di Malak Hijazi,
Mondoweiss, 10 giugno 2025.
Lo abbiamo chiamato Mare di Gaza, anche se fa parte del Mediterraneo, perché Israele ci ha isolato dal mondo e ci ha fatto credere che il nostro mare fosse irraggiungibile. La Freedom Flotilla ha rotto questo incantesimo.
Sono nata a Gaza appena un anno prima della Seconda Intifada. Non ricordo un solo anno della mia vita che sia trascorso con un ritmo normale. Ricordo di essermi infilata negli angoli delle strade per schivare i proiettili vaganti. Ricordo di essermi seduta al mio banco di scuola, aspettando di sentire la bomba cadere, perché sentirla significava che non ero io il bersaglio.
Nel 2007, quando avevo otto anni, Israele ha imposto un duro assedio a Gaza. Ricordo i momenti in cui non avevamo nulla da mangiare, tranne due scatole di tonno. Andavo al supermercato vicino sperando di comprare qualche snack, solo per trovare gli scaffali vuoti. La vita era di un’immensa durezza, perché vivevamo e viviamo ancora nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. Questo è tutto ciò che ricordo.
L’unico luogo che ci dava un fugace senso di libertà era il mare. Spesso lo chiamiamo Mare di Gaza, anche se fa parte del Mediterraneo. In qualche modo, ci è sempre sembrato scollegato dalle altre parti, come se si fosse trasformato in un vasto lago intrappolato all’interno di confini creati da Israele. Diventava difficile immaginare che fossimo vicini a Jaffa, o ad Alessandria, o ad Atene. Israele ci aveva isolato con successo dal mondo e, alla fine, abbiamo iniziato a credere che fosse irraggiungibile.
Nel maggio 2011, avevo undici anni. Ricordo di aver guardato la Mavi Marmara in TV, credendo che ci avrebbe raggiunto. La immaginavo che si avvicinasse, le bandiere che sventolavano, le persone che applaudivano, la nave che tracciava una linea sul mare. Non capivo la politica, ma capivo cosa significasse sperare. Quando fu attaccata e i suoi passeggeri furono uccisi, qualcosa dentro di me crollò. Anche il mare ci aveva voltato le spalle. Era stato chiuso come una porta. Quel momento ha rimodellato il mio modo di intendere lo spazio, la libertà e il futuro. I soccorsi erano arrivati, ma erano stati fermati prima che potessero arrivare a noi.
Ora, nel 2025, c’è un’altra nave. Si chiama Madleen, come una pescatrice palestinese di Gaza la cui barca è stata sequestrata dalle forze israeliane. Madleen non è arrivata con le armi. Non ne aveva bisogno. La sua missione non era quella di affrontare il blocco con la forza, ma di affrontare il silenzio che lo circonda. Doveva resistere all’idea che non si può fare nulla di fronte al potere di Israele. Era una nave civile, disarmata e chiara nel suo scopo. Trasportava beni di prima necessità: latte artificiale, farina e riso; prodotti per l’igiene come pannolini e assorbenti igienici; attrezzature per la desalinizzazione dell’acqua; forniture mediche, stampelle e protesi per i bambini.
Ho immaginato la scena esattamente come si sarebbe svolta, anche prima che accadesse. Vedevo la nave avvicinarsi nella mia mente, lenta e determinata, con il suo fragile carico e le speranze di molti. Ma prima che potesse raggiungere le acque palestinesi, le forze navali israeliane l’hanno intercettata in acque internazionali. Madleen è stata abbordata, il suo contenuto è stato confiscato e gli attivisti a bordo sono stati arrestati. La nave è stata trattenuta e reindirizzata altrove, proprio come quella precedente.
Credo che anche i passeggeri della nave sapessero come sarebbe andata a finire. Sul loro sito web, hanno menzionato quanto accaduto alla Mavi Marmara. Ma hanno chiarito di essere salpati non perché credevano di vincere, ma perché rifiutavano di arrendersi al silenzio, alla paura o alla complicità.
Ciò che Madleen portava con sé non erano gli aiuti. Era il rifiuto – il rifiuto di normalizzare il genocidio e l’isolamento forzato di Gaza.
Questo tipo di solidarietà non arriva attraverso discorsi vuoti. Arriva attraverso il rischio. Arriva attraverso le persone che scelgono di stare nello spazio tra il potere e le sue conseguenze, scegliendo di essere presenti, di testimoniare, quando al mondo è stato detto di guardare altrove.
Ecco perché è importante. A Gaza, ciò che ci è stato tolto non sono solo i nostri cari, le nostre case, le nostre infrastrutture o la nostra capacità di muoverci. Ciò che ci è stato tolto è anche la convinzione che le nostre vite siano considerate degne. Quando le persone rischiano la loro sicurezza per essere presenti, non per salvarci, ma per insistere che il nostro isolamento è inaccettabile, ricordano al mondo che le nostre vite non sono collaterali. Non siamo troppo lontani, né troppo pericolosi, né troppo politicamente complicati da affiancare. Questo tipo di solidarietà taglia via ogni astrazione. Dice: siamo con voi. Non perché è facile, ma perché è giusto.
Ecco perché tanti palestinesi di Gaza hanno marciato, nonostante il pericolo, verso il porto. Sono venuti non solo per dare il benvenuto a Madleen, ma anche per respingere il sequestro della nave da parte di Israele. Sono venuti per dire: non siamo invisibili. Non siamo soli. Siamo visti.
Pochi giorni prima che la nave fosse fermata, un’altra forma di protesta era iniziata sulla terraferma.
All’inizio del maggio 2025, la Carovana al-Sumud è partita da Tunisi. Decine di autobus sono partiti in un’iniziativa guidata da civili per raggiungere Gaza via terra. La folla si è radunata per accompagnarli, tunisini e algerini in piedi fianco a fianco, sventolando bandiere e cantando all’unisono. Non si tratta di una delegazione sponsorizzata dallo stato o di una manifestazione simbolica. È un atto di presenza diretta radicato nella comprensione che l’assedio non è solo militare, ma anche spaziale. Lo scopo dell’assedio è quello di rendere Gaza irraggiungibile.
Al momento, la carovana non è ancora arrivata. Il suo percorso è incerto. I partecipanti si stanno muovendo su un terreno politico complesso, attraverso i confini, e non è chiaro fino a che punto riusciranno ad andare. Ma nonostante ciò, si muovono. Perché non fare nulla significherebbe accettare la logica dell’isolamento di Gaza. Perché camminare verso il confine, anche se fermati, è un rifiuto di normalizzare il confine.
Questi atti di solidarietà non sono apprezzati perché domani romperanno l’assedio. Sono importanti perché rompono l’incantesimo che Israele sia inarrestabile e -per noi- che il mondo sia irraggiungibile.
Traduzione a cura di AssopacePalestina
Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.