‘L’azione collettiva è l’unico antidoto’: Progressive International, il Gruppo dell’Aia e il movimento globale per denunciare le responsabilità di Israele

di Michael Arria,   

Mondoweiss, 21 marzo 2025.    

Varsha Gandikota-Nellutla di Progressive International parla con Mondoweiss della creazione del Gruppo dell’Aia, una campagna delle nazioni del Sud globale per sostenere le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale internazionale sulla Palestina, e degli sforzi internazionali per ritenere Israele responsabile.

La conferenza stampa che annuncia la creazione del Gruppo dell’Aia il 31 gennaio 2025. (Foto: Progressive International)

Progressive International (PI) è un’organizzazione internazionale fondata nel 2020 per “unire, organizzare e mobilitare le forze progressiste del mondo”. Il movimento comprende oggi oltre un centinaio di organizzazioni in tutto il mondo, che rappresentano milioni di membri.

“A differenza delle precedenti internazionali, il PI non si limita a un solo tipo di organizzazione o a un solo tipo di lotta”, ha scritto il Co-Coordinatore Generale del PI David Adler al momento del lancio del gruppo. “I partiti politici non hanno il monopolio dell’organizzazione politica e un’Internazionale del XXI secolo deve riflettere la diversità delle associazioni nella nostra vita. Ecco perché PI mira a riunire tutte le forze progressiste – dai sindacati alle organizzazioni di inquilini, dai movimenti di liberazione alle pubblicazioni clandestine – per contribuire a un fronte comune”.

“A differenza dei forum passati, PI si fonda sulla premessa che una rete sociale non è sufficiente”, ha proseguito. “Proprio come le precedenti Internazionali hanno avanzato le richieste di una settimana lavorativa più breve e la fine del lavoro minorile, PI mira a sviluppare una visione politica pragmatica per trasformare le nostre istituzioni”.

Sin dalla sua fondazione, PI ha contribuito a sviluppare molteplici campagne, tra cui l’impegno a ritenere Israele e i suoi sostenitori internazionali responsabili dei crimini di genocidio, apartheid e occupazione.

Nel gennaio 2025 PI ha convocato il Gruppo dell’Aia, fondato da 8 stati membri (Bolivia, Colombia, Cuba, Honduras, Malesia, Namibia, Senegal e Sudafrica) nel tentativo di sostenere le recenti sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e della Corte Penale Internazionale (CPI) su Gaza.

“Chiediamo a tutte le nazioni di unirsi a noi nel Gruppo dell’Aia nel solenne impegno di un ordine internazionale basato sullo stato di diritto e sul diritto internazionale, che, insieme ai principi di giustizia, è essenziale per la coesistenza pacifica e la cooperazione tra gli stati”, si legge nella dichiarazione inaugurale del gruppo.

Varsha Gandikota-Nellutla è Coordinatrice Generale di Progressive International e Presidente in carica del Gruppo dell’Aia.

Michael Arria, corrispondente diMondoweiss negli Stati Uniti, ha parlato con Gandikota-Nellutla di PI, del Gruppo dell’Aia e del perché l’educazione politica è una parte importante della lotta per un mondo migliore.

Come è nata Progressive International e quali sono i suoi obiettivi?

Progressive International è stata lanciata cinque anni fa, nel 2020. È un gruppo internazionale di partiti, movimenti sociali, sindacati, intellettuali e istituti di ricerca di tutto il mondo, che si pone la domanda molto semplice di come stia l’internazionalismo nel XXI secolo.

La Coordinatrice Generale di Progressive International Varsha Gandikota-Nellutla all’annuncio del Gruppo dell’Aia il 31 gennaio 2025. (Foto: Progressive International)

Perché poniamo questa domanda? Lo facciamo perché ci rendiamo conto che stiamo vivendo in un momento in cui l’internazionalismo e la solidarietà sono stati davvero svuotati di tutto il loro significato reale. La solidarietà per qualcuno è stata ridotta all’idea, ad esempio, di firmare una petizione o di aggiungere il proprio nome a qualcosa.

Quindi, in molti modi, si tratta di un esperimento e questo esperimento è rinato nel momento di guerra globale e di pandemia COVID del 2020. Molto del nostro lavoro ruota intorno all’operare in questi spazi tra paesi e tra forze progressiste che fanno cose incredibili all’interno degli stati.

Dal punto di vista del lavoro, assomiglia a Make Amazon Pay, che riunisce i sindacati che lavorano in diversi impianti Amazon in tutto il mondo per scioperare insieme. Dal punto di vista statale, si tratta di un internazionalismo dei vaccini, in cui stiamo riunendo le nazioni che potrebbero mettere a disposizione la tecnologia dei vaccini, le fabbriche, il denaro per produrre farmaci a prezzi solidali per tutto il mondo. A livello globale, a livello antimperialista, assomiglia al Gruppo dell’Aia, dove un blocco di nazioni e movimenti si riunisce per dire: “Romperemo materialmente le arterie della macchina genocida colpendo i porti, bloccando le navi e facendo rispettare le politiche a livello internazionale”.

Seguo PI sui social media e mi colpisce la frequenza con cui il gruppo condivide informazioni e spiegazioni sui movimenti e sulle campagne politiche del passato. Mi chiedo se mi puoi parlare del motivo per cui la storia sembra una componente così cruciale di questo progetto.

In parte perché prendiamo tutte le nostre lezioni dalla storia. Prendiamo ispirazione dalla storia e impariamo anche dagli errori della storia.

Tornando a quello che dicevo all’inizio, parte di ciò che ha afflitto la sinistra è stata una sorta di disfattismo. Non stiamo operando nell’internazionalismo degli anni ’60 o ’70 o nel momento delle lotte indipendentiste del Terzo Mondo, dove c’erano davvero governi e partiti politici di sinistra che prendevano il potere in tutto il mondo in molti contesti diversi.

Quindi, credo che il disfattismo si sia imposto, e se guardiamo al mondo vediamo molti movimenti di destra che conquistano il potere, sia a livello economico che militare, mentre la sinistra è stata relegata ai margini.

Una cosa che stiamo cercando di fare con questo tipo di educazione è mostrare che questi cicli si sono verificati in passato. Abbiamo combattuto contro di loro e abbiamo vinto. La seconda cosa è quella di far risorgere e rinnovare, non solo ripetere, alcuni di questi incredibili progetti, come il Movimento dei Non Allineati, che ha una grande risonanza oggi, visto ciò che sta accadendo con l’Ucraina e la Palestina. O anche il Progetto del Nuovo Ordine Economico Internazionale, come stiamo vedendo ora con la nuova corsa ai metalli critici e il nuovo accaparramento di terre e minerali in Africa, e il consolidamento in Europa.

Questo riguarda anche i progetti politici e i partiti politici. Abbiamo visto che alcuni dei nostri vecchi partiti di sinistra in molti paesi diversi, soprattutto nel Sud globale, hanno dovuto reinventarsi. Suppongo che sia una chiamata per le generazioni più giovani che cercano di ispirarsi e di lavorare per un progetto che si adopera per la giustizia e la dignità di tutti i popoli.

PI ha lavorato a diverse campagne legate alla Palestina, tra cui No Harbour for Genocide, che mirava a bloccare le navi che trasportavano armi in Israele. Puoi parlare di alcuni di questi sforzi e di come l’organizzazione ha adattato il suo attivismo al genocidio di Gaza?

Credo che la solidarietà con la Palestina in termini retorici sia sempre stata incredibilmente forte, ma ciò che abbiamo visto una volta iniziato il genocidio è stata l’impotenza di tutti noi come movimenti sociali, a volte come sindacati e persino come partiti politici, nel fermarlo.

Le campagne di PI hanno cercato minuziosamente ogni meccanismo con cui poter minare l’economia che sostiene la potenza di questa macchina genocida. Quindi una parte di questo è la complicità aziendale. Il nostro Watermelon Index [Indice del Cocomero, un database di aziende complici di Israele. NdT] documenta attentamente la complicità aziendale delle grandi aziende del settore tecnologico, della vendita al dettaglio e del consumo, e il modo in cui traggono profitto dal genocidio in Palestina.

Ma non si ferma qui. Non si tratta solo di denunciare. Si tratta di organizzare, che, ovviamente, è il principio centrale di tutto il lavoro di Progressive International. Come possiamo riunire operai e impiegati, la forza lavoro di queste aziende, per schierarsi a favore della Palestina? Che si tratti di scioperare o di rompere effettivamente qualche volta la tecnologia in alcuni di questi luoghi, in modo che non possa più essere utilizzata, ad esempio, per sorvegliare i palestinesi.

Quindi, il Watermelon Index è un grande progetto. Il secondo riguarda i porti, che sono un fulcro del genocidio. È subito diventato chiaro a tutti noi che l’unico modo per impedire che le armi vadano a Israele non era in realtà attraverso le leggi. Abbiamo assistito a movimenti presso la Corte Internazionale di Giustizia e a molteplici cause intentate nei tribunali nazionali, ma i tribunali operano su una sorta di tempistica diversa. Qui ci siamo trovati di fronte a un genocidio che veniva lanciato sui nostri telefoni in modo più pressante ogni singolo giorno. È stato allora che abbiamo capito che c’era bisogno di una coalizione di sindacati, ma anche di ricercatori, che si unissero per identificare le navi, le rotte di navigazione, molte delle quali erano segrete, le compagnie, molte delle quali si camuffavano sotto altri tipi di trasporto, per cui non era sempre facile capire quali navi trasportassero armi a Israele, perché sono molto brave a nascondere queste cose.

Così è stata sviluppata la campagna No Harbor for Genocide (Nessun Porto per il Genocidio). Questo non è avvenuto solo grazie a Progressive International. È avvenuto in collaborazione con una serie di organizzazioni diverse e di incredibili attivisti, come quelli del Movimento Giovanile Palestinese e del movimento BDS, che hanno seguito meticolosamente le tracce, che si trattasse di Turchia, Spagna, Francia, Regno Unito, India o Colombia, per documentare le navi che trasportano carburante per i jet e forniture militari per Israele e per denunciarle davanti al mondo.

Inoltre, dobbiamo anche responsabilizzare i governi. Come nel caso della Spagna, per esempio, che ha detto una cosa ma in realtà fa tutt’altro, lasciando che i suoi porti siano ancora utilizzati. In altre parti del mondo, dobbiamo utilizzare la forza dei sindacati per bloccare del tutto i porti.

Il terzo punto è, ovviamente, quello legale. Crediamo che le istituzioni internazionali e il diritto internazionale siano qualcosa in cui tutti noi abbiamo perso la fiducia, perché si guarda a ciò che accade e si pensa: “Sicuramente la comunità internazionale non dovrebbe permettere tutto questo”. Il motivo è che paesi come la Francia, e molti paesi in Europa, stanno inventando le regole man mano. C’è il Presidente della Francia che dice che Netanyahu ha l’immunità o l’Ungheria e la Polonia che dicono che sfideranno i mandati della Corte Penale Internazionale.

Quindi, sia con il caso CIG del Sudafrica che con il Gruppo dell’Aia, c’è stato un vero e proprio tentativo, non di aggirare le istituzioni internazionali, ma di utilizzare veramente queste istituzioni che, a dire il vero, finora sono state storicamente utilizzate contro i paesi del Sud globale, per sovvertirle, al fine di chiedere conto a Israele e ai suoi sostenitori, gli Stati Uniti e le nazioni europee.

Come è nata la coalizione del Gruppo dell’Aia e per cosa sta spingendo?

Questo ci riporta alla tua domanda iniziale sul perché facciamo educazione politica e perché guardiamo alla storia. Quando ci siamo trovati di fronte a questo genocidio e alla sua continua approvazione da parte dell’Occidente, abbiamo guardato a come è stato fatto cadere il regime di apartheid sudafricano.

Ci sono stati esempi di azione collettiva, con forme diverse nel corso degli anni. Si inizia con qualcosa come il Manifesto di Lusaka del 1969, che si concentrava essenzialmente sui movimenti di liberazione africani, perché c’era una comprensione molto chiara dell’importanza che anche gli altri popoli colonizzati in tutto il continente si liberassero e conquistassero il potere statale, affinché il regime sudafricano cadesse e tutti potessero lottare contro di esso.

Poi tutto questo si sviluppa, ovviamente, si va nello spazio multilaterale e si ottiene l’embargo sulle armi dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che viene emessa contro il regime dell’apartheid. Questo poi si trasforma in qualcosa di ancora più grande, una richiesta di embargo globale, che poi si struttura nei paesi del Sud Globale che si riuniscono in una conferenza speciale contro l’apartheid in cui più nazioni adottano sanzioni commerciali contro il regime sudafricano.

L’aspetto interessante, se si guarda a questa storia, è che ciò che inizia essenzialmente come una richiesta di liberazione africana, cresce fino a diventare una richiesta multilaterale e riunisce paesi che emettono alcune delle sanzioni più forti contro il regime di apartheid. Poi diventa un livello molto più globale di misure di applicazione quando si sposta dallo spazio multilaterale a quello nazionale.

Quindi, quando abbiamo esaminato questo aspetto, è stato molto chiaro che sarebbe semplicemente insufficiente limitarsi all’architettura legale internazionale della CIG/CPI o all’architettura multilaterale esistente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite o del Consiglio di Sicurezza, dove ovviamente sappiamo che gli Stati Uniti continueranno a porre il veto su ogni singolo tentativo di responsabilizzare Israele e il suo sostegno a Israele. Ognuno di questi stati ha l’obbligo, secondo il diritto internazionale, di fermare l’occupazione di Israele, come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Questo ci riporta ad alcune delle tue prime domande sul lavoro della nostra campagna. Perché facciamo queste cose? Perché ci occupiamo dei porti e perché cerchiamo di collegare l’attivismo nei diversi porti? Primo, è una questione di azione collettiva. Solo attraverso l’azione collettiva possiamo alzarci in piedi come stati e dire: in realtà crediamo nel salvataggio del diritto internazionale. Non pensiamo che si possano inventare regole spazzatura e distruggere queste istituzioni o colpirle con sanzioni.

Anche perché l’azione collettiva è l’unico antidoto alle punizioni unilaterali. Abbiamo visto che quando il Sudafrica ha presentato il suo caso alla CIG contro Israele, immediatamente c’è stata una mozione introdotta dai Repubblicani della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti per mettere sotto esame tutte le relazioni commerciali bilaterali con il Sudafrica.

Questo accadeva un anno e mezzo fa. Ora, ovviamente, le cose si sono intensificate in modo massiccio e il Sudafrica è completamente sotto attacco da Trump, ma sto parlando di Biden quando parlo di ciò che è accaduto un anno e mezzo fa. Anche quando la Spagna ha annunciato un embargo, è stata improvvisamente colpita da un’indagine sul commercio estero che è ancora in corso e che potrebbe imporre qualcosa di vicino a, credo, 2,3 milioni di dollari per viaggio quando la Spagna blocca un’imbarcazione che si dirige verso Israele.

Quindi sappiamo che la logica della punizione è estremamente rapida, estremamente forte e permea davvero tutto questo spazio. L’unico antidoto a questo tipo di punizione da parte delle nazioni potenti è che noi agiamo collettivamente. Il Gruppo dell’Aia è attualmente composto da nove paesi, ma se ci sono molti più paesi che agiscono insieme, se gli Stati Uniti scelgono di punire ogni singolo paese finiranno per isolarsi.

L’altro problema è semplicemente pratico. Sappiamo che non c’è un’infrastruttura esistente, per quanto possa sembrare strano, perché tendiamo a pensare agli stati come onnipotenti nel loro controllo sulle giurisdizioni, ma in realtà non esiste un’infrastruttura per esaminare le rotte di spedizione attraverso i diversi continenti.

Attraverso conversazioni con il Ministero degli Esteri, abbiamo scoperto che è difficile per un’autorità portuale di un determinato paese avere informazioni complete su ciò che una nave ha a bordo quando arriva sul suo territorio e dove è diretta successivamente, due o tre tappe più avanti.

Riteniamo che queste informazioni siano necessarie per tagliare un’arteria alla nave. Ti faccio un esempio molto concreto. Una nave potrebbe essere vuota quando arriva nel mio porto, ma potrebbe raccogliere armi nel porto successivo, e allora dobbiamo sapere che sta per raccogliere armi nel porto successivo.

Questa è l’infrastruttura che stiamo cercando di creare. Questo è il protocollo di due diligence che stiamo cercando di standardizzare, in modo che l’idea del diritto internazionale non rimanga retorica e diventi una pratica a livello nazionale per tutti i governi di coscienza.

Ho letto una tua recente citazione su Middle East EyeHai detto: “Il Gruppo dell’Aia non è destinato ad essere solo un talk shop [chiacchierata informale] in cui gli stati dicono di sostenere la Palestina”. Ci puoi parlare di come portare avanti questa visione e di come espandere il Gruppo, di fronte a un’escalation della situazione in Medio Oriente? Come immagini il futuro del gruppo?

Ci svegliamo ogni mattina per capire se l’elenco dei paesi che pensavano di unirsi a noi inizialmente rimane lo stesso, o se qualcosa che Trump ha detto o fatto ha completamente buttato tutto questo fuori dalla finestra. Lo stesso tipo di calcolo va fatto per i membri fondatori. Sono di nuovo sotto attacco per un’altra ragione fasulla?

Tuttavia, posso affermare con sicurezza che abbiamo ricevuto un grande interesse da parte di paesi di diversi continenti per l’adesione al gruppo. L’aspetto unico è proprio quello che hai detto: non è un talk shop e il motivo per cui non è un talk shop è che, al momento della sua fondazione, ha assicurato che ci fossero misure iniziali che riguardavano la politica statale a livello nazionale.

Quindi questo diventa il requisito d’ingresso e il livello da superare per qualsiasi nuova nazione interessata a unirsi al gruppo. Dovrà fare un passo decisivo. Dovrà impegnarsi a rispettare i mandati della Corte Penale Internazionale, accettare di impedire l’attracco di navi nei suoi porti nel caso in cui contengano carburante per jet o forniture militari, e accettare di impedire qualsiasi esportazione di armi o trasferimento di armi dirette verso Israele per essere utilizzate contro il popolo palestinese.

Queste misure di ingresso possono rendere difficile la nostra rapida moltiplicazione, ma allo stesso tempo è ciò che rende il gruppo incredibilmente sostanziale e davvero utile nel lungo periodo. La nostra speranza è quella di rendere il mondo intero una sorta di mappa piena di zone vietate per Netanyahu. Renderlo responsabile e collegare ogni singolo porto attraverso i continenti, in modo che per alcuni cattivi attori sia sempre più difficile utilizzare le nostre terre e i nostri spazi aerei per inviare armi da utilizzare contro i Palestinesi.

https://mondoweiss.net/2025/03/collective-action-is-the-only-antidote-the-hague-group-and-the-global-movement-to-israel-to-account/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

Lascia un commento