Vivere attraverso l’inimmaginabile: un testamento da Gaza

del Dott. Yasser Abu Jamei

CounterPunch, 11 giugno 2025.  

Un bambino di dieci anni non parla e non mangia da giorni. Quando la nostra psicologa riesce finalmente a farlo parlare, lui fa una domanda che la blocca: “Tutti dicono che il mio amico è andato in paradiso, ma io non ho visto la sua testa. Come può andare in paradiso senza la testa?”. Questo è il lavoro sulla salute mentale a Gaza oggi.

Bambini palestinesi per le strade di Deir al Balah. Foto: UNICEF.

Come si fa a fornire cure mentali a persone che vengono annientate? È una domanda che mi viene posta costantemente come psichiatra a Gaza e che tormenta ogni interazione mia e di altri medici con i bambini e le famiglie che serviamo. La risposta, ho imparato dopo 20 mesi di genocidio, è allo stesso tempo più semplice e più complessa di quanto si possa immaginare.

Nei miei 20 anni di lavoro come professionista della salute mentale a Gaza, pensavo di aver capito il trauma. Poi è arrivato l’ottobre 2023 e tutto ciò che sapevo sulla guarigione, la resilienza e la speranza è stato messo alla prova da un meccanismo di annientamento che opera 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno.

Salute mentale e fame forzata

Oggi, quando si parla di salute mentale a Gaza, il problema principale è l’estrema preoccupazione dei genitori per la salute generale dei loro figli dopo quasi 20 mesi di privazione di nutrienti essenziali e ora l’assenza di cibo di base. Le famiglie ora danno la priorità a chi mangerà oggi e chi no. Nel migliore dei casi, i bambini ricevono un pasto al giorno, che non contiene beni di prima necessità come la frutta.

La farina, l’ingrediente principale dei nostri pasti quotidiani in tutto il Medio Oriente e in Palestina, è quasi introvabile. Il pane è diventato un ricordo. Ora le famiglie cercano di fare il pane con la pasta. Almeno si mettono in bocca qualcosa semplicemente per eliminare la fame.

L’impatto sulla salute mentale di questa lunga esposizione a molteplici esperienze traumatiche va ben oltre i continui bombardamenti catastrofici che terrorizzano i bambini e li fanno sentire sull’orlo della morte in qualsiasi momento. Gli sfollamenti multipli, quando le famiglie sono costrette a spostarsi da un’area pericolosa all’altra, aggiungono nuovi livelli di difficoltà. In un ambiente difficile, dove l’80-85% delle case e delle infrastrutture sono distrutte, un bambino si guarda intorno e vede solo case distrutte, scuole distrutte e tutto intorno a lui in rovina. Come possono muoversi tra le macerie? Come possono pensare a un giorno migliore?

La gente dice che i nostri figli sembrano insensibili, che non rispondono. Per mesi abbiamo sentito parlare di bambini che diventano aggressivi, che hanno problemi tra di loro, un modo per esprimere rifiuto. Tutti noi rifiutiamo la realtà in cui viviamo, non siamo felici, siamo arrabbiati. E i bambini, che sono la metà della nostra popolazione, lo esprimono in modi molto diversi.

C’è un nuovo sintomo che emerge tra gli adulti. Non solo si sentono arrabbiati e isolati, ma purtroppo hanno iniziato a sentirsi in colpa. Colpevoli perché non possono aiutare i loro figli, non riescono nemmeno a trovare il cibo per i loro figli. È un sentimento strano a cui assistiamo quasi per la prima volta.

A questo si aggiungono i soliti sintomi: bambini che hanno paura per la maggior parte del tempo, problemi di sonno, incubi, pipì a letto, genitori che sperimentano traumi come il PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) ma anche depressione, ansia grave e dolori fisici. Questi dolori fisici colpiscono uomini, donne, bambini, adulti – tutti. Rappresentano una varietà di problemi complessi che colpiscono persone che sono state esposte a questo fenomeno per 20 mesi, e non per la prima volta. Non parliamo della terza, quarta o quinta volta, ma di più volte dal 2008, e anche prima, perché abbiamo sempre vissuto sotto blocco, sotto occupazione. La nostra vita non è mai stata tranquilla e ci siamo svegliati da un disastro per poi cadere in un altro.

Cura in circostanze impossibili

Una cosa che notiamo sempre nelle persone durante le emergenze e le atrocità è il loro bisogno di mantenere un senso di agency – che stanno realizzando qualcosa. Ecco perché ora si vedono uomini e donne costantemente attivi: le donne fanno tutto il possibile per cucinare qualcosa per i loro figli, gli uomini cercano di trovare qualsiasi fonte di cibo qua e là. E a livello di comunità, uomini e ragazzi corrono verso ogni nuova area bombardata per estrarre i feriti e trasportare le vittime in ospedale a piedi, su un carro trainato da asini o in auto. Non si tratta di un problema individuale: l’intera popolazione della Striscia di Gaza lo vive collettivamente. Per questo motivo quasi ogni membro della famiglia ha un compito, il che maschera in qualche modo l’impatto psicologico sulla popolazione e contemporaneamente assegna ai bambini ruoli che non dovrebbero avere. Bambini di sei o sette anni non dovrebbero portare contenitori d’acqua e camminare per due o tre chilometri per portare acqua potabile alle loro famiglie o per ricaricare i telefoni cellulari.

Questo senso di agency allevia l’impatto psicologico. Questo è fondamentale quando incontriamo le persone nella comunità: attualmente abbiamo circa 30 membri del nostro personale che visitano i rifugi e le tende, parlando con uomini, donne e bambini, aiutandoli a esprimersi, a discutere i loro sentimenti e a ricevere consulenza e aiuto nella gestione dello stress. In caso di sintomi urgenti, indirizziamo le persone ai nostri centri comunitari.

In questi casi, chiediamo alle persone di guardarsi intorno e di pensare a come possono aiutare se stessi e coloro che li circondano. In un certo senso, questo crea un sentimento di autonomia che aiuta le persone ad andare avanti e a pensare in modo positivo, se c’è la possibilità di pensare positivamente a ciò che possono fare.

Le nostre squadre portano con sé giocattoli e articoli di cancelleria, quando possibile, e questo cambia le carte in tavola. Quando i bambini scoprono improvvisamente di potersi esprimere attraverso il disegno e il gioco, parlando dei problemi che devono affrontare, iniziano a recitare, mostrando o discutendo le loro paure quando disegnano case distrutte, persone ferite. A volte disegnano sangue, a volte carri armati. Disegnano ciò che sentono e questo fa una grande differenza.

Ma naturalmente è estremamente difficile aiutare le persone mentre gli attacchi continuano. Idealmente, gli interventi psicologici iniziano quando il disastro finisce o quando le persone raggiungono la sicurezza, dove gli operatori della salute mentale possono funzionare come gli altri operatori sanitari o di emergenza. Questa non è la situazione a Gaza.

Potere di espressione e guarigione

Sottolineiamo che è sempre importante, in caso di stress, trovare qualcuno con cui parlare: questa è la semplice verità. Le persone devono parlare con amici, familiari, colleghi e discutere. Le persone possono aprire il loro cuore se possono parlare. Per esempio, se ieri ho fatto un sogno terribile che mi ricordava una casa distrutta sotto i miei occhi, parlo con qualcuno della famiglia o con un vicino della tenda accanto, e mi accorgo che condividono la stessa esperienza. In questo modo si ha la sensazione di un processo di guarigione collettiva.

Ma quando si tratta di bambini, hanno modi diversi di esprimersi. Non sono ancora abbastanza maturi per esprimersi come facciamo noi adulti. Per esempio, a volte non riescono a dire “abbiamo paura, siamo terrorizzati”, ma invece i piccoli saltano da un posto all’altro, tremando o non riuscendo a stare fermi, diventando molto irritabili. Le bambine diventano molto timide e si isolano. I bambini diventano più aggressivi – un altro esempio di come si esprime il trauma.

Ecco la storia di una collega. Visitava un campo e la gente le ha detto: “Vai in quella tenda, c’è una donna il cui figlio non parla da tre o quattro giorni”. Lei va in quella famiglia e la madre le dice: “Sì, beh, non solo non ha parlato negli ultimi tre o quattro giorni, ma non ha nemmeno mangiato nulla”. Questa storia è accaduta circa due o tre mesi fa, quando il cibo era disponibile – e quando diciamo che il cibo era disponibile, significa che le persone avevano qualcosa da mangiare, non che avevano cibo vero.

La nostra collega andò a sedersi accanto al bambino, che aveva dieci o undici anni. La psicologa aveva portato con sé pastelli e fogli per disegnare. Li posò e disse al bambino: “Sono un’operatrice sanitaria, sono qui per ascoltarti. Ho sentito che è da un po’ che non parli, ma sono qui per ascoltarti. Qualsiasi cosa ti venga in mente, parlane con me”.

Il bambino non fece nulla, non disse nulla. Lei aspettò, poi gli disse di nuovo: “Sono qui per te”. Dopo qualche minuto, il bambino disse: “Ho visto dei bambini con cui stavo giocando. Sono stati uccisi davanti ai miei occhi”.

Lui ha iniziato a piangere. Poco dopo, lei gli ha detto “sono andati in cielo” – qualcosa che diciamo ai bambini per tranquillizzarli. È quello che dicono tutti: sono in cielo, in un posto migliore.

Il bambino rispose: “Tutti me lo dicono, ma io non ho visto la testa del mio amico con cui stavo giocando. C’era solo il suo corpo. Come poteva andare in cielo senza la testa?”.

Lei ha risposto: “Sono affari di Dio. Egli è onnipotente e può fare ciò che è necessario, e naturalmente può riunire la testa con il corpo di quel bambino”. Così cominciò a confortare il bambino, dicendo: “Ho anche sentito che non hai mangiato nulla. Possiamo portarti del cibo? Qui ci sono dei pastelli e questa borsa è tua. Ci sono giocattoli e pastelli. Puoi disegnare quello che vuoi”.

La madre portò del cibo – un pezzo di pane con qualcosa dentro – e il bambino iniziò a mangiare. Cominciò non solo a parlare, ma anche a giocare con i pastelli e a mangiare.

Quando la psicologa ha raccontato questa storia al nostro centro comunitario, era estremamente felice perché era riuscita a far parlare e mangiare un bambino. Ha parlato di quanto la madre fosse felice che il bambino mangiava. Dopo due giorni, il bambino stava meglio e hanno continuato a fornirgli le cure di cui aveva bisogno.

A volte queste piccole cose che possiamo fornire sono molto importanti. A volte non ci si rende conto di quanto siano importanti finché non si vede il cambiamento significativo che creano. Con un bambino di questo tipo, se non avesse espresso il suo pensiero sul fatto che un bambino non può essere in paradiso senza la sua testa, questo per lui sarebbe rimasto un trauma per sempre.

Conosciamo il trauma. Una volta che si è esposti a un trauma, il trauma rimane nella psiche. Non si può cancellare, ma la domanda è: si può continuare la propria vita? Si può elaborare in qualche modo? Potete superarlo e andare avanti, o continuerà a danneggiarvi, a influenzare il vostro modo di pensare, la vostra capacità di concentrarvi, di imparare cose nuove, di continuare la vostra vita?

Oggi parliamo di trauma transgenerazionale basato sull’evidenza. Per questo temiamo che ciò che sta accadendo avrà un impatto sulla popolazione di Gaza non solo per anni, ma per decenni a venire.

L’entità sconcertante della perdita

Ora i numeri. Il Ministero della Salute di Gaza parla di oltre 60.000 morti e più di 112.000 feriti, anche se una ricerca pubblicata su The Lancet suggerisce che il bilancio delle vittime è del 40% più alto, tenendo conto dei dispersi e di coloro che si trovano sotto le macerie. Di solito, non solo questa volta ma anche negli attacchi precedenti, almeno un terzo dei feriti o dei morti sono bambini.

Parliamo di 39.000 bambini che hanno perso un genitore. Tra questi, 17.000 hanno perso entrambi i genitori. Il numero di bambini non accompagnati che sono l’unico membro della famiglia sopravvissuto supera il migliaio. I bambini che hanno perso un braccio o una gamba – i bambini con amputazioni – sono oltre 800.

Queste statistiche sono sconcertanti. Si riferiscono a una società in cui, prima dell’ottobre 2023, metà della popolazione viveva al di sotto del tasso di povertà a causa della lunga occupazione di Israele e del conseguente blocco.

Immaginate che quei bambini non hanno avuto alcuna istruzione, nessuna scuola per un anno e mezzo, a parte le miracolose improvvisazioni degli insegnanti di Gaza contro ogni previsione. In questi 20 mesi non hanno goduto di una vita quotidiana normale. Vivono in tende, camminano in luoghi distrutti, sono psicologicamente colpiti e non vedono segnali positivi per un futuro migliore. Non solo: i bombardamenti continuano quasi ogni notte.

La Striscia di Gaza è lunga circa 40 chilometri e larga dagli 8 ai 12 chilometri. Quando i bombardamenti avvengono in un luogo, tutti li sentono. Si tratta di un’esposizione continua a eventi traumatici senza una pausa che permetta la guarigione, mentre vivono in condizioni spaventose senza avere cibo adeguato – che permetta di stare in piedi e camminare o correre come i bambini, per avere un sano benessere fisico. Né hanno il supporto del sistema sanitario, ormai in forte sofferenza che sopravvive solo in modalità di crisi.

Perdite personali

Nel 2014 la nostra famiglia è stata colpita da una tragedia. L’edificio è stato bombardato al tramonto, durante il Ramadan. Era il momento in cui la gente si sedeva per rompere il digiuno, intorno alle 18:00, dopo una lunga giornata di digiuno di 13 o 14 ore. Stavamo ascoltando l’Adhan, la chiamata alla preghiera del tramonto, lo stesso momento in cui la gente inizia a mangiare.

Abbiamo sentito due grandi esplosioni contemporaneamente e abbiamo capito dove era avvenuto l’attentato. Più tardi abbiamo sentito il notiziario e abbiamo capito che l’edificio di tre piani era stato raso al suolo con 28 morti, tra cui tre donne incinte e 19 bambini.

Abbiamo passato tutta la notte a cercare i corpi delle persone. Anche quando il giorno dopo siamo andati alla moschea per recitare la preghiera funebre, c’era un grande sacco di corpi che non erano stati identificati o non potevano essere separati – come tutti gli altri, le parti del corpo erano state messe insieme e collocate in una tomba.

È qualcosa che non si può mai dimenticare. Qualcosa con cui si deve convivere. Ho avuto la fortuna di avere intorno a me molti colleghi del GCMHP (Gaza Community Mental Health Programme), molti colleghi della comunità internazionale che mi chiamavano e, naturalmente, membri della famiglia e parenti allargati. È stato uno degli eventi più riportati a causa dell’elevato numero di persone uccise in quell’unico attacco.

Poi, nel 2023-24, molti attacchi hanno ucciso centinaia di persone. In un altro Ramadan, il 18 marzo 2025, quando Israele ha rotto il cessate il fuoco e ha ricominciato ad attaccare, lo ha fatto alle 2:30 del mattino. Era circa un’ora prima dell’alba, quando la gente si stava per svegliare per prepararsi al Suhur, l’ultimo pasto prima dell’alba in cui si smette di mangiare. Le madri stavano preparando il cibo che avevano quando all’improvviso si è sentito il rumore dei bombardamenti: innumerevoli jet da combattimento hanno colpito Gaza in quel momento, contemporaneamente su quella piccola area geografica, terrorizzando tutti. I rapporti dicono che più di 400 persone sono state uccise durante quell’attacco, alcune mentre dormivano.

Come ogni altra famiglia, anche alcuni membri della mia famiglia sono stati uccisi dall’ottobre 2023 – in numero minore, in circostanze diverse, ma siamo come ogni altra famiglia nella Striscia di Gaza. Tra gli uccisi e i dispersi sotto le macerie ci sono membri di ogni famiglia o famiglia allargata.

Nell’aprile dello scorso anno, due miei cugini da parte di madre decisero di tornare a casa loro per prendere qualcosa e raccogliere dei vestiti. Le persone non avevano nulla quando sono fuggite dalle loro case, e ci sono stati momenti in cui hanno pensato di poter tornare indietro e prendere qualcosa. Questi due ragazzi, uno di 17 e l’altro di 16 anni, che erano cugini, hanno deciso di tornare a casa loro per prendere alcune cose. Uno era particolarmente interessato a prendere il suo computer portatile.

Sono entrati nella loro casa che era ancora in piedi a Khan Younis Est, vicino a una zona chiamata Abasan. Sembra che siano entrati in casa, abbiano raccolto tutto il necessario per i genitori e i fratelli, ognuno con uno zaino pieno, e poi siano tornati a Rafah nella zona delle tende. Un drone ha ucciso entrambi. I genitori non sono potuti andare a salutarli. Le persone che vivono in una scuola vicina hanno preso i corpi e li hanno seppelliti.

Poche settimane dopo, un altro tragico evento ha visto l’uccisione di persone della mia famiglia allargata – altri due giovani ragazzi, due fratelli, uno di 12 e uno di 15 anni. Il loro unico errore è stato quello di volere un accesso migliore a Internet, e per ottenerlo si trovavano in un edificio con buon accesso a Internet. L’edificio è stato distrutto, bombardato, e i loro corpi sono rimasti tra le macerie per ore. Quando sono stati tirati fuori, siamo andati all’ospedale per preparare la loro sepoltura.

Ho visto uno dei padri degli altri due ragazzi i cui corpi erano stati precedentemente seppelliti nella scuola, che mi ha detto: “Dottore, non so cosa dire, ma almeno hanno visto i corpi dei loro figli. Almeno Ahmed (il padre dei due fratelli uccisi nel secondo incidente) ha potuto vedere i corpi dei suoi figli e dire loro addio, ma io e mio fratello non abbiamo potuto dire addio ai nostri figli”.

Il trauma si manifesta in molti modi e il modo in cui le persone sono esposte al trauma è diverso, ma l’impatto è sempre insopportabile e dobbiamo vivere con queste storie. Bisogna sopravvivere, ed è per questo che tutti coloro che vivono ora nella Striscia di Gaza o che sono riusciti a lasciare la Striscia di Gaza sono dei sopravvissuti.

Parliamo di un sopravvissuto che ha trascorso 20 mesi correndo da una tenda all’altra. Parliamo di una sopravvissuta che per 20 mesi ha avuto la possibilità di fare la doccia solo cinque o sei volte – e per le donne questa è una cosa estremamente vergognosa. Parliamo di un bambino che per 20 mesi non ha avuto la possibilità di mangiare alcun tipo di frutta. Parliamo di un bambino che non ha mai visto uno yogurt in vita sua.

Gestire la rabbia

Le persone sono incredibilmente arrabbiate. Anch’io sono molto arrabbiato, ma nel corso degli anni ho imparato a gestire la mia rabbia perché, in un modo o nell’altro, la missione degli operatori della salute mentale è aiutare gli altri. L’altra mia missione è guidare un’organizzazione che abbia la visione di un’organizzazione leader nel campo della salute mentale e dei diritti umani in Palestina.

Per continuare a farlo, dobbiamo sostenere i nostri colleghi, sostenere noi stessi, sapere cosa fare, cosa dire, come reagire. È un lavoro molto difficile, in un contesto molto impegnativo, ma si impara a farlo. Lo si impara perché non c’è altro modo. Dobbiamo aiutare la comunità, aiutare le persone a superare le realtà difficili – non direi a far fronte, perché è oltre il far fronte – ma almeno fare qualcosa che permetta alle persone di continuare la loro vita, prevenire e minimizzare il più possibile l’impatto psicologico. Cerchiamo di lavorare sulla resilienza, se ne rimane una. Per questo, è necessario controllare se stessi. È così che vanno le cose.

Salute mentale e diritti umani

Come si può stare bene psicologicamente quando si è oppressi, quando non si esercitano e non si praticano i propri diritti fondamentali, quando manca il diritto alla salute, quando manca il diritto all’istruzione, quando manca il diritto alla sicurezza, quando manca il diritto alla pace, quando non vengono rispettati i diritti sociali, quando si subiscono quotidianamente violazioni dei propri diritti fondamentali, quando il diritto alla vita è minacciato quotidianamente. Come si può sopravvivere a tutto questo?

 Non si può vivere o condurre una vita sana quando si è oppressi. Lo vediamo nelle vittime della violenza di genere, della violenza domestica, nelle persone che vivono sotto oppressione. Ma solo in Palestina si parla di qualcosa che sta accadendo da decenni. Siamo una nazione a cui non è stato permesso di avere un proprio stato. Siamo persone che vivono nel XXI secolo sotto un’occupazione che distrugge la nostra vita quotidiana, a volte lentamente e sempre più spesso in un lampo.

Queste continue violazioni dei diritti hanno un impatto sul modo in cui le persone vivono e pensano. Come professionisti della salute mentale, ci occupiamo delle implicazioni di queste violazioni. Alcune violazioni sono chiare – sono visibili, come accade oggi quando qualcuno viene ucciso o quando si sentono i bombardamenti. A volte sono più sottili.

Per esempio, guardate la Cisgiordania. Ci sono centinaia di posti di blocco che dividono la Cisgiordania in aree segregate. Chi lavora in una città, a volte impiega ore per raggiungere il proprio villaggio o la propria cittadina. Ci sono incertezze su tutto. A volte in Cisgiordania le scuole chiudono a causa della violenza dei coloni o dei militari, o per la chiusura delle strade o delle città.

Quando le persone vanno a raccogliere le olive, questa è ormai una prova annuale per i Palestinesi. In tutto il mondo, per gli agricoltori, quando è il momento di raccogliere la loro produzione agricola, è un momento allegro – tutti sono felici. Ma non in Palestina. La gente ha paura di essere molestata dai coloni, di vedere i propri alberi bruciati dai coloni.

Come si può sopravvivere psicologicamente a tali condizioni di vita?

Il concetto di resilienza

La resilienza era qualcosa di bello di cui parlavo vent’anni fa, di cui ero orgoglioso: nonostante tutte le difficoltà, nonostante le chiusure, nonostante i blocchi, nonostante la Seconda Intifada. Nonostante siano cresciuti in condizioni così dure, i palestinesi continuano la loro vita. Abbiamo il più alto numero di persone istruite, il più basso analfabetismo del Medio Oriente, la più alta percentuale di titolari di master e dottorati. Questi risultati sono stati raggiunti contro ogni aspettativa e la spiegazione è stata la “resilienza”: i giovani sono resilienti.

In seguito, ho iniziato a chiedermi cosa significasse. Resilienza significa che, nonostante tutti gli stress, le persone non sviluppano disturbi mentali. Continuano a sopravvivere psicologicamente. Ebbene, noi stiamo sopravvivendo psicologicamente, ma stiamo sopportando così tante difficoltà, eventi e momenti stressanti che questo non può continuare. Questa resilienza non potrà continuare per sempre. Non può coprire la realtà o farci trascurare il fatto che meritiamo di condurre una vita umana normale come tutti gli altri esseri umani. Abbiamo diritto a momenti di gioia, a giorni di pace e a condurre una vita normale.

I palestinesi sono persone molto produttive. Meritiamo di vivere come tutte le persone normali, di prosperare e di vedere i nostri figli giocare, divertirsi e andare avanti con le nostre vite. La parola resilienza è come un promemoria di quanti giorni difficili abbiamo già attraversato.

Speranza nelle tenebre

La storia della mia collega psicologa che ci ha raccontato della sua visita alla tenda – e abbiamo molte storie di questo tipo – è una fonte di speranza. La madre di quel bambino che ha visto suo figlio parlare di nuovo e mangiare di nuovo è un’altra storia di speranza. La storia di 2 milioni di persone che ancora sopravvivono nella Striscia di Gaza, nonostante tutti gli orrori, è una storia di speranza.

La speranza è presente ovunque. Quando c’è stato il cessate il fuoco di due mesi, c’erano molti gruppi di bambini le cui famiglie hanno iniziato a organizzare dei corsi di istruzione nelle tende. Questa è una fonte di speranza.

Quando si vedono persone che dicono: “Ok, abbiamo perso la nostra casa, ma stiamo vicino alla nostra casa e la costruiremo di nuovo”, questa è una fonte di speranza. Quando si vedono persone sedute sul tetto della loro casa distrutta che dicono: “Qui siamo presenti”, questo è un altro tipo di speranza.

Quando si vede quanta solidarietà esiste nella comunità internazionale, questa è un’altra fonte di speranza. Quando si vede che le persone cercano di chiamarti per sapere come stai, questa è una sorta di speranza.

Quando si vede un bambino che ha perso tutti i membri della sua famiglia, ma che vive con un’altra famiglia e pensa: “Ok, sono io il sopravvissuto”, e continua la sua vita, questa è una sorta di speranza. Anche il solo fatto di non essere distrutto è una sorta di speranza.

Questo è ciò che cerchiamo di fare quando incontriamo la nostra gente nella comunità: li aiutiamo a identificare le cose buone che li circondano, nonostante le crudeltà e le sfide, e questo diventa una fonte di speranza. La nostra principale fonte di speranza è il fatto che la nostra gente è miracolosa e che pur trovandosi di fronte a quella macchina per uccidere, una macchina per uccidere tutto, continua tuttavia a cercare di sopravvivere.

Un’idea sbagliata

Abbiamo visto che ogni volta che si verifica un bombardamento, Gaza è sotto i riflettori, la gente capisce cosa sta succedendo. Quando i bombardamenti cessano, la gente pensa che le condizioni disperate di vita siano finite e che si potrà vivere in pace. Questa non è la realtà.

Tra il 2014 e il 2023 – quei nove anni – il blocco della Striscia di Gaza con le restrizioni di movimento è stato sempre presente. I droni volavano costantemente nei cieli, ricordando alla gente i disastri. Tra il 2014 e il 2023 si sono svolte almeno cinque operazioni su larga scala, che hanno ricordato a tutti il significato di disastro. Migliaia di persone con gravi malattie non hanno potuto ricevere assistenza sanitaria al di fuori della Striscia di Gaza a causa delle restrizioni di movimento.

La comunità internazionale non vede questa vita in costante violazione dei diritti umani. La gente pensa che la vita continui, come in una zona disastrata dove, una volta finita la guerra, ci si riprende e si continua a vivere. Purtroppo non è mai così per la Striscia di Gaza.

Tra un mese, due mesi, tre mesi, una settimana, si raggiungerà un altro cessate il fuoco. Questo è ciò per cui prego, ciò che spero. Ma non significa che la nostra vita migliorerà immediatamente. Le minacce immediate cesseranno, i suoni dei bombardamenti cesseranno, ma i nostri figli continueranno a vivere per anni tra le macerie. Per gli anni a venire non saremo in grado di ricostruire tutte le scuole e le case distrutte. Per tutti questi anni avremo delle cause scatenanti che continueranno a ricordarci le condizioni traumatiche, gli sfollamenti e gli attacchi, le persone che abbiamo perso – i nostri cari, i colleghi, gli amici, i familiari che sono stati uccisi durante gli attacchi.

La comunità internazionale deve agire

In ogni luogo in cui si svolge una guerra, ci sono norme e regolamenti che devono essere rispettati per legge. Ad esempio, il diritto alla salute, l’evacuazione delle persone ferite o uccise, la sicurezza degli ospedali, la sicurezza degli operatori sanitari, l’accesso al cibo e all’acqua. Queste cose basilari – permettere l’accesso alle cose necessarie per le donne e i bambini, agli articoli per l’igiene – non vengono mai rispettate e non sono state rispettate durante questi 20 mesi.

Le regole sono universali e il popolo palestinese non deve fare eccezione. Non è accettabile che i leader della comunità internazionale stiano solo a guardare e a parlare. Non fanno nulla, se non fare annunci o dichiarazioni o inviare rapporti, senza intraprendere alcuna azione seria.

 È al di là della comprensione. Devono essere proattivi, devono intraprendere azioni sul campo. Il cibo è un diritto fondamentale. I farmaci sono salvavita.

Se falliscono in questo, allora perché abbiamo bisogno di loro? Che bisogno c’è della comunità internazionale, degli operatori delle ONG, se da due mesi non riescono a far arrivare farina o latte nella Striscia di Gaza? A cosa serve la loro presenza?

 La comunità internazionale ha il potere di agire, ma deve avere la volontà di usarlo.

La comunità internazionale ha perfezionato l’arte di guardare e fare dichiarazioni. Ma i bambini non possono mangiare le dichiarazioni. Le famiglie non possono ripararsi sotto i rapporti. Se non riuscite a garantire che farina e latte arrivino ai bambini di Gaza, qual è il vostro scopo? I professionisti della salute mentale lo capiscono: la guarigione richiede azioni, non solo parole. Anche la salute mentale del mondo dipende da questo.

Allora, come si fa a fornire cure mentali durante un genocidio? Lo si fa rifiutando di accettare che un popolo meriti di vivere in questo modo. Lo si fa aiutando un bambino a parlare di nuovo, ascoltando il senso di colpa di un genitore, trovando la speranza nel semplice atto di sopravvivenza. Ma soprattutto, lo si fa chiedendo al mondo di ricordare che i palestinesi non sono resistenti per scelta: siamo resistenti perché non abbiamo altra scelta. E questo deve cambiare.

Quando tutto questo finirà – e finirà – i bambini di Gaza porteranno questi traumi per generazioni. Ma non saranno gli unici a essere segnati da questo momento. La storia ci chiederà cosa avete fatto quando lo sapevate. La salute mentale, a quanto pare, non è solo curare i traumi, ma anche prevenirli. La questione non è solo come fornire assistenza durante un genocidio. È chiedersi perché il mondo permette che il genocidio continui.

Il dottor Yasser Abu Jamei è il direttore generale del Programma di Salute Mentale della comunità di Gaza.

https://www.counterpunch.org/2025/06/11/living-through-the-unimaginable-a-testament-from-gaza/

Traduzione a cura di AssopacePalestina

Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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