di Mouin Rabbani,
The New Arab, 22 giugno 2025.
L’attacco di Trump ai siti nucleari iraniani ha trascinato gli Stati Uniti in guerra, cedendo a Israele. Messo alle strette e isolato, l’Iran ha poco da perdere, dice Mouin Rabbani.

Il 21 giugno 2025, gli Stati Uniti hanno bombardato l’Iran, concentrando la loro massiccia potenza di fuoco su tre installazioni nucleari iraniane. È stato, sotto ogni punto di vista – così come la guerra lanciata da Israele il 13 giugno – un attacco non provocato.
Tutte le giustificazioni addotte hanno un sentore di falso. Per quanto riguarda lo status di questi attacchi ai sensi del diritto internazionale, qualsiasi analisi del genere è irrilevante: il diritto internazionale come lo conoscevamo una volta non esiste più. In aggiunta, Israele e gli Stati Uniti hanno molto probabilmente inferto un colpo fatale al regime di regolamentazione nucleare globale.
Continuo a sostenere che gli ultimi sviluppi non erano inevitabili e che l’amministrazione Trump non ha assunto l’incarico con la determinazione e l’intenzione di entrare in guerra contro l’Iran. Le prove suggeriscono che Trump, e i membri chiave del suo entourage, erano seriamente intenzionati a perseguire i negoziati con Teheran, ma che Trump e il suo Segretario di Stato de facto Steve Witkoff sono stati poi persuasi su una linea d’azione diversa da una coalizione composta da Israele, dai suoi lealisti negli Stati Uniti (anche all’interno dell’amministrazione) e dai falchi della guerra anti-Iran.
La strategia era duplice: in primo luogo, presentare all’Iran richieste deliberatamente irrealistiche con la scusa che fossero realizzabili; poi, una volta che tali richieste erano state prevedibilmente respinte, approvare un attacco israeliano all’Iran, inquadrato come un modo per rafforzare la posizione negoziale di Washington e costringere l’Iran alla capitolazione.
Dopo che Israele ha lanciato la sua guerra, ha iniziato una campagna concertata per convincere il narcisista in capo alla Casa Bianca che non poteva permettersi di apparire debole. Gli ha detto che aveva una rara possibilità di assicurarsi una vittoria in politica estera e che, a differenza dell’Iraq, questa sarebbe stata un’operazione “a colpo sicuro”, rapidamente seguita da un Iran prostrato e pronto a fare un accordo.
Sembra dubbio che gli attacchi statunitensi siano stati così decisivi e di successo come sostenuto da Trump. Si dice anche che gli Stati Uniti abbiano inviato messaggi all’Iran che il cambio di regime non è all’ordine del giorno degli Stati Uniti e che non sono stati pianificati ulteriori attacchi.
Viste le affermazioni iraniane secondo cui i danni inflitti sono ben lontani dalla distruzione e che i macchinari e i materiali chiave erano stati trasferiti in sicurezza altrove prima dei bombardamenti, ciò avrebbe potuto portare a una risposta iraniana relativamente contenuta, o almeno a una in cui non si sentiva necessariamente obbligato ad attaccare direttamente le forze e le risorse statunitensi.
L’Iran avrebbe potuto, ad esempio, dirigere la sua furia contro Israele, che l’Iran considera responsabile della sua attuale situazione, o ritirarsi dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), che, a differenza di Israele, l’Iran ha ratificato.
Avrebbe anche potuto scegliere di impedire la navigazione attraverso lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale passa il 20-30% delle esportazioni globali di energia, e coordinare gli sforzi con Ansar Allah [gli Houthi] per bloccare allo stesso modo il Bab al-Mandab, chiudendo il Canale di Suez attraverso il quale il 10-15% del commercio globale raggiunge la sua destinazione.
Se da un lato ciò ridurrebbe a zero le esportazioni di petrolio iraniane e colpirebbe gravemente la Cina (che importa la maggior parte del suo petrolio dal Golfo Persico), dall’altro manderebbe alle stelle i prezzi alla pompa negli Stati Uniti al culmine della stagione estiva. Questo non andrebbe molto bene alla base MAGA, che ha votato per Trump in gran parte a causa della sua proclamata opposizione alle costose e inutili guerre senza fine in Medio Oriente.
Con il breve discorso di Trump alla Casa Bianca diverse ore dopo gli attacchi, la situazione è cambiata drasticamente. Il presidente degli Stati Uniti ha essenzialmente chiesto una capitolazione iraniana agli Stati Uniti e a Israele, e ha minacciato ulteriori attacchi in caso di rifiuto.
Trump ha chiesto che l’Iran ponga fine incondizionatamente alla guerra, ma non ha fatto alcuna richiesta simile a Israele, che non solo l’ha iniziata, ma continua a intensificare i suoi bombardamenti contro l’Iran.
Al contrario, Trump ha sottolineato l’intimo coordinamento tra gli Stati Uniti e Israele e la sua stretta collaborazione con il primo ministro israeliano, accusato di crimini di guerra e ricercato dalla giustizia internazionale, Benjamin Netanyahu.
Il messaggio ricevuto dall’Iran – forte e chiaro – è che Israele mantiene il pieno sostegno degli Stati Uniti per continuare i suoi attacchi contro l’Iran come più gli piace, e che se l’Iran continua a reagire, può aspettarsi ulteriori bombardamenti da parte degli Stati Uniti. La leadership iraniana ha più volte dimostrato di non essere impulsiva e di rispondere con il calcolo.
Ma è molto probabile che abbia concluso che ora non può più permettersi di non infliggere perdite dirette agli Stati Uniti, e che se si limita al danno indiretto non farà altro che esporsi ulteriormente e indebolire pericolosamente la propria posizione negoziale. Questo è molto probabilmente anche il calcolo condiviso da Israele e dai suoi alleati a Washington, che, sulla scia di qualsiasi ritorsione iraniana di successo contro gli Stati Uniti, promuoveranno l’argomento che solo un cambio di regime a Teheran risolverà la questione.
L’Iran si trova in una posizione molto poco invidiabile. Significativamente indebolito e ancora isolato, con alleati strategici in Russia e Cina che sono molto meno affidabili di quanto non lo siano gli Stati Uniti per Israele, Teheran è dannato se agisce, e dannato – probabilmente di più – se non fa nulla.
Allo stesso tempo, l’Iran ha trascorso molti anni a prepararsi esattamente per lo scenario con cui si trova oggi di fronte, ed è molto improbabile che dia priorità all’autoconservazione se il prezzo è la capitolazione. Espandere il conflitto nella regione e infliggere perdite direttamente e indirettamente agli Stati Uniti sembra essere la sua linea d’azione più probabile. In modo calcolato piuttosto che impulsivo.
La leadership iraniana, e qualsiasi successore se quella attuale sarà deposta, subirà anche un’enorme pressione interna da parte dell’élite e della gente per superare la soglia nucleare e rompere il monopolio regionale di Israele sul possesso di un arsenale nucleare.
Se Teheran giunge alla conclusione che l’unica alternativa a una Corea del Nord in Medio Oriente è un secondo Iraq, e ci riesce, la guerra tra Stati Uniti e Israele avrà avuto la conseguenza non intenzionale di trasformare il programma di arricchimento nucleare iraniano da oggetto di negoziato in una bomba atomica effettiva.
Intervistato da Al Jazeera English, Harlan Ullman, il principale autore della dottrina militare “shock and awe” [colpisci e terrorizza], ha ipotizzato che l’attacco degli Stati Uniti all’Iran rappresenti molto probabilmente l’inizio di un nuovo conflitto piuttosto che la fine di uno esistente, come propagandato da Trump. Sembra giusto. Allacciate le cinture di sicurezza.
Mouin Rabbaniè co-editore di Jadaliyya e un Non-Resident Fellow presso il Centro per gli Studi Umanitari e sui Conflitti.
https://www.newarab.com/opinion/iran-never-had-nuclear-bomb-thanks-trump-it-may-build-one-0
Traduzione a cura di AssopacePalestina
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