del problema: se, nel mezzo di un genocidio, la massima richiesta politica è “per favore, riconosceteci”, come si può poi tornare a chiedere sanzioni o giustizia? Accettando come sufficiente un riconoscimento simbolico, si mina la credibilità di qualsiasi futura richiesta di vera responsabilità.

https://al-shabaka.org/roundtables/statehood-without-liberation-europes-response-to-genocide/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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