Se Biden vuole la pace tra Israele e Palestina deve rompere con il passato

Gen 16, 2021 | Riflessioni

diAvi Shlaim,

Foreign Policy, 22 dicembre 2020. 

La nuova amministrazione non dovrebbe soltanto annullare l’eredità tossica di Trump e tornare all’infinito processo di pace di Oslo, ma dovrebbe fare pressione su Israele affinché accetti l’Iniziativa di Pace dei Paesi Arabi.

Un Israeliano indossa un cappello di sostegno al presidente statunitense Donald Trump mentre sostiene la bandiera israeliana nell’insediamento di Givat Hamatos il 16 novembre 2020 vicino a Gerusalemme.

Nel 1967, il ministro della Difesa israeliano Moshe Dayan impersonò il trionfalismo israeliano dopo la guerra dei sei giorni quando disse a Nahum Goldmann, veterano leader sionista statunitense: “I nostri amici americani ci offrono denaro, armi e consigli. Prendiamo i soldi, prendiamo le armi e rifiutiamo i consigli.” La dichiarazione rifletteva la convinzione ampiamente diffusa che Israele potesse dare per scontato il sostegno degli Stati Uniti.

“Cosa succederebbe se gli Stati Uniti dicessero: potete avere l’aiuto solo se accettate anche il consiglio?” chiese Goldmann. Dayan, rassegnato, rispose: “A quel punto, dovremmo accettare anche i consigli.”

Ecco, in poche parole, il difetto fondamentale dell’approccio statunitense alla pacificazione in Medio Oriente, fin dal 1967: la natura incondizionata del suo sostegno economico, militare e diplomatico a Israele. Gli Stati Uniti si sono presentati come un onesto mediatore, ma in pratica hanno agito come avvocato di Israele. Questo ha reso la politica statunitense per risolvere il conflitto israelo-palestinese incoerente, contraddittoria e controproducente.

Dal 1967, Washington si è arrogato il monopolio della diplomazia che circonda il conflitto israelo-palestinese, marginalizzando le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Lega Araba e il Cremlino. Alla fine, tuttavia, ha fallito poiché non è stato in grado o non ha voluto usare la sua enorme leva per spingere Israele ad un accordo sull’assetto definitivo. Israele è il cliente più difficile degli Stati Uniti perché non si tratta solo di una questione di politica estera, ma anche di politica interna.

Il Presidente eletto Joe Biden è stato un forte sostenitore di Israele per tutta la sua lunga carriera politica. Ha un consistente record di voti filo-israeliani in Senato. Israele è “il miglior investimento da 3 miliardi di dollari che facciamo”, dichiarò al Senato nel 1986. “Se Israele non esistesse”, aggiunse, “gli Stati Uniti d’America dovrebbero inventarlo per proteggere i nostri interessi nella regione”. Non solo Biden è un ardente sionista, ma pensa anche che imporre condizioni per gli aiuti militari a Israele sia un “errore gigantesco” e “assolutamente scandaloso”.

Durante i suoi otto anni da vicepresidente degli Stati Uniti, Biden ha fatto molto per lustrare ulteriormente le sue già brillanti credenziali sioniste. Lo stesso presidente Barack Obama considerava gli insediamenti israeliani sul territorio palestinese occupato come una violazione del diritto internazionale ed un ostacolo alla pace. Ha cercato infatti di bloccare la costruzione di insediamenti per dare una possibilità alla diplomazia. Tutti i suoi sforzi però, come quelli dell’allora Segretario di Stato John Kerry, furono sabotati da Benjamin Netanyahu, Primo Ministro di destra israeliano.

Nonostante la sua incredibile storia di sostegno a Israele e il suo orgoglio per l’amicizia personale con Netanyahu, Biden non è stato risparmiato dalla procedura operativa standard di Israele di mordere la mano che lo nutre.

Nel 2010, appena Biden arrivò in Israele, fu accolto con l’annuncio che il governo aveva approvato un nuovo lotto di insediamenti illegali in Cisgiordania. Biden sopportò mansuetamente l’insulto intenzionale, confermando così negli Israeliani la convinzione di poter continuare a ripagare la generosità degli Stati Uniti con ingratitudine e disprezzo.

Nel suo ultimo anno in carica, l’amministrazione Obama ha concesso a Israele un pacchetto di aiuti militari per un valore di almeno 38 miliardi di dollari in 10 anni. Questo è stato il più grande pacchetto di aiuti militari della storia. In linea con i precetti di Biden, non furono poste condizioni per l’aiuto.

Su una questione, tuttavia, verso la fine della sua amministrazione, Obama non ha tenuto conto del suo vicepresidente: ha permesso che fosse approvata una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condanna ferocemente l’espansione degli insediamenti israeliani. La risoluzione era in linea con la politica estera degli Stati Uniti. Biden voleva esercitare il veto degli Stati Uniti per bloccare la risoluzione. Obama scelse di astenersi e, con 14 voti a favore, fu adottata la storica Risoluzione 2334.

Quando Biden entrerà alla Casa Bianca il 20 gennaio, Israele e Palestina saranno molto in fondo alla sua lista delle priorità. Ad un certo punto, tuttavia, la questione dovrà essere affrontata, se non altro per la sua centralità nella politica mediorientale. Il suo primo compito sarà quello di affrontare l’eredità tossica di Donald Trump, il presidente più fanaticamente filo-israeliano nella storia degli Stati Uniti. Verso il Medio Oriente nel suo insieme, Trump non ha avuto una politica estera coerente, ma ha fatto solo una serie di mosse impulsive e sconsiderate, molte delle quali violavano il diritto internazionale.

Sul conflitto israelo-palestinese, però, Trump è stato del tutto coerente nella sua parzialità verso Israele. La sua politica estera era praticamente indistinguibile dall’agenda della destra israeliana: ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle alture del Golan siriano occupato, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, ha abolito il Consolato Generale degli Stati Uniti a Gerusalemme, principale canale di comunicazione degli Stati Uniti con l’Autorità Palestinese, ha tagliato i finanziamenti americani all’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha ritirato l’aiuto fondamentale degli Stati Uniti ai Palestinesi e ha chiuso l’ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a Washington.

La faziosità di Trump è culminata in un piano per il futuro di Israele e dei territori occupati, un piano annunciato come “l’accordo del secolo”. In sostanza non si trattava affatto di un piano di pace, ma di un lasciapassare per l’espansione di Israele a spese dei Palestinesi. Ha di fatto invitato Israele ad annettere formalmente circa il 30 per cento della Cisgiordania, compresi i blocchi di insediamenti illegali e la Valle del Giordano, il ‘cestino del pane’ della popolazione palestinese.

Come era prevedibile, l’Autorità Palestinese ha respinto il piano e si è rifiutata anche solo di discuterlo. Netanyahu ha accolto con favore il piano, ma non ha fatto niente per attuarlo, poiché non ha visto alcun vantaggio nell’annessione formale di parti della Cisgiordania. È soddisfatto dello status quo, che dà a Israele via libera per continuare la sua subdola annessione senza innescare sanzioni internazionali.

Si può tranquillamente prevedere che Biden si impegnerà solo a limitare i danni, piuttosto che fare un’inversione di marcia rispetto al lascito avvelenato di Trump. Il presidente eletto ha promesso passi immediati per ripristinare gli aiuti economici e umanitari disperatamente necessari ai Palestinesi. Si è impegnato a riaprire il Consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est, ma si è impegnato anche a non riportare l’ambasciata americana a Tel Aviv. Egli è contrario all’espansione degli insediamenti e all’annessione formale israeliana di qualsiasi parte della Cisgiordania, ma rifiuta ancora di legare gli aiuti degli Stati Uniti al monitoraggio della situazione dei diritti umani in Israele o al rispetto del diritto internazionale. È inoltre fermamente in linea con la politica pre-Trump di favorire una soluzione a due Stati al conflitto israelo-palestinese.

In breve, Biden probabilmente tornerà alla tradizionale linea del Partito Democratico di proporre gli Stati Uniti come un presunto mediatore onesto per aiutare le due parti a raggiungere un accordo negoziato. In termini pratici, ciò significa rilanciare quello che una volta veniva chiamato “processo di pace,” fino a quando Netanyahu non lo fece deragliare nel 2014, quando cessò di servire ai suoi scopi.

Ma il processo di pace è sempre stato un processo farsa: tutto processo e niente pace. Non ha portato i Palestinesi più vicini a raggiungere il loro obiettivo di indipendenza e di creazione di uno Stato nei 27 anni trascorsi da quando il primo accordo di Oslo è stato firmato sul prato della Casa Bianca e si è concluso con l’esitante stretta di mano tra l’allora Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e l’allora leader dell’OLP Yasser Arafat. Ciò che il processo di pace ha fatto è stato dare a Israele la copertura necessaria per continuare a perseguire un aggressivo progetto coloniale oltre la linea verde, il confine internazionale pre-1967.

Se Biden vuole una vera pace duratura, deve innanzitutto riconoscere che l’impegno incondizionato degli Stati Uniti nei confronti di Israele, a cui è stato così strettamente associato, non è riuscito a raggiungere il suo obiettivo dichiarato di una soluzione a due Stati.

Oggi è diventato di moda dire che la soluzione a due Stati è morta. Le dimensioni degli insediamenti in Cisgiordania, che ospitano più di 650.000 Ebrei, escludono la possibilità di uno stato palestinese sostenibile e territorialmente contiguo. Di conseguenza, vi è un crescente sostegno da parte palestinese, anche se non da parte dell’Autorità Palestinese, all’idea di uno stato democratico tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, con pari diritti per tutti i suoi cittadini.

Biden non adotterebbe mai un’idea così radicale. Se aderisce alla vecchia idea di due Stati, dovrebbe almeno prendere in considerazione i cambiamenti che si sono verificati in Israele e nella regione negli ultimi due o tre decenni. Israele si è spostato costantemente a destra, con manifestazioni allarmanti di sciovinismo e razzismo e un’enfasi sempre più stridente sull’aspetto ebraico piuttosto che sull’aspetto democratico della sua identità. La legge dello Stato-nazione del luglio 2018 rende Israele uno stato di apartheid, giacché afferma che gli Ebrei hanno un diritto “esclusivo” all’autodeterminazione nazionale nel territorio sotto il proprio dominio.

Oltre a riconoscere le tendenze illiberali e antidemocratiche della politica israeliana, Biden dovrebbe sviluppare un vero e proprio dialogo strategico con i Palestinesi, dissociandosi dalle politiche del suo predecessore, riconoscendo che i Palestinesi hanno diritti nazionali legittimi e che hanno uno schiacciante sostegno popolare in tutto il mondo arabo e musulmano.

Occorre inoltre tener conto delle variazioni dell’equilibrio di potere nella regione. Il cambiamento principale è che gli Stati del Golfo Persico non vedono più Israele come un nemico e una minaccia, ma come un alleato strategico nel loro conflitto con l’Iran. Un cambiamento collegato è il marcato declino dell’impegno degli Stati del Golfo verso la causa di uno Stato palestinese indipendente. Nella seconda metà del 2020, quattro stati arabi hanno normalizzato le loro relazioni con Israele nel quadro degli ‘Accordi di Abramo’: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.

Per Israele, un accordo di pace con qualsiasi stato arabo è il benvenuto, soprattutto se non ha costi, come gli ultimi quattro. Ma il bottino maggiore è l’Arabia Saudita. A differenza degli Stati più piccoli del Golfo, l’Arabia Saudita ha molto da perdere se tradisce apertamente i Palestinesi. Rischia un contraccolpo al suo interno e in alcune parti del mondo islamico. Finora il regno ha resistito alle pressioni degli Stati Uniti affinché annunciasse ufficialmente la sua segreta cooperazione in materia di intelligence e di sicurezza con Israele.

L’Arabia Saudita mantiene il suo impegno nei confronti dei Palestinesi e dell’Iniziativa di pace araba del 2002, che ha offerto a Israele la pace e la normalizzazione con tutti i 22 membri della Lega Araba come contropartita per il ritiro da tutte le terre arabe occupate e per l’accettazione di uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme Est. Chiede inoltre una soluzione “giusta” del problema dei rifugiati palestinesi sulla base della risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Questo era il vero affare del secolo. L’Autorità Palestinese sotto Arafat abbracciò immediatamente l’iniziativa; il governo israeliano sotto il primo ministro Ariel Sharon respinse l’iniziativa come un “non-starter” [una cosa che non porta da nessuna parte]. La Lega Araba ha confermato l’Iniziativa di pace araba nelle sue conferenze al vertice del 2007 e del 2017. Ma nel 2018, Netanyahu l’ha respinta come base per futuri negoziati con i Palestinesi, e nessun governo americano ha mai fatto pressioni su Israele perché la accettasse.

Se Biden vuole avere un impatto reale, la sua migliore scommessa è quella di rilanciare l’Iniziativa di Pace Araba e usarla come base per negoziati israelo-palestinesi guidati dagli Stati Uniti. Questo penalizzerebbe l’intransigenza israeliana. D’altra parte, incoraggerebbe e permetterebbe all’Arabia Saudita di saltare sul treno della pace. Una guida statunitense audace godrebbe di un ampio sostegno internazionale, compreso il mondo arabo, il mondo islamico, l’Unione Europea e la maggior parte dei membri delle Nazioni Unite.

Infine, ma non meno importante, godrebbe del sostegno dell’ala progressista del Partito Democratico e della maggioranza degli Ebrei americani. I giovani Ebrei americani in particolare sono disincantati da Israele per il suo colonialismo, la violazione sistematica dei diritti umani palestinesi e le continue violazioni del diritto internazionale. Solo una minoranza degli Ebrei americani sottoscrive ancora la politica tradizionale, rappresentata dall’AIPAC (Comitato Americano per gli Affari Pubblici Israeliani) che sostiene ciecamente Israele.

Se Biden scegliesse di prendere le vesti di pacificatore, dovrebbe prima liberare la politica estera degli Stati Uniti dalla mano morta del governo israeliano e dei suoi accoliti negli Stati Uniti e dovrebbe avere il coraggio politico di seguire il suggerimento di Goldmann: condizionare l’aiuto degli Stati Uniti all’accettazione dei consigli degli Stati Uniti. Come qualunque uomo politico, il presidente eletto è libero di ripetere gli errori del passato. Ma non è obbligato a farlo.

Avi Shlaim è professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World.

Traduzione di Giulia Dimonopoli – AssopacePalestina

1 commento

  1. sebastiano comis

    Avi Shlaim ha ragione per quanto riguarda la politica degli USA rispetto alla questione palestinese, ma pecca di ingenuità quando chiede a Biden di rilanciare la proposta di pace araba del 2002. Da allora il numero dei coloni in Cisgiordania è passato da 200.000 a oltre 400.000, così come è aumentata considerevolmente la presenza israeliana a Gerusalemme Est. Tanto basta per capire che far rientrare quei coloni (ad esempio Fiamma Nirenstein…) nei confini del 1967 sarebbe praticamente impossibile: come rimettere nella bottiglia il vino versato sul pavimento. E se anche la proposta venisse – per assurdo – accettata, si aprirebbero altri 20 anni di negoziati sui tempi, sulle modalità, sulle condizioni poste al nuovo stato etc. Penso invece, come ho già detto altre volte, che a israele vada offerta l’alternativa tra il ritiro dei coloni e il riconoscimento ai palestinesi della cittadinanza israeliana, con gli stessi diritti dei cittadini ebrei. Al ritiro dei coloni Israele potrebbe opporre forti ragioni pratiche e di politica interna. Alla estensione della cittadinanza solo motivazioni razziali. Almeno avremo ottenuto di chiarire una volta per tutte la vera natura dello stato ebraico.

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