Noi, gli occhi della Siria

Lug 12, 2021 | Riflessioni

di Aram Abu Saleh,

Al-Jumhuriya, 17 giugno 2021. 

Una scrittrice delle Alture del Golan siriane occupate da Israele racconta le storie dei molti siriani imprigionati da Israele, che ora sono politicamente “orfani” e trascurati dalla storia.

Questo testo si ispira alle testimonianze di molti siriani imprigionati dall’occupazione israeliana. Alcune sono mie esperienze dirette mentre altre le ho solo ascoltate o lette, ma le ho portate con me nel tempo. I nomi possono cambiare nel corso dei racconti, perché talvolta ho unito diverse testimonianze in un unico oratore. Anche se questo rischia di rendere un po’ confuso il testo, la maggior parte di noi non ricorda con perfetta chiarezza tutto quel che accadde; è forse un modo di superare la brutalità di quelle esperienze. Dimentichiamo i dettagli minuti. Negazione e soppressione della memoria sono tratti eminentemente umani. Quando si scrive di eventi ricordati in modo imperfetto, facciamo del nostro meglio per riempire i vuoti. Da uno scorcio lì a una sensazione là, ricostruiamo e ripristiniamo la narrazione completa. Tutta la storia è narrazione, e le narrazioni differiscono per il modo in cui quei vuoti sono colmati. Posso omettere certi particolari qui o lì, per dimenticanza o disattenzione, o per la prudente dissimulazione che ancora incatena me e tutti quelli di questo testo. Speriamo arrivi il giorno in cui le catene saranno tolte per sempre.

All’inizio ho cercato di documentare la memoria del movimento di resistenza dei detenuti siriani nelle prigioni dell’occupazione israeliana. Questa storia a lungo dimenticata è piena di senso, significato e valore simbolico. Eppure non vorrei ridurre queste esperienze a mero simbolismo. A 54 anni dal suo inizio questa narrazione è parte integrante di un racconto più ampio; quello di uomini e donne siriani, molti dei quali hanno perso la vita a causa della prigionia. Altri hanno perso l’udito o anni e decenni grazie a condanne a vita. Alcuni hanno perso le loro famiglie mentre erano bloccati in una cella e altri la capacità di dormire senza incubi. Poiché sono esseri umani, mossi dalla più grande perdita per noi siriani –quella della libertà– tenterò di onorare i loro sacrifici al fine di sfidare questa perdita. Non sarà mediante una documentazione intesa in senso giuridico, ma piuttosto una documentazione che consente al lettore, anche solo per pochi istanti, di vedere attraverso gli occhi di coloro che erano lì.

Dedico questo scritto a quegli uomini e quelle donne: a quelli che furono martirizzati; a quelli che furono liberati e a quelli che devono ancora venire.  

Arresto

Ricordo esattamente l’ora –3:02– perché guardai il mio telefono appena sentii quegli improvvisi, pesanti colpi alla porta. Ero solo e il mio cuore batteva forte. Pochi secondi dopo, dal rumore dei pesanti stivali militari, che sentivo correre su e giù per le scale, realizzai con terrore che i soldati erano arrivati.

Picchiarono alla porta. Quando non risposi, tentarono di sfondarla. Non so perché, ma cercavo di nascondermi da qualche parte nella stanza. Appena i soldati irruppero dalla porta, mi resi conto che nascondermi mi avrebbe spaventato più del confronto. Sono uscito e dopo una breve interazione nella quale li prendevo a parolacce in un ebraico fluente, mi portarono via. Non potevo resistere molto. Altri compagni effettivamente fecero il tentativo di resistere ai soldati durante il loro arresto. Almeno uno di loro è stato drogato dai soldati, per calmarlo mentre lo arrestavano. L’ho visto: gli hanno messo con forza sul naso un panno imbevuto di liquido e quando ha inalato ha perso completamente i sensi. È stato più un rapimento che un arresto.

Cercarono nella mia stanza, non trovando nulla a parte qualche libro, una bandiera palestinese, una bandiera della rivoluzione siriana e una poesia di Muin Bseiso appesa al muro. Non provavo paura mentre mi spingevano nella jeep militare; provai invece un improvviso sangfroid e un senso di calma misto a inaspettata derisione. Non mi importava dei loro insulti o dei legacci di plastica che legavano le mie mani così strettamente che iniziarono a sanguinare.

Dopo il mio arresto, sono stato picchiato duramente. La mia testa sbatté contro un muro e iniziai a sanguinare da un orecchio. Nessun primo soccorso fu fornito, né mi fu consentito di andare in bagno per pulirmi. Fui lasciato in quello stato per giorni, sino a che il sangue, coagulatosi nel mio orecchio, si bloccò. Poi, quando finalmente mi fu permesso di pulirlo adeguatamente, il sangue secco risultò dolorosissimo da rimuovere, come se una parte del mio cervello venisse fuori a ogni grumo. Ogni volta che mi si chiede del mio arresto, un fatto spunta sempre fuori: ho perso il settanta percento dell’udito all’orecchio sinistro.  

Equazioni della paura

La mia amica, che chiamerò “N”, figlia di un prigioniero liberato, è quella che mi preoccupa di più perché è profondamente colpita da ogni arresto. Ha visto arresti sin dalla più tenera età. La sua infanzia è stata ritmata dalle scarcerazioni, dalle visite in carcere e dalle incursioni dei militari dell’occupazione che inseguivano i suoi parenti. Questa infanzia ha prodotto in lei un profondo amore per la Siria e per la resistenza, così come una paura continua e incontrollabile della prigionia. Lei è un’incarnazione della paura radicata nel tempo. 

La sofferenza causata dalla prigionia non è mai limitata ai soli prigionieri; si estende alle loro famiglie, che pure sperimentano il senso della perdita. Quel che colpisce N ancor di più, ogni volta che c’è un arresto e/o una carcerazione, è che le famiglie dei prigionieri siriani devono affrontare da sole la carcerazione, l’assenza e la perdita, data la paura nel resto della comunità occupata così come la negligenza deliberata dello stato siriano. Tutti i prigionieri sono stati presi esattamente per rompere questa equazione della paura. Dal mio arresto, la mia sorellina ha paura dei soldati “ebrei”, come li chiama lei, più di qualsiasi altro bambino del Golan. Quanto a me, niente mi spaventa più della paura nei suoi occhi. Questa è una nuova incarnazione della paura. 

Interrogatorio

All’inizio venni messo in una stanza proprio accanto alle stanze degli interrogatori. Fui interrogato per quattordici ore di seguito il primo giorno, quindici il giorno seguente e non so nemmeno quante il terzo e il quarto giorno. Alcune persone hanno dovuto subire tutto questo senza sosta per mesi. Fui torturato con il cosiddetto metodo shabeh (“fantasma”), con un sacchetto putrido infilato sulla testa per molte ore. L’interrogatorio includeva anche la privazione del sonno, percosse, soffocamento, negazione dell’uso del bagno, privazione di cibo e delle visite familiari, privazione delle medicine e dei prodotti sanitari. Tutto questo in aggiunta alla tortura psicologica, che spesso era molto più difficile da sopportare di quella fisica. Questi non sono altro che alcuni esempi schematici per quelli che credono che le prigioni dell’occupazione siano umane o prive di torture.

Per quelli che vogliono particolari, dirò: il poliziotto in servizio che mi ricevette mi trascinò in uno stretto cortile, dove potei vedere il mio amico d’infanzia appeso come uno shabeh, le sue mani sospese in alto, il sacco sporco che gli copriva il viso. Non osai chiamarlo per nome, ma mi sentii al sicuro. Ero certo che non avesse confessato nulla.

[Questo brano è dedicato ai sacrifici del compagno liberato Ayman Abu Jabal ed è ispirato dalle sue memorie della prigione.]

Misero la mia testa dentro quel sacco, mi ammanettarono e sollevarono le mie mani nella stessa posizione in cui avevo visto il mio amico. Non dissi una parola quando mi lasciarono lì al sole. Lui non disse nulla, e nemmeno io. Rimasi lì per diverse ore, a guardarlo. Volevo che si avvicinasse un po’, sentirlo vicino, ma trattenni le mie emozioni. L’intorpidimento iniziò a farsi strada nelle mie mani innalzate e dopo ore nella posizione shabeh sotto il sole, mi rimisero in cella. Era notte. Cercai di godere la vista delle stelle nel cielo notturno per qualche secondo, prima che la prigione mi inghiottisse di nuovo.

Il giorno dopo, mentre tiravo fuori il secchio degli escrementi dalla mia cella, vidi alcuni dei miei compagni. Mi ero allenato per abituarmi alle urla, ai gemiti e al rumore delle percosse che provenivano dalle loro celle. Ma improvvisamente, dopo quel breve incontro, non potei più sopportare quei rumori. Per diversi giorni, non cambiò nulla, nessuno mi prestava attenzione, il guardiano mi portava il cibo senza una parola. Improvvisamente, cominciai a perdere la pazienza: Che cosa gli è successo? Perché non vengono? Si sono dimenticati che sono qui? Iniziai a sentire la mancanza dei rumori del dolore che mi avevano procurato una paura e un terrore così profondi. Ora era come se mi trovassi in un luogo abbandonato dai suoi abitanti.

Avevo pensieri ossessivi e frenetici: Perché non mi portano nella stanza degli interrogatori? Che mi facciano quello che vogliono, che mi picchino, che mi appendano per le mani, che portino quel sacco lercio e mi lascino sotto il sole rovente! Fate qualsiasi cosa, ma non lasciatemi qui consumato dalla solitudine! Avevo paura di quel sonno che avevo tanto anelato. Pensavo e ripensavo. Forse i miei compagni mi avevano tradito? Non li sento più gridare. Devono aver confessato! Li tradirò anch’io. Confesserò tutto. 

Silenzio

Quando vidi il mio compagno dopo lunghi di giorni di isolamento, mi domandò, “Finirà mai questo inferno?” Dissi, “Non lo so”.

Regnava un silenzio pesante. Mi perseguitava, proprio come fa ora mentre scrivo queste parole. Malgrado la brutalità, non dissi nulla. Questa straordinaria capacità di stare in silenzio è stato il motivo per cui sono sopravvissuto. Nel silenzio andavo in altri luoghi della mia mente. La mia mente si dissociava, trasportandomi completamente in un altro mondo.

In prigionia la non confessione è una virtù morale che si impara molto prima di intraprendere la resistenza. È un valore che molti non hanno conosciuto a causa della brutalità degli interrogatori e dei metodi di tortura usati contro di loro. Coloro che cedono non sono da biasimare, perché il silenzio è due volte più doloroso del parlare.

Dormivo malamente nelle celle degli interrogatori. Quando ne uscivo, le mie membra erano coperte di lividi blu a causa del freddo pungente. Puzzavo così tanto che quasi svenivo io stesso, e i miei vestiti erano consumati. Non ebbi nessun cambio di abiti durante tutto il tempo della mia prigionia. Non potevo nemmeno mangiare. I miei movimenti erano limitati dal tremendo dolore interno a causa della mancanza di cibo. Mi faceva male urinare, a causa delle dure percosse ai miei organi affamati e doloranti. Mangiavo la frutta che a volte arrivava con i pasti; una mela o un pezzo di prugna. Ogni volta che mangiavo una mela, sorridevo, pensando al proverbio del Golan su come in una mela ci fossero cinque semi, non sei, che formavano una stella a pentagramma come sulla nostra bandiera, non l’esagramma della loro. 

Il silenzio diventa il tuo compagno durante l’interrogatorio e la prigionia, e anche dopo. Questo mi è “costato” anni di compagnia e vicinanza con i prigionieri siriani, specialmente i veterani, che quasi mai si sentono parlare di sé. Possono discutere della situazione in corso; degli eventi legati alla prigione; degli accordi presi; ma non condividono mai informazioni sul loro ruolo nella resistenza, anche oggi, dopo decenni di attività, di prigionia e di rilasci dalla prigione. È quasi impossibile per loro condividere i loro sentimenti, le loro debolezze o i particolari delle torture che hanno subito. Il loro rifiuto di divulgare informazioni deriva, da un lato, dalla loro disciplina e dal loro impegno, così come da una continua e profonda fede nella causa. Ma il loro silenzio è anche un silenzio personale, attraverso il quale cercano di evitare l’assalto del dolore che i ricordi repressi potrebbero evocare. Quanto ai prigionieri più giovani, parlano un po’, ma solo raramente. In tutti i casi, il silenzio è il nostro compagno. Ma a volte il silenzio stesso è fatale, come una morte lenta.

[Al compagno Yusuf Abu Shakib, che mi insegnò l’importanza dell’amore quando si tratta della causa, e che davanti a me versò una lacrima che mai dimenticherò.]

In tribunale

In un altro tempo, prima dell’epoca del pragmatismo e dell’individualismo in cui viviamo oggi, quando i principi contavano ancora, un gran numero di prigionieri del Golan occupato furono processati in contumacia a causa del loro rifiuto di presentarsi davanti a un giudice israeliano. Alzarsi per rispetto al giudice all’inizio di una sessione di tribunale può sembrare un atto semplice e irreprensibile. Per i prigionieri, invece, significava il riconoscimento della legittimità dei tribunali israeliani. Erano incatenati, esausti e malconci dopo i loro tortuosi viaggi, e, invece di stare in piedi davanti al giudice, cantavano l’inno nazionale siriano in tribunale. Per questo motivo, sono stati processati in contumacia e anni sono stati aggiunti alle loro sentenze già incredibilmente lunghe. Vennero loro comminate le pene più severe. Gli fecero pagare l’aver difeso non solo l’identità siriana della loro terra ma anche il simbolismo morale della Siria.

Per quanto mi riguarda, mi alzai in piedi. 

Orfani uniti

Un compagno, cercando di convincere un gruppo di uomini giovani ed entusiastici che non avevano ancora patito la prigionia, dice, “Quanto si era soli!” Un veterano aggiunge, “È vero”.

Nel 2004, noi prigionieri siriani del Golan eravamo in carcere. La maggior parte di noi stava scontando lunghe condanne e le nostre conversazioni a quel tempo vertevano sull’accordo per lo scambio di prigionieri tra Hezbollah e Israele. Ci affollavamo tutti intorno alla radio ad ascoltare i nomi delle centinaia di prigionieri inclusi nell’accordo. Era una scena dolorosa, con compagni che festeggiavano la notizia della loro liberazione vicini ad altri il cui nome non veniva menzionato. Un nome dopo l’altro, partendo da quelli con le condanne più lunghe, sino a che l’elenco finiva. Il leader degli Hezbollah, “Sua eminenza” Hassan Nasrallah, non nominò un solo prigioniero siriano del Golan occupato. Un pesante minuto di silenzio trascorse, rotto dalla voce di Nasrallah, che disse qualcosa come, “Per quanto riguarda i prigionieri del Golan siriano occupato, non li abbiamo inclusi nell’accordo poiché hanno accettato la nazionalità israeliana. Quindi, diciamo, ‘Faccia Israele ciò che vuole con i suoi cittadini!’”

Per chi non ne ha dimestichezza, la storia del Golan siriano occupato può essere sintetizzata molto semplicemente come segue: occupazione e dominio militare; insurrezione popolare; assedio; fame; oppressione e martirio; tutto per il nostro continuo rifiuto della cittadinanza israeliana. Questa è l’essenza di tutta la nostra lotta nel Golan. Davvero Nasrallah, il cosiddetto “Leader della Resistenza”, non lo sapeva?

Lo stereotipo riappare: “Quanto eravamo soli!” Ora tra me penso: quanto soli eravamo per davvero? Soli come tutti gli altri siriani? Condividevamo con gli altri siriani più di quanto avessi immaginato all’inizio. Anche se avevamo poco in comune, quel che avevamo era determinante, e più di quanto nessuno di noi avesse pensato. Ancora oggi, il nostro destino comune è una perdita di libertà e un senso di unità; l’unità degli orfani, orfani del corpo politico.

Dopo l’accordo, i prigionieri palestinesi spesso ci dicevano, “Noi non abbiamo nemmeno uno stato, eppure le fazioni militari negoziano per noi e cercano di farci rilasciare. Voi avete uno stato che detiene spoglie di soldati israeliani! Dovreste essere più forti di noi e godere di un vero sostegno, non il contrario”. Solitamente, dopo tali scambi, il silenzio prevale, almeno per me. Ricordate il silenzio di cui ho parlato? Questo è il nostro terzo comune denominatore.

Nelle celle del nemico, durante le visite familiari, sento dei massacri dei rivoluzionari civili commessi dal regime di Assad. Decido di fare lo sciopero della fame, sperando che la mia solidarietà possa rompere i muri di cemento della prigione di Gilboa; rompere la linea del cessate il fuoco e i suoi fili spinati e raggiungere Daraa, se non oltre. In mia assenza, nella cella nella quale sono sequestrato, il regime di Assad ha cancellato anche me. Al mio rilascio, solo pochi sono venuti. Il mio nome è stato rimosso da tutti i media siriani e dai registri del governo. Un’intervista a mia sorella alla TV siriana venne tagliata quando mi nominò. Più tardi, ho visto il mio nome nelle liste pubblicate da Zaman al-Wasl tra quelli ricercati dalla sicurezza del regime siriano. Sono qui, nelle segrete del nemico, a pagare con anni della mia vita: assente dal Golan stesso, mentre il Golan è assente dalla Siria. Al contempo la Siria, lontana sia da me sia dal Golan, cerca di rendere assente anche me.

Feci lo sciopero della fame per tre giorni. Alcuni prigionieri mi espressero la loro solidarietà. Pochi capiscono il forte legame che esiste tra le due cause. La gente ha dimenticato che esiste un ponte tra la Palestina e la Siria, costruito dai corpi dei martiri e dei prigionieri del Golan. L’amministrazione carceraria mi punì duramente per impedirmi di riprendere lo sciopero. Non mi fu consentito ricevere visite per un mese e mi fecero pagare una multa. Fui anche trasferito in isolamento per 72 ore e mi fu impedito di ricevere o inviare messaggi.

[Al nostro compagno, il prigioniero liberato Wiam Amasha.]

“Come eravamo soli”, e lo siamo ancora. Se ci opponiamo al regime di Assad, siamo ignorati negli accordi di scambio prigionieri e nell’opinione pubblica in generale. Se sosteniamo il regime, siamo sfruttati nella propaganda del cosiddetto Asse della Resistenza. In entrambi i casi, siamo usati per paragonare le prigioni dell’occupazione con quelle del regime e quelli a cui piace tale confronto ci dicono di “ringraziare Dio, che siamo siriani benedetti dall’essere sotto occupazione”. Da soli resistiamo; da soli siamo dimenticati; e da soli resistiamo dall’essere dimenticati.

Nessuno ci vede come persone a causa dell’ideologia e degli interessi. 

Il libro

Chiesi al carceriere un libro. Disse, “Abbiamo solo un libro” e mi portò il Corano. Chiesi un libro alla mia famiglia e mi portarono le memorie di Yassin al-Haj Saleh sul suo periodo nelle prigioni di Hafez al-Assad. Chiesi al carceriere il mio libro, ma si rifiutò, dicendo che i libri “terroristici” erano proibiti. Dissi alla mia famiglia di togliere la copertina e sostituirla con quella di un libro religioso. Misero una copertina del Corano e alla fine potei leggere al-Haj Saleh in prigione.

Durante un precedente periodo in prigione, avevo chiesto un libro al carceriere e avevo ricevuto la stessa risposta: “Abbiamo solo un libro. Vuoi il Corano?” Dissi di sì e cominciai a recitare i capitoli (sura) in ordine: al-Fatiha, al-Baqara… e basta. Al-Baqarah è così lungo! Mi sono arrabbiato e non l’ho finito. Ho ignorato l’ordine dei capitoli e sono andato a cercare dei bei versetti qua e là nel Libro Sacro. Così posso dire che la lettura di due sole sura è stata sufficiente per liberarmi.

In una terza occasione, ho contrabbandato la mia prima raccolta di poesie usando le cosiddette “capsule”. E in un altro libro di poesia, feci portare via di nascosto una poesia dedicata ai siriani nelle prigioni di Assad:

Qui, e anche là, il poliziotto sarebbe

Fragile come erba secca, se

Non si appoggia al fucile

A guardia delle sue dune di paura

Contro il ritmo della rivelazione

In una canzone.

Se ci si scambia qualche insulto,

L’intento è chiaro:

Niente altro che conformarsi a false maschere.

Questi due sono gemelli

Di un unico cordone ombelicale. 

La loro ombra sul terreno

È un massacro che ne spazza via un altro.

[All’amico caro più di ogni altra cosa, il compagno liberato Yasser Khanjar. La poesia, intitolata “Tra due celle”, è sua, scritta nella sua cella in una prigione israeliana per i siriani incarcerati dal regime di Assad.]  

Più recentemente sono riuscito a far uscire di nascosto un articolo politico che è stato pubblicato. Come risultato, sono stato messo in isolamento per molti lunghi giorni nel carcere del deserto del Negev.

[Al prigioniero liberato Sidqi al-Maqt, nonostante tutto.]

*

È difficile scrivere questo pezzo senza fermarsi. Potrebbe anche essere un errore. Il mio cuore batte veloce mentre mi immergo nella scrittura. Vedo quella che sembra una bobina di ricordi: immagini sfocate in bianco e nero, e talvolta seppia, come filmati del racconto. Immergersi nelle profondità della negazione e dei ricordi dimenticati, cercando di estrarre una verità scritta in stile letterario, è una prospettiva tremenda. Le profondità dei ricordi, e quel che essi significano, quasi mi soffocano. I mari di questa storia di dolore sono estesi e mai renderò loro giustizia. In definitiva, questo testo narra solo una parte della storia, che fa parte della mia propria storia; di tutte le nostre storie. È un tentativo di integrare il personale nel collettivo, perché non posso realizzarli entrambi separatamente: non posso scrivere di me stesso come distinto da loro. Temo che non farei giustizia a nessuna delle due parti. E vedere che sia fatta giustizia è l’obiettivo, qui come là.

Aram Abu-Saleh è una scrittrice del villaggio di Majdal Shams nelle Alture del Golan siriane.

https://www.aljumhuriya.net/en/content/we-eyes-syria#footnoteref5_wesgoox

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina

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1 commento

  1. Carmela

    Grazie, e grazie alla traduttrice

    Rispondi

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