di Nicola Perugini e Shahd Hammouri,
Al Jazeera, 28 aprile 2025.
Gli Stati hanno il dovere di fermare il genocidio. L’invio di una forza di pace a Gaza e in Cisgiordania soddisferebbe questo obbligo.

Nelle ultime settimane, sono riemerse le richieste per l’invio di una forza di protezione a Gaza e in Cisgiordania. Sono arrivate da professionisti della salute e organizzazioni mediche, da ONG palestinesi e persino da civili arabi. L’anno scorso, anche la Lega Araba e le organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto l’invio di una forza di pace a Gaza.
Alla luce della normalizzazione globale del genocidio in diretta e della riluttanza politica a far rispettare il diritto internazionale, questa richiesta rappresenta una misura minima per salvaguardare i Palestinesi da orrori inimmaginabili.
La richiesta è saldamente fondata sul diritto internazionale. A Gaza, una forza di pace potrebbe portare avanti il dovere degli Stati e delle Nazioni Unite di proteggere un popolo che sta affrontando un genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, oggetto di indagine presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale. Sia a Gaza che in Cisgiordania, tali forze potrebbero sostenere il processo di cessazione dell’occupazione, come richiesto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Tuttavia, la richiesta di una forza di protezione deve affrontare sfide importanti. La domanda cruciale è: queste sfide possono essere superate?
La giustificazione di una forza di protezione
La situazione a Gaza e in Cisgiordania ha raggiunto un’urgenza e un’estremizzazione senza precedenti. La pressione militare di gruppi armati in Libano e nello Yemen, esercitata nel tentativo di proteggere il popolo palestinese, non è riuscita a fermare le atrocità, e il popolo libanese e yemenita ha pagato un prezzo pesante.
Ecco perché è urgente una forza di protezione internazionale. Il suo dispiegamento realizzerebbe ciò che la popolazione palestinese chiede alla comunità internazionale: proteggerla. Questa forza servirebbe come “scudo umano” – non nel senso dispregiativo utilizzato dall’esercito israeliano per giustificare il suo genocidio definendo l’intera popolazione palestinese come scudo umano, ma nel senso di una barriera veramente pacifica tra i palestinesi e il loro annientamento.
La sua presenza potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte di massa per i civili che hanno affrontato un anno e mezzo di bombardamenti, assedio e fame.
Inoltre, questa forza offre un’alternativa critica alle “soluzioni” più sinistre. Mentre Israele intensifica la sua campagna genocida, imponendo condizioni progettate per distruggere la vita dei Palestinesi, gli Stati Uniti hanno ventilato l’idea di dispiegare le proprie truppe a Gaza per “prenderla in consegna”.
Tale mossa costituirebbe un’invasione illegale degli Stati Uniti in Palestina, rafforzando ulteriormente la violenza coloniale con il pretesto di mantenere la “stabilità”. Al contrario, forze incaricate di proteggere i Palestinesi – e non interessi imperiali e coloniali – potrebbero fornire una contromisura legittima e fondata a livello internazionale.
Le sfide alla formazione di una forza di protezione
Il dispiegamento di forze di protezione attraverso un mandato delle Nazioni Unite richiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti porrebbero sicuramente il veto su qualsiasi tentativo di creare una forza di questo tipo, così come hanno bocciato diverse risoluzioni di cessate il fuoco, consentendo di fatto il genocidio e bloccando qualsiasi sforzo per sostenere anche i più elementari principi di umanità previsti dalla Carta delle Nazioni Unite.
La situazione sta indubbiamente diventando sempre più disperata sotto un’amministrazione statunitense che sostiene attivamente le espulsioni e le deportazioni di massa della popolazione palestinese da Gaza. Lo stesso Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha descritto la Striscia di Gaza come un “sito di demolizione” e ha espresso il desiderio che gli Stati Uniti la trasformino nella “Riviera del Medio Oriente”.
Poiché una risoluzione che richiede una forza di pace verrebbe bloccata dal Consiglio di Sicurezza, l’alternativa è una chiamata all’azione multilaterale attraverso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Anche in questo caso, il potere coercitivo degli Stati Uniti influenza pesantemente i voti – compreso quello dell’Autorità Palestinese – ma si tratta comunque di un’opzione praticabile. La prima volta che una tale mossa potrebbe avvenire è alla prossima sessione dell’Assemblea Generale, a maggio, e richiederebbe un’immensa pressione diplomatica.
Un voto a favore di una forza protettiva da parte dell’Assemblea Generale non sarebbe vincolante e richiederebbe l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, potrebbe contribuire a creare una coalizione di paesi che segnalano la loro volontà di intervenire con misure di protezione concrete in difesa della vita palestinese, dopo 19 mesi di parole vuote senza azioni tangibili.
Un’altra sfida è che il meccanismo di dispiegamento delle forze di pace è stato a lungo considerato con sospetto dagli stati del Sud globale – e per una buona ragione. Le truppe di mantenimento della pace delle Nazioni Unite sono spesso servite come strumenti di polizia nel Sud globale e come estensioni del controllo imperiale, a volte commettendo esse stesse delle atrocità.
Storicamente, il mantenimento della pace si è ampiamente allineato con gli interessi imperiali, raramente opponendosi ad essi. I paesi che contribuiscono con truppe hanno spesso alleanze militari discutibili e le operazioni di mantenimento della pace dipendono dai finanziamenti dei grandi donatori, come gli Stati Uniti. Un buon esempio è la missione di pace UNIFIL in Libano, che ha una presenza europea insolitamente alta e che non è riuscita a proteggere il sud del paese dall’aggressione di Israele.
Date tutte queste sfide, dobbiamo abbandonare la richiesta di una forza di protezione nei territori palestinesi occupati? Assolutamente no.
Reimmaginare radicalmente le forze di protezione
Gli ostacoli sono reali, ma la richiesta di una forza di protezione è legittima. Proviene da diversi settori della stessa società palestinese ed è sostenuta a livello globale da persone e gruppi contro il genocidio.
In una recente petizione, gli operatori sanitari palestinesi e internazionali hanno proposto un modello: una missione protettiva neutrale e multinazionale – non per mediare, ma per proteggere. Le loro richieste includono l’esclusione delle nazioni complici dell’aggressione dall’apporto di truppe e il mandato alla forza protettiva di proteggere fisicamente i civili e gli operatori sanitari palestinesi, di ripristinare corridoi umanitari e medici sicuri e di sostenere la ricostruzione dell’infrastruttura smantellata di Gaza, guidata dai palestinesi.
Allo stesso modo, la Rete delle ONG Palestinesi ha chiesto la protezione internazionale, l’apertura dei valichi verso Gaza e la garanzia di corridoi sicuri per gli aiuti.
Nel frattempo, i civili egiziani hanno ripetutamente dichiarato la loro disponibilità ad entrare a Gaza come forza di protezione civile, se le frontiere saranno aperte. Questo sottolinea il potenziale di una protezione alimentata dalle popolazioni, accanto ai meccanismi formali.
Per tradurre in azione questi molteplici appelli, è necessario reimmaginare radicalmente l’aspetto e il funzionamento di una forza di protezione.
In primo luogo, è necessario che gli stati non coinvolti nel genocidio e i gruppi della società civile spingano per aggirare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Devono concentrare tutti gli sforzi e l’influenza sulla Sessione Speciale di Emergenza dell’Assemblea Generale dell’ONU che si terrà a maggio, per resistere alle pressioni degli Stati Uniti e spingere per un voto su un mandato di peacekeeping.
In secondo luogo, abbiamo bisogno di nuove alleanze Sud-Sud. Ciò significa partnership strategiche tra le nazioni del Sud Globale non coinvolte nel genocidio, per finanziare e fornire personale a una missione libera dall’influenza imperiale, che possa procedere anche senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.
In terzo luogo, abbiamo bisogno di una mobilitazione senza precedenti della società civile in un’unica direzione: fare pressione sui governi affinché appoggino e partecipino a una forza di protezione veramente neutrale.
Gli Stati Uniti si opporrebbero alla creazione di nuove coalizioni che mettano al centro la vita palestinese e si presentino come campioni meridionali della dottrina della responsabilità di proteggere. Lo vedrebbero come una sfida alla propria egemonia e al monopolio occidentale sulla lotta al genocidio, e userebbero il loro veto in seno al Consiglio. Tuttavia, i paesi e i gruppi della società civile coinvolti nella creazione della forza di protezione dovrebbero ignorare il veto, formare la missione in modo autonomo e sfidare l’ordine internazionale genocida in cui viviamo.
Le sfide che questo sforzo di reimmaginazione radicale deve affrontare sono formidabili. Ma l’alternativa è continuare a lasciare le vite dei Palestinesi senza protezione, alla mercé di un processo di sterminio coloniale sempre più intenso. Dobbiamo agire ora e spingere per una forza di protezione per la Palestina occupata.
Nicola Peruginiè docente senior di Relazioni Internazionali presso l’Università di Edimburgo. È coautore di The Human Right to Dominate (OUP 2015) e di Human Shields. A History of People in the Line of Fire (2020).
Shahd Hammouriè docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Kent e consulente legale internazionale. La sua ricerca si concentra sulle economie di guerra e sulla teoria critica. È autrice del libro di prossima pubblicazione ‘Corporate War Profiteering and International Law‘.
Traduzione a cura di AssopacePalestina
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