di Rashid Khalidi,
The New Left Review, maggio/giugno 2024.
Un prezioso excursus sulla storia moderna della Palestina da parte di un competentissimo autore accademico.
Intervistato da Tariq Ali
Cominciamo dal presente, non solo nel senso degli orrori che vengono inflitti alla Palestina in questo momento, ma il presente come parte del passato ancora attivo della Palestina. La brutale repressione anglo-sionista della grande rivolta araba del 1936-39 è stata seguita dalla Nakba del 1948, dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, dall’assedio di Beirut del 1982, guidato da Ariel Sharon, dai massacri di Sabra e Shatila, dalle due Intifada, dalla continua pioggia di terrore da parte di Israele da allora in poi. Eppure il genocidio che ha fatto seguito al 7 ottobre sembra aver avuto un impatto globale maggiore di tutti questi.
Sì, qualcosa è cambiato a livello globale. Non so perché questi episodi storici non abbiano avuto l’effetto di cambiare completamente la narrazione – la narrazione popolare, in particolare. Non voglio fare speculazioni su cose come i social media. Ma questo è stato il primo genocidio a cui una generazione ha assistito in tempo reale, sui propri dispositivi. È stato il primo in tempi recenti in cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e le potenze occidentali hanno partecipato direttamente, a differenza di altri, in Sudan o in Myanmar? Il lavoro dei sostenitori pro-palestinesi per una generazione o più ha preparato la gente a questo? Non lo so. Ma tu hai ragione nel dire che, a seguito degli orrori che sono stati inflitti a Gaza per otto mesi ininterrotti [NB: questa intervista è del maggio 2024], e che vengono inflitti ancora adesso, è successo qualcosa di nuovo. Lo sfollamento di tre quarti di milione di persone nel 1948 non ha prodotto lo stesso impatto. La rivolta araba del 1936-39 è quasi completamente dimenticata. Nessuno di quegli eventi precedenti ha avuto un effetto simile.
La Rivolta Araba mi ha sempre affascinato come uno dei principali episodi di lotta anticoloniale, che ha ricevuto molta meno attenzione di quanto meritasse. Iniziò come uno sciopero, divenne una serie di scioperi, poi si sviluppò in un’enorme rivolta nazionale che tenne bloccate le forze britanniche per oltre tre anni. Potresti spiegarci le sue origini, il suo sviluppo e le sue conseguenze?
La Rivolta Araba è stata essenzialmente una rivolta popolare, su scala massiccia. La leadership tradizionale palestinese fu colta di sorpresa, proprio come Arafat e la leadership dell’OLP furono sorpresi dalla Prima Intifada nel 1987. Entrambe le rivolte furono innescate da incidenti minori; nel caso della Rivolta Araba, si trattò della morte in battaglia dello Shaikh ‘Iz al-Din al-Qassam nel novembre 1935, ucciso dalle forze britanniche. Nato nel 1882 a Jableh, sulla costa siriana, al-Qassam era uno studioso di religione, formatosi ad Al-Azhar, e un militante anti-imperialista, che combatté contro tutte le potenze occidentali nella regione, a partire dagli italiani in Libia nel 1911, poi le forze del Mandato Francese in Siria nel 1919-20. Finì nella Palestina del Mandato Britannico, dove visse e lavorò soprattutto tra i contadini e i poveri delle città. L’uccisione di Al-Qassam ebbe una risonanza enorme, tanto che in pochi mesi contribuì a far esplodere il più lungo sciopero generale della storia coloniale tra le due guerre. Il miglior resoconto è quello di Ghassan Kanafani, il grande scrittore palestinese assassinato dagli israeliani nel 1972; doveva essere il primo capitolo della sua storia della lotta palestinese, incompiuta alla sua morte1.
L’analisi di Kanafani è tuttora valida. Tra le altre cose, egli sottolineò l’impatto economico sulle classi popolari dell’aumento dell’immigrazione ebraica in Palestina negli anni ’30, dopo l’ascesa al potere di Hitler; il licenziamento dei lavoratori arabi dalle fabbriche e dai cantieri, in linea con la politica di Ben-Gurion della “manodopera soltanto ebraica”; lo sfratto di 20.000 famiglie contadine dai loro campi e frutteti, venduti ai coloni sionisti da proprietari terrieri assenteisti; l’aumento della povertà. Queste rivolte popolari scoppiano quando le persone raggiungono un punto in cui non possono più andare avanti come prima, e in questo caso la rabbia sociale si combina con potenti sentimenti nazionali e religiosi. I palestinesi si sollevarono contro l’intera potenza dell’Impero britannico che, in un secolo e mezzo, non era stato costretto a concedere l’indipendenza a una sola colonia, con la sola eccezione dell’Irlanda nel 1921. La Rivolta Araba fu stroncata da quello che era ancora l’impero più potente del mondo, ma i palestinesi combatterono per oltre tre anni, con forse un sesto della popolazione maschile adulta uccisa, ferita, in prigione o in esilio. Negli annali del periodo tra le due guerre, questo fu un tentativo senza precedenti di rovesciare il dominio coloniale. Fu represso solo dal dispiegamento di 100.000 truppe e dalla RAF (Royal Air Force). Questa è una pagina dimenticata della storia palestinese.
Questa sconfitta non ha forse portato anche a una demoralizzazione delle masse palestinesi, tanto che quando la Nakba vera e propria iniziò nel 1947, esse non si erano ancora riprese dal terrore del 1936-39?
La sconfitta della Rivolta Araba creò una pesante eredità che ha colpito il popolo palestinese per decenni. Come ha scritto Kanafani, la Nakba, “il secondo capitolo della sconfitta palestinese” – dalla fine del 1947 alla metà del 1948 – fu incredibilmente breve, perché era solo la conclusione di questo lungo e sanguinoso capitolo che era durato dall’aprile del 1936 al settembre del 19392. Ciò che fecero i britannici fu poi copiato in quasi tutti i dettagli dai leader sionisti, da Ben-Gurion in poi. Anche solo per questo motivo, vale la pena ricordare il costo per la società palestinese. Almeno 2.000 case furono fatte saltare in aria, i raccolti distrutti, oltre un centinaio di ribelli giustiziati per possesso di armi da fuoco. Tutto questo è stato accompagnato da coprifuochi, detenzioni senza processo, esilio interno, torture, pratiche come legare gli abitanti dei villaggi alla parte anteriore delle macchine a vapore, come scudo contro gli attacchi dei combattenti per la libertà. Su una popolazione araba di circa un milione di persone, 5.000 furono uccise, oltre 10.000 ferite e più di 5.000 prigionieri politici furono lasciati a marcire nelle carceri coloniali.
Nel processo di repressione della Rivolta Araba, i britannici fornirono alle forze sioniste che lavoravano con loro un prezioso addestramento alla contro-insurrezione.
Sì. Ai sionisti è stata insegnata ogni tecnica coloniale subdola da esperti di contro-insurrezione come Orde Wingate e altri specialisti in torture e omicidi. Gli inglesi importarono veterani dall’India, come Charles Tegart, il famigerato capo della polizia di Calcutta, oggetto di sei tentativi di assassinio da parte dei nazionalisti indiani. Gli stessi forti militari e campi di prigionia costruiti da Tegart sono ancora oggi utilizzati da Israele. Portarono persone dall’Irlanda e da altri luoghi dell’Impero, come il Sudan, dove Wingate aveva iniziato e dove il cugino di suo padre, Reginald Wingate, era stato governatore generale e prima ancora ufficiale dei servizi segreti.
Orde Wingate, un nome dimenticato da tempo. Dubito che molti lettori abbiano mai sentito parlare di questa figura demenziale, di cui Montgomery ha detto che la cosa migliore che abbia mai fatto è stato l’incidente aereo che lo ha ucciso in Birmania nel 1944. Chi era e aveva qualche legame particolare con le forze sioniste? Ricordo vagamente una serie televisiva della BBC su di lui nel 1976, in cui veniva dipinto come un eroe.
Fu un assassino coloniale a sangue freddo, che finì per diventare un Generale Maggiore, detestato da molti della sua stessa parte, come suggerisce il commento di Montgomery, il quale descrisse Wingate come “mentalmente squilibrato”. Churchill, che non era certo uno sprovveduto quando si trattava di infliggere sofferenze alle popolazioni soggette, definì Wingate “troppo pazzo per il comando”. Era nato nell’India britannica in una pia famiglia di Plymouth Brethren. Fondamentalista cristiano che prendeva alla lettera la Bibbia, promosse la versione del Vecchio Testamento della redenzione ebraica. Arrivò in Palestina come capitano dell’intelligence militare, proprio mentre iniziava la rivolta del 1936. Conosceva l’arabo, imparò l’ebraico e divenne una figura chiave nell’addestramento dei combattenti dell’Haganah come “Squadre speciali notturne” – in altre parole, squadroni della morte – per colpire e uccidere gli abitanti dei villaggi palestinesi sulle montagne, come fanno oggi l’esercito e i coloni israeliani. La sua notorietà era tale che allo scoppio della guerra europea nel 1939, i notabili arabi chiesero che Wingate fosse espulso dalla regione. Così fu. Il suo passaporto fu timbrato, vietando il suo ritorno. Il suo lavoro era finito. Aveva addestrato molti degli uomini che divennero comandanti del Palmach e successivamente dell’esercito israeliano, come Moshe Dayan e Yigal Allon. Diversi siti in Israele portano il suo nome ed è giustamente considerato il fondatore della dottrina militare israeliana.
Ha insegnato loro molto bene.
Sì. Quella che era una specialità coloniale britannica è diventata una specialità coloniale israeliana. Tutto ciò che gli israeliani hanno fatto l’hanno imparato dai britannici, comprese le leggi, ad esempio le Defence Emergency Regulations del 1945, che i britannici usarono contro l’Irgun. Le stesse leggi sono ancora in vigore e ora vengono usate contro i palestinesi. Tutto proviene dal manuale coloniale britannico.
Una vittoria, o anche un pareggio, per la Rivolta Araba avrebbe posto le basi di un’identità nazionale palestinese e rafforzato le forze per le battaglie future. Come Kanafani, tu hai sostenuto che i tentennamenti della leadership palestinese tradizionale hanno giocato un ruolo chiave nella sconfitta, inchinandosi come fecero – alla Conferenza di San Giacomo, per esempio – ai re arabi collaborazionisti, che erano stati messi sui loro troni dagli inglesi.
Allora come oggi, la leadership palestinese era divisa. Erano ostacolati dalla loro stessa incapacità di trovare un accordo su una strategia appropriata: mobilitare la popolazione e creare un forum nazionale rappresentativo, un’assemblea popolare in cui discutere queste questioni. Gli inglesi, a differenza di quanto avvenuto in India, Iraq e in alcune parti dell’Africa, negarono ai palestinesi qualsiasi accesso politico allo stato coloniale. L’argomento di un’assemblea popolare per rompere in modo decisivo con le strutture del controllo coloniale era quindi molto importante.
L’altra condizione di fondo della Rivolta fu l’ascesa del fascismo in Europa.
Dal momento in cui i nazisti sono saliti al potere, l’intera situazione è cambiata per gli ebrei nel loro rapporto con il mondo e con il sionismo. È del tutto comprensibile. Anche in Palestina si verificarono dei cambiamenti: tra il 1932 e il 1939, la percentuale di popolazione ebraica passò dal 16 o 17% al 31%. I sionisti avevano improvvisamente una base demografica valida per conquistare la Palestina, cosa che non avevano nel 1932.
I palestinesi sono diventati vittime indirette del ‘giudeocidio’ europeo.
Assolutamente. I palestinesi stanno pagando per l’intera storia dell’odio europeo verso gli ebrei, che risale al Medioevo. Edoardo I che espelle gli ebrei dall’Inghilterra nel 1290, le espulsioni francesi nel secolo successivo, gli editti spagnoli e portoghesi nel 1490, i pogrom russi del 1880 e infine il genocidio nazista. Storicamente, un fenomeno cristiano europeo per eccellenza.
E se non ci fosse stato il ‘giudeocidio’ in Europa e i fascisti tedeschi fossero stati fascisti normali senza l’ossessione di eliminare gli ebrei?
Che domanda difficile. Ma guarda alla situazione nel 1939. Esisteva già un progetto sionista, con un forte sostegno imperiale britannico, per ragioni che non avevano nulla a che fare con gli ebrei o il sionismo. Si trattava di interessi strategici. La Dichiarazione Balfour fu fatta dall’uomo responsabile di aver fatto approvare la legge più antisemita della storia parlamentare britannica, l’Aliens Act del 1905. La classe dirigente britannica non si preoccupava degli ebrei in quanto tali. Forse gli importava della loro lettura della Bibbia, ma ciò che più gli importava era l’importanza strategica della Palestina e del Medio Oriente come porta d’accesso all’India, molto prima del 1917. Questo era ciò che li preoccupava, dall’inizio alla fine. Quando furono costretti ad andarsene nel 1948, poterono farlo perché avevano già lasciato l’India nel 1947 e non avevano bisogno della Palestina allo stesso modo. Se Hitler fosse stato assassinato, ci sarebbe stato comunque un progetto sionista, con il sostegno imperiale britannico. Il sionismo avrebbe comunque cercato di conquistare la totalità del paese, che è sempre stato il suo obiettivo, e avrebbe ancora cercato di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e l’immigrazione. Non posso fare altre ipotesi.
Ma non c’erano anche correnti antisioniste all’interno delle comunità ebraiche?
Certo, c’erano ebrei comunisti, ebrei assimilazionisti. La stragrande maggioranza della popolazione ebraica perseguitata dell’Europa orientale scelse l’emigrazione verso le colonie dei bianchi: Sudafrica, Australia, Canada, Nuova Zelanda e, soprattutto, Stati Uniti; alcuni andarono anche in Argentina e in altri paesi dell’America Latina. Questi erano la maggioranza ed è lì che è andato il grosso della popolazione ebraica del mondo, oltre a quelli che sono rimasti in Europa. L’antisionismo è stato un progetto ebraico, fino a Hitler. Prima di allora, i sionisti erano una minoranza e il loro programma era profondamente contestato nelle comunità ebraiche. Ma l’Olocausto ha prodotto una sorta di comprensibile uniformità nel sostegno al sionismo.
Le sconfitte di solito hanno l’effetto di fermare tutto per un certo periodo; poi la resistenza risorge, in forme diverse. Ma nel caso del 1936-39, la sconfitta è stata immediatamente seguita dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, iniziata in Cina, anche se molti la chiamano guerra europea. Qual è stato l’atteggiamento della leadership palestinese in quel periodo? In Indonesia, Malesia, India e in alcune parti del Medio Oriente, alcuni settori del movimento nazionalista dicevano: il nemico del nostro nemico è nostro amico, anche se temporaneamente. Poiché il nostro nemico è l’Impero britannico, ciò significa che i tedeschi o i giapponesi sono nostri amici. Nel suo libro sull’Egitto, Anouar Abdel-Malek racconta che, quando sembrava che Rommel potesse conquistare l’Egitto, ad Alessandria si radunarono folle enormi che scandivano: “Avanti, Rommel, avanti!”. Volevano chiunque tranne la Gran Bretagna. Qual era l’atteggiamento in Palestina?
L’atteggiamento in Palestina era profondamente diviso. Una fazione minoritaria della leadership si allineò con i tedeschi, seguendo il Gran Muftì. Egli ebbe una straordinaria carriera bellica: i francesi lo cacciarono da Beirut, gli inglesi lo cacciarono dall’Iraq, quando lo rioccuparono nel 1941, poi lo cacciarono dall’Iran. Cercò di andare in Turchia, ma i turchi non gli permisero di restare, così finì a Roma e poi a Berlino. Ma la maggior parte dei palestinesi non adottò questa linea. Molti si arruolarono nell’esercito britannico e combatterono con le forze alleate. Naturalmente, molti leader furono uccisi dagli inglesi, sul campo di battaglia o giustiziati. Altri furono esiliati. Gli inglesi amavano esiliare i loro oppositori nazionalisti in possedimenti insulari: Malta, le Seychelles, lo Sri Lanka, le Andamane. Mio zio fu mandato alle Seychelles per un paio d’anni, insieme ad altri leader palestinesi, poi esiliato a Beirut per altri anni. Così la leadership capì, per la maggior parte, che la Gran Bretagna non avrebbe mai potuto essere loro amica. Potete leggere le memorie di mio zio: divenne virulentemente, velenosamente anti-britannico. È sempre stato un nazionalista e un anti-britannico, ma quanto la Rivolta ha cambiato le opinioni dei palestinesi è davvero notevole. In precedenza, la leadership aveva sempre cercato di conciliare con i britannici, sulla falsariga di molte élite coloniali cooptate. La situazione è cambiata con la repressione della Rivolta.
In definitiva, la sconfitta della Rivolta e poi la Seconda Guerra Mondiale lasciarono i palestinesi mal preparati a ciò che venne dopo, quando le due nuove superpotenze – gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica – sostennero il sionismo, mentre sul campo i britannici collaborarono con i sionisti e i giordani per impedire la creazione di uno stato palestinese. I palestinesi non erano sufficientemente organizzati per affrontare l’assalto dell’esercito sionista, che iniziò nel novembre 1947, mesi prima della fine del Mandato, il 15 maggio 1948, quando sarebbe dovuta entrare in vigore la spartizione e gli eserciti arabi si unirono alla mischia. A quel punto, le forze sioniste avevano preso Jaffa, Haifa, Tiberiade, Safad e decine di villaggi, espellendo circa 350.000 palestinesi, e avevano già invaso gran parte di quello che avrebbe dovuto essere lo stato arabo secondo il piano di spartizione dell’ONU. Quindi i palestinesi erano già sconfitti prima della proclamazione dello stato di Israele e dell’inizio della cosiddetta guerra arabo-israeliana.
Verremo a parlare del ruolo degli Stati Uniti in tutto questo. Ma come si spiega il sostegno dell’Unione Sovietica ai sionisti, che riforniva di armi ceche per continuare a combattere?
Come è noto, Stalin si trasformò in un batter d’occhi. Da potenza fortemente antinazionalista e antisionista, l’Unione Sovietica divenne improvvisamente un sostenitore dello stato ebraico. Questo fu uno shock enorme per i partiti comunisti del mondo arabo. Credo che le motivazioni fossero diverse. Sicuramente si trattava di uno sforzo per superare gli Stati Uniti, e c’era la sensazione che quello ebraico potesse essere un paese socialista che si sarebbe allineato con l’Unione Sovietica. Stalin voleva anche indebolire gli inglesi in Medio Oriente. Ricordiamo che aveva trascorso la sua giovinezza combattendo nel sud di quella che divenne l’Unione Sovietica durante la guerra civile russa, quando gli inglesi erano i principali sostenitori dei bianchi, finanziandoli, armandoli e addestrandoli. Li sostennero con truppe e flotte dal Baltico al Caspio al Mar Nero. All’inizio Stalin sviluppò una grande animosità nei confronti della Gran Bretagna e un’ossessione per la minaccia rappresentata dalla potenza britannica a sud dell’URSS. E vedeva in questo momento un’occasione in cui l’Unione Sovietica avrebbe potuto minare i regimi fantoccio arabi della Gran Bretagna nella regione.
Fu un intervento politico disastroso. Ma non durò a lungo.
Un paio d’anni. Ma sì, assolutamente. Se si guarda al voto dell’Assemblea Generale dell’ONU, senza l’Unione Sovietica e i suoi annessi bielorussi e ucraini, e senza i paesi da loro influenzati, gli americani avrebbero avuto difficoltà a far passare la risoluzione sulla spartizione. Avrebbero potuto farlo, ma con un risultato diverso. E l’accordo sulle armi ceche fu cruciale per le vittorie di Israele contro gli eserciti arabi sul campo di battaglia.
Questo ci porta alle élite arabe – le monarchie e gli sceiccati installati dalla Gran Bretagna dopo il crollo degli Ottomani – alla loro collaborazione con gli inglesi e al loro fallimento nel contribuire a sconfiggere questa entità che l’Impero britannico aveva creato.
Le monarchie egiziana, giordana e irachena hanno svolto il ruolo più importante in questo ambito. Esse erano soggette a pressioni contrastanti, dall’alto e dal basso. Da un lato, gli inglesi non volevano assolutamente vedere uno stato palestinese. I britannici nutrivano ancora un’enorme ostilità nei confronti dei palestinesi, così come erano diventati ostili ai sionisti a causa della sanguinosa campagna condotta contro di loro dall’Irgun, dalla Banda Stern e dall’Haganah alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Gran Bretagna si astenne dalla risoluzione di partizione. Uno stato ebraico sarebbe stato fondato, non c’era nulla che potesse impedirlo. Ma sperava, attraverso i regimi suoi clienti, di bilanciare il suo potere e di mantenere l’influenza in una parte della Palestina, grazie all’emiro Abdullah di Transgiordania, il cui esercito era comandato da ufficiali britannici.
Dall’altro lato, c’era la pressione dell’opinione pubblica. Il mondo arabo era da tempo preoccupato per il sionismo. Durante le mie ricerche, ho trovato centinaia di articoli di giornale sulla Palestina provenienti da Istanbul, Damasco, Il Cairo e Beirut. Durante la Rivolta Araba, volontari siriani ed egiziani combatterono in Palestina. I regimi vicini subirono quindi la pressione popolare per fare qualcosa contro la catastrofe che si stava verificando in Palestina nel 1947-48, quando i sionisti presero rapidamente il sopravvento e i rifugiati indigenti iniziarono ad arrivare nelle capitali arabe. Gli inglesi volevano che i giordani entrassero, ovviamente, per annettersi la Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’Egitto e gli altri paesi arabi furono costretti a intervenire dalle loro popolazioni. Ma lo fecero a metà, e solo dopo che gli inglesi si furono ritirati.
Ciò ebbe un effetto enormemente radicalizzante sui giovani ufficiali arabi coinvolti, tra cui Abdel Nasser. Egli scrisse nelle sue memorie: “Non ci furono dati i mezzi per combattere, e mentre combattevamo contro gli israeliani, pensavamo alla corrotta monarchia controllata dagli inglesi in patria”. Insieme a due stretti colleghi del gruppo nazionalista degli Ufficiali Liberi, Abdel Hakim Amer e Zakaria Mohyedin, Nasser fu inviato a Gaza e a Rafah e osservò in prima persona la rabbia dei soldati di fanteria contro l’Alto Comando del Cairo. Cita un soldato che continuava a ripetere ad ogni nuovo ordine inutile: ‘vergogna, vergogna su di noi’ con il tono sarcastico dei paesani egiziani. La guerra aumentò la popolarità degli Ufficiali Liberi e alla fine portò al rovesciamento della monarchia nel 1952. Questo vale anche per gli iracheni e i siriani. Quasi subito dopo la fine della guerra si verificò una serie di colpi di stato in Siria, seguiti dalla rivoluzione del 1952 in Egitto e poi in Iraq nel 1958. Gli ufficiali militari coinvolti avevano tutti combattuto in Palestina.
Così la Palestina fu spartita, ma non secondo il piano concordato dalle Nazioni Unite.
Ben-Gurion e la leadership sionista volevano prendersi tutto, ma all’epoca non ne avevano i mezzi. Così si accontentarono del 78%.
E da allora c’è stata una guerra semi-continua. La prima ondata di profughi è arrivata a Gaza dopo la Nakba del 1948, tra cui molti dei nostri amici. Non avevano mai vissuto a Gaza prima.
L’80% della popolazione di quella che oggi è la Striscia di Gaza discende da rifugiati, la maggior parte dei quali è arrivata nel 1948. Ci sono popolazioni provenienti dal Negev e da altre aree che sono state espulse anche più tardi. Ma l’80% della popolazione di Gaza proviene da altri luoghi.
Come gran parte della mia generazione, ho appreso per la prima volta le dimensioni della Nakba – la catastrofe palestinese – nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni. Fui inviato a visitare i rifugiati dalla Fondazione per la pace Bertrand Russell, che voleva che producessimo un rapporto investigativo, come avevamo fatto in Vietnam per il Tribunale internazionale per i crimini di guerra che Russell e Sartre avevano convocato. Durante quel viaggio ho incontrato tuo cugino, Walid Khalidi, nella sua casa di Beirut, e non lo dimenticherò mai. Mi fece sedere e mi disse: “Sai cosa è successo?” Mi raccontò del massacro di Deir Yassin nell’aprile del 1948. Gli occhi mi uscivano dalla testa. Non potevo credere di non averlo saputo.
Ti ricordi quando è successo?
Credo che fosse luglio, un mese dopo la guerra del 1967. Abbiamo incontrato rifugiati nei campi in Giordania, fuori Damasco, in Egitto, oltre a politici e intellettuali. Ironia della sorte, il nostro traduttore era un inglese musulmano, Faris Glubb, il cui padre, il generale Sir John Glubb, era stato comandante in capo dell’esercito della Transgiordania. Faris era un convinto sostenitore della causa palestinese. Walid era molto soddisfatto di questo fatto. Fu lui a darmi per la prima volta un vero e proprio corso di storia palestinese.
È molto bravo in questo. Sta per compiere 99 anni, inshallah, a luglio.
Non dimenticherò mai quel pomeriggio a Beirut. E se persone come me, cresciute in una famiglia di sinistra, filo-araba e filo-nasseriana, non sapevano della Nakba in quel momento, allora un gran numero di persone non poteva averne idea.
Assolutamente. Sono sempre colpito da quanto sia stato scarso il lavoro dei palestinesi nel pubblicizzare la loro causa, a partire dal 1917 e ben oltre il 1967. È solo con l’attuale generazione che c’è stata una sorta di svolta. E questo non è avvenuto da parte della leadership politica, ma da parte di organizzazioni della società civile come PACBI (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), il gruppo BDS che chiede il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, o l’Institute for Palestinian Studies fondato da Walid, che lavora da decenni. Finalmente si cominciano a vedere i risultati. E questo nonostante l’assenza di qualsiasi sforzo ufficiale competente. L’OLP ha iniziato a svolgere un lavoro informativo e diplomatico negli anni ’70 e nei primi anni ’80, anche se ancora insufficiente. A parte questo, il bilancio è stato desolante.
Come spieghi la persistente debolezza della moderna leadership palestinese? So che le persone migliori sono state uccise.
Questo è il primo punto importante. Assassinare i leader palestinesi è diventata una specialità israeliana. Un autore israeliano, Ronen Bergman, ha scritto un libro agghiacciante su questo tema, Rise and Kill First. Il titolo dice tutto. Sono stati molto attenti a scegliere quelli che volevano eliminare. Insieme ad alcuni regimi arabi, va detto: gli israeliani sono stati aiutati nei loro sforzi dagli assassini di Libia, Iraq e Siria. E gli israeliani conoscevano i loro obiettivi. Quando sono andati ad assassinare Abu Jihad a Tunisi, sono passati direttamente davanti alla casa di Mahmoud Abbas. Non lo consideravano un pericolo – al contrario – così lo hanno tenuto in vita e da allora lo hanno usato. Anche questa era una specialità britannica.
Ma i problemi della leadership palestinese sono più profondi. Negli anni ’30, essa era in parte un prodotto della struttura di classe palestinese: un’élite terriera fuori dal mondo, con visioni ottuse o ingenue su come trattare con gli inglesi. Dagli anni Sessanta, la mancanza di una visione globale da parte delle generazioni successive di leader palestinesi è stata un problema importante. Se si guarda ad altri movimenti anticoloniali – gli irlandesi, gli algerini, i vietnamiti o gli indiani – questi erano guidati da persone con una comprensione sofisticata dell’equilibrio globale del potere, del modo in cui operano le potenze imperiali e di come raggiungere l’opinione pubblica nelle metropoli. Nehru, Michael Collins, de Valera lo avevano capito. La leadership algerina aveva capito la Francia. Quella che chiamavano la settima wilaya o provincia del FLN (Fronte di Liberazione Nazionale) era in Francia. Gli irlandesi vinsero nel 1921 perché capirono la politica britannica e americana e vi svolsero operazioni politiche e di intelligence. La leadership palestinese non ha mai avuto le stesse conoscenze o capacità. Odio dirlo, sembra autodenigratorio, ma è vero.
Come definiresti l’élite palestinese in quel primo periodo? Ne ‘La guerra dei cent’anni in Palestina’, tu dai un’idea meravigliosa di questi clan palestinesi, i Khalidi e gli Husseini. I Khalidi erano più intellettuali, più studiosi, mentre gli Husseini tendevano a ricoprire ruoli di leadership pratica. Questo tipo di struttura di classe era particolare della Palestina o esisteva in qualche forma anche in altre parti del mondo arabo?
Il termine usato dal mio insegnante, Albert Hourani, era “notabili”, la politica dei notabili4. Egli parlava di famiglie, piuttosto che di clan; non si trattava di popolazioni tribali. La stessa struttura sociale prevaleva in tutte le province arabe dell’Impero Ottomano; si trattava di élite urbane, coinvolte nella religione, nella legge e nel governo; inoltre, in molti casi, proprietari terrieri e coinvolti nel commercio. Questo strato era abbastanza distaccato dalle classi popolari, disdegnando il lavoro manuale e, in molti casi, il commercio stesso. Per secoli è stato coinvolto nella politica ottomana e, prima ancora, nell’impero mamelucco. Alcuni membri della mia famiglia erano coinvolti nella magistratura mamelucca nel XIV e XV secolo. Questa élite si adattava bene al tipo di amministrazione che c’era sotto i Moghul, i Safavidi e gli Ottomani. Alcuni si sono adattati all’era moderna. Invece di ricevere una formazione religiosa, si recarono a Malta o a Istanbul, o nelle istituzioni missionarie americane. Acquisirono un’educazione moderna; invece di indossare il turbante o il fez, sfoggiarono un cappello a cilindro. Ma erano del tutto inadatti a trattare con gli inglesi.
Questa struttura sociale fu completamente distrutta nel 1948. La base materiale della classe che aveva dominato la società palestinese per secoli scomparve. I proprietari terrieri persero le loro terre, i commercianti le loro attività e così via. E con qualche eccezione, nessuna di queste élite è riemersa dopo il 1948. La società palestinese è stata essenzialmente rivoluzionata, come molte altre società arabe sono state rivoluzionate a livello sociale: in Iraq, Siria, Egitto, dove le élite secolari e la classe dei proprietari terrieri sono state rovesciate negli anni Cinquanta. Dinastie come gli Azm a Damasco sono scomparse dalla politica. Lo stesso è accaduto in Palestina a causa della Nakba. In un certo senso, ha aperto la porta a coloro che appartengono alla classe media istruita. La leadership dell’OLP non era composta da persone provenienti da vecchie famiglie importanti. L’unica eccezione che mi viene in mente è Faisal Husseini; è stato l’unico leader palestinese di spicco dopo il 1948 che proveniva dalla vecchia classe d’élite, ed era figlio di un eccezionale leader militare che fu ucciso in battaglia nel 1948.
Cosa è successo alla tua famiglia a quel punto?
La famiglia si è dispersa. Alcuni rimasero traumatizzati da quell’esperienza, altri ne furono galvanizzati. I miei nonni persero la casa di famiglia a Tal al-Rish, vicino a Jaffa, e divennero rifugiati. I miei zii e cugini finirono tra Gerusalemme, Nablus, Beirut, Amman, Damasco e Alessandria. Di conseguenza, ho cugini in tutto il mondo arabo e altri in Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, i membri della mia famiglia sono stati tra i più fortunati e privilegiati, in quanto hanno avuto una buona istruzione grazie a mio nonno, e alcuni di loro hanno fatto carriera come professori, come i miei cugini Walid, Usama e Tarif, o come scrittori e traduttori, come mia zia Anbara, o mia cugina Randa. I miei genitori, che avevano intenzione di tornare in Palestina dopo che mio padre avesse terminato il dottorato alla Columbia, finirono per dover rimanere negli Stati Uniti, motivo per cui sono nato qui a New York, nel 1948. Mio padre lavorava allora per le Nazioni Unite.
Dove hai frequentato la scuola?
Ho frequentato la UN International School di New York e sono andato a scuola anche in Corea. Ho studiato storia a Yale e ho fatto il dottorato a Oxford, con Hourani. Quindi sono stato educato in tre luoghi diversi.
E non c’era la Palestina tra tutti questi luoghi.
È così. Ho vissuto in Palestina solo per brevi periodi, un paio di anni in tutto. Ho vissuto in Libia per alcuni anni quando ero molto giovane e ho vissuto in Libano per oltre quindici anni, negli anni ’70 e ’80, insegnando all’Università Americana di Beirut. Ho vissuto in altri luoghi, ma la maggior parte della mia giovinezza e più della metà della mia vita l’ho trascorsa negli Stati Uniti.
Per tornare agli sconvolgimenti radicali degli anni ’40: come dicevi, la struttura di classe è cambiata in tutto il mondo arabo.
Con un’assoluta eccezione: le monarchie rimanenti. Il vecchio ordine sociale in Marocco non è cambiato, e nemmeno in Giordania o in Arabia Saudita. O almeno, non è cambiato nello stesso modo.
Gli inglesi mantennero le monarchie ovunque potessero. Churchill in particolare le amava e discusse persino la possibilità di crearne una per la provincia indiana del Punjab.
I colonialisti britannici amavano replicare la propria aristocrazia e il proprio sistema. Trovavano una nobiltà terriera in luoghi che non avevano mai conosciuta una cosa simile. I francesi preferivano le repubbliche coloniali.
L’altra conseguenza di questi sconvolgimenti radicalizzati della classe media fu che la piccola borghesia urbana ottenne l’accesso all’esercito, soprattutto in Egitto, Siria e Iraq. In India, il corpo degli ufficiali nativi era limitato ai secondogeniti della nobiltà terriera. Come si sono svolte queste trasformazioni tra le comunità palestinesi, nella diaspora e in Palestina? Nasser è stato un grande eroe per la generazione post-Nakba. E ci ha provato, a dire il vero – non è che non ci abbia provato. Ricordo di averlo detto a un palestinese in Egitto, che mi rispose con una battuta: “Sì, Tariq, ci ha provato, ma, sai, è come un orologio difettoso. Un orologio fa tic tac e va avanti. Nasser dice tac-tic e va indietro”. A mio avviso, la nuova generazione di leader palestinesi si è veramente affermata dopo la Guerra dei Sei Giorni, quando hanno riconosciuto che nessuno stato arabo li avrebbe difesi e che dovevano combattere per se stessi. Cosa ne pensi?
La mia opinione su Abdel Nasser sarebbe in qualche modo simile; uno dei miei ex studenti mi ha rimproverato l’altro giorno per averlo criticato. Ma il punto da sottolineare è che non credo che la Palestina sia mai stata la priorità di Nasser, nemmeno nel 1948. Se si leggono le sue memorie, ovviamente scritte da un sosia, è chiaro che la sua ossessione era l’Egitto. Era un nazionalista egiziano, comprensibilmente. La Palestina era importante, ma non è mai stata la sua priorità. Ma per rispondere all’altra domanda che mi poni: come è nata questa nuova generazione di leader della resistenza palestinese? Aveva iniziato a coagularsi prima del 1967, ma il trauma della Guerra dei Sei Giorni ebbe un impatto enorme. Come dici, ha consolidato la consapevolezza che gli stati arabi non avrebbero aiutato. Credo che molti credessero che Nasser l’avrebbe fatto – e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Le successive sconfitte del 1948, del 1956 e del 1967 dimostrarono che gli stati arabi non avevano i mezzi per sconfiggere Israele, indipendentemente dalla loro volontà di farlo. Le iniziative che si erano sviluppate nella società palestinese portarono alla presa di controllo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che Nasser aveva istituito nel 1964 per cooptare e controllare la marea montante del fervore nazionale. Nel 1968 l’OLP è stata rilevata da gruppi palestinesi indipendenti, insoddisfatti del controllo egiziano. Fatah era il più grande di questi e Arafat divenne presto presidente dell’OLP. Ancora una volta, si trattava di un movimento dal basso contro le élite cooptate, Ahmad Shukeiri e altri, che originariamente gestivano l’OLP. Shukeiri, tra l’altro, era un altro membro della vecchia classe dirigente. Ma da questo momento in poi, c’è stata una nuova generazione di leader palestinesi – Arafat, Hawatmeh, Habash, Abu Jihad e altri – che rappresentano una classe diversa, un diverso insieme di identità, rispetto a tutto ciò che era accaduto in precedenza.
Uno degli slogan più importanti di Arafat era al-qarar al-Filistini al-mustaqil: il potere decisionale indipendente dei palestinesi. La sua insistenza sull’autonomia e l’autodeterminazione palestinese è stata la chiave della sua popolarità in questo primo periodo: “non siamo controllati dai regimi arabi “. Questo fu uno dei suoi relativamente pochi successi, ma uno dei principali: mantenere l’OLP largamente indipendente dalle potenze arabe che volevano controllare il movimento palestinese, proprio come avevano cercato di fare fin dagli anni Trenta. Durante la Grande Rivolta, alla Conferenza di San Giacomo del 1939, nel dibattito sulla risoluzione di partizione dell’ONU o sull’istituzione dell’OLP, i regimi arabi hanno sempre cercato di dominare la questione palestinese a proprio vantaggio, naturalmente in rivalità tra loro. Stanno ancora cercando di farlo, anche se guardano impassibili e non fanno assolutamente nulla mentre Gaza viene martirizzata.
Hai già parlato di un’altra figura di spicco di questa generazione, Ghassan Kanafani. Ne scrivi in modo molto toccante in ‘La guerra dei cento anni in Palestina’. L’ho incontrato una volta a una conferenza in Kuwait nel 1966 e ne sono rimasto entusiasta.
Era estremamente carismatico. A leggerlo ora, il suo carisma esce quasi dalla pagina. Ma se lo si incontrava… L’ho incontrato solo un paio di volte. Quell’uomo era straordinario.
Non ricordo le sue parole esatte, che da allora sono diventate famose, ma chiesi: “C’è la possibilità di un accordo negoziato con questi bastardi?” E lui disse – non dimenticherò mai la sua voce o il suo sorriso – “Tariq, spiegami come il collo può negoziare con la spada [che vuole tagliarlo]”. Ho riso molto. Dissi: “È un’analogia molto brillante”. Era un grande intellettuale, uno scrittore e un leader politico. Sembrava rappresentare un’intera cultura. E così lo hanno ucciso. Il Mossad lo ha fatto saltare in aria, mentre era in viaggio con sua nipote.
Esattamente. Le sue opere letterarie risuonano ancora oggi. Mio figlio Ismail ha adattato la sua novella Returning to Haifa per il palcoscenico, con Naomi Wallace. È impossibile far sì che un teatro importante negli Stati Uniti lo metta in scena, anche se la prima è stata a Londra al Finborough Theatre. L’adattamento è stato commissionato dal Public Theatre di New York, ma il consiglio di amministrazione si è rifiutato di autorizzarne la produzione, dicendo che Kanafani era un “terrorista”. Tuttavia, nonostante la censura dell’establishment, la sua opera è presente ovunque. Ancora oggi le sue novelle sono in stampa, così come le sue opere teatrali, le sue poesie e gli altri suoi scritti, sia in arabo che in traduzione. Insieme a Mahmoud Darwish ed Edward Said, credo che sia l’intellettuale palestinese più importante del XX secolo.
È quello che dicevamo prima: sanno chi uccidere.
E chi non uccidere.
Cosa ha portato Arafat e la squadra che lo circondava a decidere di cedere a Oslo nel 1993? Il nostro amico Edward Said l’ha definita una “Versailles palestinese”, una pace punitiva.
Edward aveva ragione, ma non sapeva quanto. In effetti, era molto peggio di Versailles. Il punto di svolta fu il 1988, quando la squadra di Arafat nel Consiglio Nazionale Palestinese capitolò essenzialmente alle condizioni poste dagli americani per avviare un dialogo bilaterale: i palestinesi dovevano rinunciare alla violenza, cosa che agli israeliani non era mai stata chiesta, e accettare la spartizione, sottoscrivendo la risoluzione 242 dell’ONU, che limitava ogni questione all’esito della guerra del 1967. La risoluzione dell’ONU fu redatta da Arthur Goldberg, Abba Eban e Lord Caradon: i suoi autori erano le grandi potenze imperiali e il loro cliente israeliano, sebbene sia stata avallata dall’URSS nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. In realtà, gli israeliani non volevano che l’OLP capitolasse in quel momento. Non erano proprio interessati a parlare, qualunque cosa l’OLP accettasse. I palestinesi potevano accettare l’UNSC 242, accettare la “soluzione dei due stati”, rinunciare alla violenza e gli israeliani non avrebbero comunque parlato con loro; fino a quando Rabin non ha finalmente rotto il tabù nel 1992.
Dietro la svolta dell’OLP c’è l’esito della guerra d’ottobre del 1973, quando i regimi egiziano e siriano chiarirono che i loro interessi erano limitati ai territori occupati nel 1967, al Sinai e alle alture del Golan. Al di là di questo, non gli importava d’altro. E questo è stato chiarito alla leadership palestinese. Ho visto alcuni di loro tornare dal Cairo. All’epoca vivevo a Beirut e facevo da interprete per una delegazione palestinese-americana. Hanno parlato della loro esperienza al Cairo con Sadat e di come lui abbia detto chiaramente: questo è il momento. Questo è ciò che ci aspetta e questo è tutto ciò che ci aspetta. Prendetevi cura di voi stessi. Non l’ha detto con tutte queste parole…
Ma questo è ciò che intendeva e questo è ciò che hanno fatto.
Questo è ciò che la leadership dell’OLP ha capito. Da quel momento in poi, cominciarono a spostarsi dalla lotta armata e dalla liberazione della Palestina verso i negoziati per la cosiddetta soluzione dei due stati. Nel 1974, in occasione del Consiglio Nazionale Palestinese (PNC), hanno fatto passare la prima modifica della formulazione. Il PFLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina)5 e la maggior parte dei membri di Fatah capirono perfettamente cosa stavano cercando di fare e si opposero. Ci sono voluti anni per arrivare al punto in cui la leadership è riuscita a ottenere l’approvazione esplicita del PNC per questo programma: spostare l’OLP da una posizione di liberazione di tutta la Palestina, con uno stato laico-democratico per musulmani, cristiani ed ebrei in cui tutti sono uguali, a una soluzione con uno stato e molteplici bantustan, che è ciò che la soluzione a due stati negoziata dagli Stati Uniti ha sempre significato nella pratica. Questo è ciò che gli israeliani ci hanno dato, piccoli pezzi separati da enormi distese di insediamenti israeliani illegali. La leadership di Arafat ha probabilmente accettato questo principio nel 1974 e poi si è mossa, lentamente ma con sicurezza, per conquistare l’opinione pubblica palestinese e il movimento.
L’altro giorno Hillary Clinton è entrata nella mischia, aggiungendo il suo sassolino alla montagna di bugie che è stata costruita intorno al “processo di pace”. In pratica ha detto: “Abbiamo offerto tutto ai palestinesi negli accordi di Camp David del 1979, ma ci hanno respinto. Avrebbero già potuto avere il loro stato”. Tu conosci bene quella fase.
Uno dei miei studenti, uno studioso di nome Seth Anziska, ha scritto il miglior libro sull’impatto a lungo termine di Camp David.6 Mi sono concentrato sui negoziati di Madrid e Washington in Brokers of Deceit. Il punto fondamentale è che la statualità e la sovranità palestinese, e la fine dell’occupazione e degli insediamenti, non sono mai stati messi sul tavolo, mai, in nessun posto, in nessuna fase, da nessuna delle parti, Stati Uniti o Israele o chiunque altro. A Camp David, nel 1979, è stata offerta l'”autonomia”; a Madrid e a Washington, nel 1991, ci è stato permesso di negoziare solo per l'”autonomia”, o l’autogoverno sotto la sovranità israeliana; tutto ciò che ci è stato detto è che le “questioni sullo status finale” avrebbero incluso la discussione di questi altri aspetti. Ma sappiamo qual era il nocciolo della questione. Rabin ce l’ha detto. Nel suo ultimo discorso del 1995, poco prima di essere assassinato per essersi spinto troppo in là, spiegò fino a che punto si sarebbe effettivamente spinto. Disse: quello che offriamo ai palestinesi è meno di uno stato e manterremo il controllo di sicurezza sulla Valle del Giordano. In altre parole, nessuna autodeterminazione, nessuna sovranità, nessuna statualità. Una soluzione a uno stato e a più bantustan.
Questa era l’offerta di Israele. E non è mai cambiata. Rabin è stato assassinato – avrebbe potuto cambiare, si può speculare su questo, se non fosse stato ucciso. Ma questo è ciò che disse nel suo ultimo discorso alla Knesset. E questa è stata la linea di fondo per Ehud Barak nel 2000, che ha negoziato con l’OLP, a differenza della maggior parte degli altri leader israeliani. Rabin, Barak e poi Olmert erano effettivamente disposti a negoziare, erano disposti a mettere la loro spada sul nostro collo, secondo l’inimitabile espressione di Kanafani. Ma cosa offrivano? Non la statualità, non la sovranità, non l’autodeterminazione, non la fine dell’occupazione e non la rimozione degli insediamenti. Quanto alla Clinton: è una delle più grandi bugiarde della politica americana e coinvolta in molteplici crimini di guerra. Ha detto che gli studenti non capiscono la storia. Ebbene, ciò che sta propagandando non è certo storia. È una narrazione completamente distorta e falsa sotto quasi tutti i punti di vista.
Passiamo ad Hamas. È corretto dire, come molti dei suoi oppositori nell’OLP insistono, che è stato creato da Israele?
No. Voglio essere molto chiaro. Hamas è emerso nel 1987-88, nella situazione di cui abbiamo appena parlato. È nato dal movimento islamista di Gaza, come estensione palestinese separata dei Fratelli Musulmani in Egitto. Ciò è avvenuto proprio nel momento in cui Fatah e l’OLP si sono allontanati dall’obiettivo di liberare l’intera Palestina, come stato laico-democratico, per accettare le condizioni americane-israeliane stabilite dall’UNSC 242, deponendo le armi e accettando uno staterello palestinese diviso, fianco a fianco con Israele. L’OLP ha accettato formalmente tutto ciò nel 1987-88, proprio quando Hamas è emersa come scissione dal movimento islamista.
Ora, sono stati incoraggiati dagli israeliani? Sì, certo che sono stati incoraggiati. Israele vedeva nell’OLP il suo principale avversario nazionalista, il pericolo principale. Qualsiasi movimento dissidente che minasse il sostegno dei palestinesi all’OLP era ben accetto all’intelligence israeliana. Certo che lo era. Due specialisti israeliani, Shaul Mishal e Avraham Sela, hanno scritto un buon libro su Hamas che ne parla7. C’è stato anche un eccellente articolo della Reuters, che è entrato nei dettagli di come i servizi segreti israeliani hanno manipolato e sostenuto il movimento islamista a Gaza. Tutto il resto è stato soppresso – ogni espressione dell’identità palestinese, persino la Mezzaluna Rossa Palestinese – ma non gli islamisti. Essi operavano liberamente. Quando gli israeliani avevano bisogno di qualcuno che picchiasse i dimostranti dell’OLP nel campus di Birzeit, in Cisgiordania, facevano passare gli islamisti da Gaza attraverso Israele, equipaggiati con ferri da pneumatici e manganelli, per picchiare a sangue i dimostranti dell’OLP. Alcuni amici mi hanno raccontato di ragazzi a cui questi tipi hanno rotto le braccia. Gli islamisti potevano operare senza essere arrestati, senza subire interferenze, come non accadeva ad altre organizzazioni della società civile palestinese.
Quando è emerso Hamas, le autorità di occupazione israeliane erano inizialmente divise, perché Hamas ha prodotto il suo famigerato Statuto antisemita e ha lanciato operazioni contro soldati e coloni israeliani a Gaza, dopo l’inizio dell’Intifada nel dicembre 1987. C’è stato un dibattito all’interno dell’intelligence e dell’esercito israeliano: vogliamo davvero continuare a sostenere queste persone o no? Ma in tempi diversi, i servizi segreti israeliani che controllavano la Striscia di Gaza, se non li sostenevano, almeno permettevano loro di operare, per motivi di divisione e di dominio. Ho appena visto un bellissimo film intitolato Gaza Ghetto, realizzato da Joan Mandell nel 1984, che racconta come era la Striscia di Gaza sotto l’occupazione israeliana fino a quel momento. Lei viveva in Palestina all’epoca. L’occupazione israeliana controllava tutto, come oggi controlla tutto in Cisgiordania. Ci sono stati tentativi di resistenza, ovviamente, alcuni dei quali hanno avuto successo, altri no. Col tempo, però, Hamas si è trasformato in un movimento di resistenza e gli israeliani non ne sono stati molto contenti. Ma sono tornati a sostenerlo negli ultimi anni, sotto Netanyahu, perché pensavano di poter usare Hamas per pacificare la Striscia di Gaza, con il denaro proveniente dai paesi del Golfo, in particolare dal Qatar.
Ma non è stato così.
Non ha funzionato bene per loro.
Ora abbiamo l’ironia del fatto che il cosiddetto OLP laico-democratico è al 100% o al 99,9% collaborazionista con gli israeliani, che non esiste una “Autorità” Palestinese, che di fatto l’IDF emette gli ordini e l’Autorità Palestinese gestita da Fatah li esegue. Mentre l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, Hamas, è diventata la leadership di quella che dobbiamo chiamare, e che di fatto è, l’odierna resistenza palestinese.
La terribile ironia è che ciò che Arafat e i suoi colleghi hanno fatto accettando gli accordi di Oslo e trasferendo quasi tutto il movimento nazionale in una prigione controllata da Israele nei territori occupati, è stato, prima di tutto, svuotare l’OLP stesso. Oggi l’OLP non esiste più, se non come guscio. La leadership opera ora attraverso questa Autorità Palestinese fantoccio, che è un subappaltatore dell’occupazione. Non ha un’esistenza indipendente. Non ha autorità, né giurisdizione, né sovranità. È semplicemente un braccio dell’occupazione, uno dei tanti. La leadership di Arafat-Abbas ha così svuotato quello che era il nucleo del movimento nazionale, ovvero l’OLP. Ora non c’è più un’OLP di cui parlare. Esisteun’Autorità Palestinese, una burocrazia che ha potere di governo sulla vita civile dei palestinesi in una parte della Cisgiordania, anche se solo una piccola parte. La maggior parte della Cisgiordania, la cosiddetta Area C, è controllata direttamente dall’esercito israeliano. Al massimo, l’Autorità Palestinese è presente nel 20-30 per cento della Cisgiordania, in termini di responsabilità per l’istruzione pubblica, la sanità e così via. Ma Israele è il potere sovrano sulla totalità della Cisgiordania occupata e della Gerusalemme Est araba occupata. È la potenza occupante. È il potere della sicurezza. Controlla il registro della popolazione, gli ingressi e le uscite, tutto ciò che ha a che fare con i finanziamenti. Controlla i servizi di sicurezza dell’AP. Fanno quello che vogliono gli israeliani. Il popolo palestinese vuole essere protetto dall’occupazione e dai coloni, ma il personale dell’AP serve come agente dell’occupazione. Servono il nemico. Quindi, sì: questa è una tragedia per gli elementi laico-democratici, non legati alla Fratellanza Musulmana, del movimento nazionale palestinese.
Dopo Oslo, la National Left Review ha descritto la traiettoria di Fatah come una sbandata dal massimalismo fantastico al minimalismo ignominioso, senza alcun tentativo di definire e lottare per una soluzione equa nel mezzo8. Ci sono ancora alcuni nell’OLP che resistono. Hanan Ashrawi è stata più forte degli altri, e sono sicuro che ce ne saranno altri in attesa di un’alternativa.
Ci sono molte persone, comprese quelle coinvolte nell’OLP/Fatah, e anche alcune coinvolte nell’Autorità Palestinese, anche se non molte, che hanno ancora una posizione indipendente e che si oppongono alla natura collaborazionista dell’AP. Una serie di sondaggi d’opinione mostra chiaramente quanto Abu Mazen (Mahmoud Abbas) sia ampiamente disprezzato, quanto l’AP sia odiata. Questo nonostante il fatto che fornisce gli stipendi a un’enorme percentuale della popolazione dei territori occupati. Ci sono decine di migliaia di addetti alla sicurezza, decine di migliaia di impiegati statali, insegnanti, persone del settore sanitario, che sono sul libro paga dell’Autorità Palestinese e dipendono interamente da essa per il loro sostentamento. Nonostante ciò, l’AP è detestata dalla stragrande maggioranza della popolazione. Questo è perfettamente chiaro.
La cosa interessante è che la popolarità di Hamas non è sempre stata così grande come alcuni pensano, sia a Gaza, dove stava diventando sempre più impopolare prima del 7 ottobre, sia in Cisgiordania, dove è più popolare semplicemente perché la gente non è stata governata da loro. Ma molti di coloro che erano sotto il governo di Hamas nella Striscia di Gaza hanno una visione negativa di Hamas. Dipende dai sondaggi, da chi fa le domande e a chi le fanno. Il sentimento pubblico non è statico; sale e scende nel tempo. Ma la domanda sul grado di sostegno popolare di Hamas dovrebbe essere posta con molta più attenzione di quanto si fa. Si presume che, poiché molti giovani sono stati travolti dall’entusiasmo dopo il 7 ottobre, questa sia ancora l’opinione della maggior parte delle persone oggi, otto mesi dopo. Non credo che sia necessariamente così. Hamas è visto come meritevole di credito per aver inflitto a Israele una sconfitta militare mai subita prima. Israele ha subito una batosta su alcuni campi di battaglia nel 1948 e ha subito una grave battuta d’arresto militare all’inizio della guerra del 1973, prima che gli americani venissero in suo soccorso. Ma dal 1948, Israele non ha mai dovuto combattere per giorni sul proprio territorio. Ci sono voluti quattro giorni per riprendere le basi militari e le numerose comunità invase da Hamas e dai suoi alleati il 7 ottobre. Non era mai successo prima. L’attacco del 7 ottobre ha causato il più alto numero di vittime civili israeliane dal 1948. (La propaganda israeliana sostiene che sia “il più alto dall’Olocausto”, ma non è vero: nel 1948 morirono 2.000 civili israeliani e 4.000 soldati). Ma Israele non ha mai subito un fallimento di intelligence di questa portata, nemmeno nel 1973. Così molte persone danno credito ad Hamas per questo, anche se possono avere delle riserve per altri motivi.
Gli israeliani sapevano cosa stava succedendo nel 1973. Gli americani glielo dicevano.
Lo sapevano, o lo hanno scoperto un po’ in ritardo, ma non hanno reagito abbastanza in fretta, per arroganza o superbia. Avevano spie in Egitto. Avevano spie ovunque. Avevano persone che dicevano loro: “Aspettate, aspettate, stanno solo facendo delle esercitazioni”. Anche se il 1973 fu un grande shock, con la Siria che prese le alture del Golan, non ci furono vittime civili israeliane. Questo va detto ancora una volta riguardo al 7 ottobre: oltre alle atrocità, che hanno sicuramente avuto luogo, il più alto numero di vittime civili che Israele abbia mai subito dal 1948 si è verificato in quei quattro giorni all’inizio dell’attacco. Questo è un dato di cui i palestinesi devono tenere conto, se vogliono capire perché Israele è così feroce nella sua punizione collettiva di Gaza. Non si tratta solo della sconfitta militare e del fallimento dell’intelligence. Non si tratta solo di ripristinare l’onore infangato e la “deterrenza” distrutta dell’esercito. È un desiderio viscerale di vendetta, una punizione per la sofferenza traumatica di un gran numero di civili israeliani. Non solo quelli uccisi o catturati: intere comunità sono state svuotate e non sono ancora state ripopolate, otto mesi dopo. Questo è fondamentale se vogliamo capire cosa motiva la ferocia del comportamento israeliano. C’è una logica di fondo che risale al lancio del progetto sionista. Ogni progetto coloniale deve comportarsi con ferocia, per affermarsi a spese della popolazione indigena. Ma quello a cui abbiamo assistito negli ultimi otto mesi è di una portata mai vista prima, nemmeno nel 1948.
Siamo pienamente consapevoli del fatto che dal 7 ottobre sono stati uccisi almeno 25 volte più palestinesi che israeliani, tra cui una percentuale enorme di civili, donne, bambini, anziani, operatori sanitari e umanitari, giornalisti, accademici. Il mondo è ora pienamente consapevole del trauma che sta producendo. Ma alcuni non hanno ancora compreso appieno il grado in cui la società israeliana è stata colpita dall’impatto di quei primi quattro giorni che sono serviti all’esercito israeliano per liberare il quartier generale assediato della Divisione Gaza, per riprendere il valico di Erez, le molteplici basi militari che erano state catturate e una dozzina di comunità lungo la frontiera di Gaza. C’è voluto fino al 10 ottobre. Lo shock per Israele durerà per molto tempo, così come il trauma di ciò che viene fatto ora a Gaza peserà sui palestinesi di tutto il mondo per molti anni a venire. Non solo i gazawi, o persone come me e i miei amici e studenti che hanno famiglia a Gaza o conoscono persone lì. Ogni palestinese è colpito da questo trauma, oltre che da molti altri.
Come abbiamo discusso, nessuna delle precedenti tragedie della storia palestinese ha avuto questo impatto sull’opinione pubblica a livello globale, certamente non negli Stati Uniti. Eppure, guardare gli accampamenti che vengono allestiti in più di cento campus americani mi stupisce non poco. ho ascoltato il tuo bel discorso l’altro giorno agli studenti che protestavano alla Columbia. È come se il 7 ottobre avesse determinato un cambio generazionale, per quanto riguarda Israele e la Palestina. Uno strato significativo di giovani, tra cui migliaia di giovani ebrei, come quelli che hanno occupato la Grand Central Station di New York, non vuole avere nulla a che fare con questa entità mostruosa che uccide a piacimento. La gente vede ciò che Israele sta facendo e dice: è troppo, è inaccettabile, è un genocidio. E questo sta davvero facendo innervosire i media tradizionali e i politici. Pensi che questo durerà? E, in relazione a ciò, come spiegheresti il motivo per cui Washington è diventata così totalmente vigliacca? In Brokers of Deceit (Mediatori dell’Inganno), tu fornisci un’analisi sobria ma molto acuta del ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente, in particolare sotto Clinton e Obama, dimostrando che mentre Washington sostiene di essere un mediatore imparziale, che cerca di portare avanti un “processo di pace” equilibrato, in realtà è molto parziale, agendo come “avvocato di Israele” e come suo principale sostenitore. Tuttavia, quando erano in gioco gli interessi americani, le amministrazioni precedenti erano pronte a sferrare un colpo di frusta per farsi sentire. Truman ha mantenuto un embargo sulle armi contro tutti i belligeranti nel 1948; dopo Suez, Eisenhower ha detto a Ben-Gurion di andarsene da Gaza e dal Sinai entro due settimane o di affrontare le sanzioni; nell’agosto 1982, Reagan ha urlato a Begin di smettere di bombardare Beirut; Bush senior ha minacciato di trattenere 50 miliardi di dollari per portare Israele al tavolo dei negoziati. L’attuale assetto, sia democratico che repubblicano, non mostra alcuna volontà di esercitare alcuna pressione. Biden – “Genocide Joe”, come lo hanno soprannominato gli studenti – è il peggiore di tutti. Trump non sarà migliore. Il Segretario di Stato Blinken balla come una scimmia addomesticata a tutte le melodie di Netanyahu. Quella che era la scimmia è diventata il suonatore di organetto? Perché e come si è arrivati a tanto?
È una domanda a cui è difficile rispondere. Ci spremiamo le meningi, cercando di capire fino a che punto gli americani sono diventati peggio che complici. Sono diventati i portavoce di ogni più bieco pezzo di propaganda sionista. Il Presidente e i suoi terribili portavoce, l’ammiraglio Kirby e l’orribile Matthew Miller, sembrano gli addetti stampa di Netanyahu, i peggiori propagandisti israeliani, che sposano senza mezzi termini la narrativa israeliana, punto dopo punto. Oggi hanno ammesso che gli Stati Uniti stanno aiutando gli israeliani a dare la caccia e a uccidere la leadership di Hamas, che hanno fornito informazioni per il salvataggio degli ostaggi grazie alle quali sono stati uccisi quasi 300 palestinesi. La Royal Air Force (RAF) ha effettuato missioni di sorveglianza quasi quotidiane sulla Striscia di Gaza. L’America e la Gran Bretagna, il suo aiutante sanguinario, partecipano direttamente al massacro, non solo fornendo armi, denaro e veti dell’ONU, ma svolgendo il lavoro di intelligence e propaganda per questo genocidio. Tu hai usato la parola “vigliacco”. Questo è peggio. Ci sono parole in arabo che non riesco a tradurre. Il grado in cui questa amministrazione ha fatto propria una prospettiva israeliana, da Biden a Blinken fino a Sullivan, la contraddistingue.
È vero che in un paio di posizioni di vertice ci sono persone che non vogliono e non ripetono questa retorica. Il Segretario alla Difesa, Austin, e Burns, il capo della CIA, non l’hanno fatto; e nemmeno altri, che ne sanno di più. Ma non hanno alcun potere all’interno dell’Amministrazione su questa questione. Credo che la maggior parte dei professionisti di carriera che lavorano nel Dipartimento di Stato, nelle forze armate e nella cosiddetta comunità dell’intelligence – adoro questo termine, “comunità” dell’intelligence – sa perfettamente che ciò che Israele sta facendo è inutile e dannoso per gli interessi americani; anzi, è dannoso per qualsiasi comprensione razionale degli interessi di Israele. Ma non hanno voce nell’Amministrazione di Biden.
Parte di questo ha a che fare con il divario generazionale che tu hai menzionato. Oggi gli Stati Uniti sono governati da una cricca di anziani, una gerontocrazia che è stata indottrinata negli anni ’60 e ’70 con il mito del legame tra l’Olocausto e la creazione di Israele. Schumer, Pelosi, Biden, Trump sono persone anziane. La loro coscienza si è formata all’epoca della guerra del 1967. E da allora non hanno mai aperto le loro menti, non hanno mai avuto accesso a nient’altro che a una narrazione velenosa che dipinge Israele con i colori più scintillanti e i palestinesi con quelli più cupi: l’idea che Israele sia sempre in pericolo esistenziale, che i cosacchi siano sempre alle porte; che l’Olocausto possa ripetersi, che Israele rappresenti un fiore della civiltà occidentale in un deserto di barbarie araba: un mucchio di tropi razzisti che Israele, e il movimento sionista prima di lui, hanno seminato con successo in tutto l’Occidente. Biden non ha espresso la minima solidarietà per i 14.000 bambini palestinesi uccisi dalle bombe americane. Non prova alcun sentimento di vergogna, non percepisce le dimensioni dell’orribile genocidio che lui e la sua amministrazione stanno contribuendo a perpetrare. E le persone intorno a lui rispecchiano le stesse idee, ovviamente. Sono isolati dal mondo.
Per quanto tempo potrà continuare? Non lo so. Non vedo segni di arresto. Hanno cominciato a capire che Israele sta danneggiando i suoi e i loro interessi e stanno cercando di porre un freno. Ma finora non hanno ottenuto nulla dagli israeliani. E se fossi Netanyahu e la mia sopravvivenza politica dipendesse dalla continuazione della guerra, i deboli piagnistei degli americani e la minaccia di ritardare una o due spedizioni di armi non sarebbero una ragione per fermare il conflitto. Andrà avanti quanto vuole, pensando correttamente che gli americani abbaiano più che mordere, e che qualsiasi morso sarebbe dato senza usare i denti. Gli Stati Uniti potrebbero dire: fermeremo tutte le spedizioni di armi, a meno che Israele non accetti il piano di cessate il fuoco che il capo della CIA, Burns, ha redatto per loro. Potrebbero sponsorizzare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che richieda un cessate il fuoco in base a specifiche disposizioni della Carta dell’ONU, cosa che costringerebbe Israele a fermarsi domani. Non lo faranno. Per tornare a ciò che hai detto: questo era qualcosa che Reagan stesso era disposto a fare, nell’agosto 1982. Gli israeliani smisero di bombardare Beirut solo perché Reagan urlò a Begin, e mezz’ora dopo cessarono ogni attività. Eravamo seduti lì a Beirut, sotto i bombardamenti israeliani, e all’improvviso sono cessati, essenzialmente grazie a una telefonata del presidente americano al primo ministro israeliano. Biden non l’ha fatto.
Mearsheimer e Walt sono stati diffamati per il loro libro sulla lobby di Israele, sono stati definiti antisemiti e così via9. Ma la tesi che hanno sostenuto a proposito di come viene gestita la politica estera americana a quel livello sembra oggi piuttosto forte.
La cosa divertente è che, nonostante tutte le diffamazioni e le calunnie, The Israel Lobby and US Foreign Policy è diventato rapidamente un bestseller e continua a vendere molto bene. Conosco gli autori, sono entrambi miei amici; credo che con l’ultima guerra ci sia stato un aumento delle vendite, un decennio e mezzo dopo la sua pubblicazione. Penso che fosse un’analisi valida. Non credo che fosse abbastanza esaustiva perché parlava solo dei gruppi di pressione a Capitol Hill, dei sionisti cristiani e dei neocons, e dei vigilanti della lobby nei media e nel mondo accademico, mentre c’è un intero ecosistema che si è esteso a importanti elementi del settore militare, tecnologico e biomedico americano, che sono strettamente integrati con i loro equivalenti israeliani. Parti enormemente importanti dell’economia americana sono legate a questi settori in Israele e queste sono forze potenti nella società americana. Il Congresso è di loro proprietà, nel senso che i loro contributi mantengono i politici eletti in carica: la Silicon Valley, le biotecnologie, la finanza, il settore militare in particolare. L’intreccio tra il complesso militare-industriale di sicurezza statunitense e quello israeliano non conosce soluzione di continuità, così come l’intreccio tra le reti di difesa e di intelligence israeliane e quelle indiane, emiratine e di altri paesi. Non credo che tutto questo sia pienamente spiegato in The Israel Lobby, in parte perché alcuni di questi aspetti sono emersi dopo la pubblicazione del libro.
Veniamo al tema delle attuali élite arabe, che stanno continuando indifferenti in modo ancora più palese di quanto non abbiano fatto dopo la Nakba. Prima del 7 ottobre, i sauditi erano sul punto di riconoscere Israele.
Lo sono ancora.
Lo sono ancora. E gli stati del Golfo rimangono stazioni di servizio imperiali, con enormi quantità di denaro. La Giordania è stata un protettorato israeliano per molto tempo. Le masse egiziane sono state brutalmente sconfitte dall’esercito. Ho pensato che ci sarebbero state altre proteste nel mondo arabo – e l’unica cosa che avrebbe potuto cambiare l’umore sarebbe stata una rivolta di massa. Ma a parte lo Yemen, non molto è cambiato. Ci sono state manifestazioni a favore di Gaza, ma finora non della stessa portata della rabbia manifestata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Credo che ci siano almeno due cose da dire. La prima è che esiste, ed è sempre esistita, una profonda simpatia per la Palestina tra i popoli arabi, in tutto il mondo arabo, dal Golfo all’Atlantico. Questo non è cambiato. È andata un po’ su e giù, ma non è sparita. Ma queste persone stanno affrontando altre questioni critiche. Chi vive in uno stato distrutto – come la Libia, la Siria, l’Iraq, lo Yemen, il Sudan, il Libano – dalla guerra civile o dall’intervento delle potenze imperiali e dei loro clienti, ha altre preoccupazioni. L’Iraq non ha ancora l’elettricità 24 ore su 24, 21 anni dopo l’occupazione americana – ed è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. La Palestina è importante, ma lo è anche l’elettricità e il fatto di non essere uccisi dal regime o da questa o quella fazione dell’esercito. Questa è la situazione in una mezza dozzina di paesi arabi: diversi stadi di guerra civile per procura, con tutte le grandi potenze coinvolte.
La seconda cosa è che, quasi senza eccezione, dal Golfo all’Atlantico, non ci sono regimi che permettano all’opinione pubblica di esprimersi. Ci sono dittature autoritarie, un pouvoir in Algeria, le monarchie più assolutiste dai tempi di Luigi XIV, che non permettono praticamente alcun dissenso al di là di un minuscolo spazio, e se si va oltre, si viene colpiti da taser e torture, si viene arrestati e la propria famiglia soffre. Quindi, hai ragione, nessuna protesta nel mondo arabo ha raggiunto il livello di quelle che abbiamo visto a Londra e New York, o in alcune parti del Sud globale, Indonesia e Pakistan. Questo è in parte dovuto al fatto che le masse arabe sono state intimorite dai pungoli e dalle torture inflitte loro dopo la cosiddetta Primavera Araba. Sono state riportate all’ordine dai clienti dell’America, in particolare dai sauditi e dagli emiratini, con grandi afflussi di denaro e il sostegno alle misure di sicurezza più dure. Non si può biasimare del tutto la popolazione per non essere disposta ad alzare la testa oltre un certo punto su questo tema.
In alcuni luoghi, tuttavia, la situazione è critica – in Giordania, ad esempio, e in alcuni altri paesi, sotto la superficie. Ma non mi sembra che questo porti alle transizioni democratiche che sarebbero necessarie perché questi paesi possano svolgere un ruolo attivo e positivo. I loro governanti sono più preoccupati di ciò che Washington e Tel Aviv possono dire che del loro popolo. Non rappresentano le opinioni del loro popolo in nessun modo. Sono legati a Israele da tanti vincoli visibili e invisibili. Le difese antimissile degli Emirati sono state fornite dalla filiale israeliana di Raytheon, il che significa che la sorveglianza antimissile di Israele contro l’Iran si trova a Jabal Ali, ad Abu Dhabi, e non a Jabal al-Sheikh (Monte Hermon), sulle alture occupate del Golan. Gli Emirati Arabi Uniti dipendono interamente da Israele per la loro sicurezza contro gli attacchi missilistici. Esistono varianti di questo accordo in Giordania, Egitto e altri paesi arabi. In Marocco, le guardie del corpo reali sono state addestrate dal Mossad negli ultimi cinquanta o sessant’anni, fin dai tempi di re Hassan II. Il legame con la difesa israeliana è vecchio di generazioni nel caso della Giordania, del Marocco e dell’Egitto, ed è ben consolidato in molti paesi del Golfo e in un paio di altri.
All’inizio c’era la speranza che Hezbollah, con il sostegno, silenzioso o pubblico, del regime iraniano, potesse aprire un secondo fronte e alleggerire la pressione su Hamas. Ma questo non è accaduto.
Credo che Hamas abbia sbagliato ad aspettarselo. Probabilmente si aspettavano risposte molto più sostenute da parte di altri palestinesi nei territori occupati e speravano che Hezbollah, così come altre milizie alleate dell’Iran e forse l’Iran stesso, sarebbero stati molto più vigorosi nel reagire alla contro-risposta di Israele al 7 ottobre. È un esempio perfetto di quanto poco capiscano del mondo. Con tutto il loro acume sotto altri aspetti, i leader che hanno organizzato questo assalto hanno quella che definirei una visione a tunnel. Penso che credessero davvero che ci sarebbe stata una rivolta in tutto il mondo arabo. Non ho molte prove a sostegno di questa affermazione, ma di certo sono rimasti delusi dalla reazione. La risposta di Hezbollah è stata quella che definirei “performativa”. Ha avuto un effetto significativo su Israele: ha ucciso almeno quindici soldati israeliani e undici civili israeliani, secondo fonti israeliane, e ha portato all’evacuazione dell’intera regione di confine – decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case.
Ma anche se potrebbe ancora esplodere in una guerra su larga scala, finora si è trattato di un “colpo su colpo”, molto misurato e controllato. Questo è in funzione di ciò che chiunque abbia occhi per vedere avrebbe potuto dire ai ragazzi nei tunnel, ovvero che l’Iran non ha investito nello sviluppo delle capacità di Hezbollah per il bene di Hamas. Lo ha fatto per creare un deterrente che proteggesse l’Iran da Israele; questa è l’unica ragione. L’idea che Hezbollah e gli iraniani scocchino tutte le frecce della loro faretra per sostenere Hamas, in una guerra che ha iniziato senza avvertire i suoi alleati, è incredibile che qualcuno possa pensare che sia così. L’Iran è uno stato nazionale che ha interessi nazionali, che si limitano alla conservazione del regime, all’autodifesa e alla raison d’état. Potete parlare di Islam, ideologia e “asse della resistenza” fino allo sfinimento. Vi dirò: la raison d’état, la protezione del regime, è ciò che interessa loro, ed è per questo che hanno sostenuto l’aumento delle capacità di Hezbollah. E non spareranno quel colpo. Non c’era alcuna possibilità, in nessun caso, che lo facessero per sostenere Hamas. Se, per carità, dovesse scoppiare una guerra su larga scala, sarà a causa di un errore di calcolo, di un incidente o di una mossa irrazionale di Netanyahu, non di una decisione di Hezbollah.
Hezbollah è un partito libanese. Ha un patrono iraniano, ma è ben consapevole del fatto che l’opinione pubblica libanese gli si rivolterà contro se le sue operazioni contro Israele provocheranno una massiccia rappresaglia contro il Libano, che non sarebbe diretta solo contro Hezbollah ma anche, come nella guerra del 2006, contro le infrastrutture libanesi. Gli israeliani hanno sempre punito il paese ospitante per indurlo a costringere la resistenza a smettere di fare qualsiasi cosa stesse facendo. Hanno bombardato la Giordania, hanno bombardato la Siria, per costringere quei regimi a fermare i palestinesi. Non cercavano di fermare i palestinesi stessi, ma di impedire a qualsiasi paese arabo di ospitare e sostenere i palestinesi. Lo farebbero con il Libano, per costringerlo a fermare Hezbollah. E Hezbollah lo sa, e lo sanno anche i libanesi. Non capisco come i leader di Hamas non l’abbiano capito. Questo dimostra un distacco dalla realtà e un difetto di senso strategico davvero inquietante. Dal 7 ottobre hanno sconvolto in modo drammatico lo status quo stagnante in Palestina e si sono dimostrati molto abili nel condurre una guerriglia – a un prezzo indicibile, sia chiaro. Ma in ultima analisi, la guerra è un’estensione della politica con altri mezzi, e non hanno proiettato al mondo una visione politica palestinese chiara, strategica e unificata. Non credo che la gente dica questo tipo di cose, per quanto siano difficili da dire. Ma dovrebbero farlo. Dovrebbero farlo.
Sono completamente d’accordo con te. Passando al futuro, qual è il piano israeliano per Gaza? Stanno cercando di creare un’altra Nakba, cioè di distruggere la Striscia, di svenderla alla loro stessa gente e di trasformare altri palestinesi in rifugiati? Questo è ciò che sembra essere il caso. O qualcuno interverrà per impedire che ciò accada? Gli americani non lo faranno di certo, questo è ormai chiaro.
A differenza di altri momenti critici della sua storia, Israele non ha un’élite unificata e oggi non esiste una posizione chiara su questi temi. Nel 1948, Ben-Gurion dominava la politica israeliana; anche nel 1956, ha prevalso su Sharett e ha fatto ciò che voleva lanciando la guerra di Suez. Episodio per episodio, sia che abbiano fatto bene o male, almeno sapevano cosa volevano fare. C’era un senso coeso e unitario degli interessi di Israele, anche dopo la guerra del 1967, quando non si riusciva a decidere se tenersi tutto, e c’era una leadership coesa. I vertici militari e politici hanno operato in sincronia per la maggior parte della storia di Israele. Oggi non è così. Non credo che ci sia una chiara visione israeliana su cosa fare. Netanyahu ha un’idea molto limitata di ciò che vuole strategicamente. Quello che vuole personalmente è una continuazione della guerra senza una chiara strategia finale. Questo serve al suo stretto interesse politico: rimanere al potere, non avere elezioni e non essere processato.
Altre fazioni all’interno del suo governo hanno opinioni diverse. L’establishment militare e di intelligence non è coeso. Proprio di recente un ex Capo di Stato Maggiore ha detto che la guerra deve finire. Non era mai successo che ex capi di Stato Maggiore dicessero questo in tempo di guerra; Aviv Kohavi lo ha appena detto. Altri ex generali e capi dell’intelligence hanno detto cose simili. L’élite israeliana è divisa, a ragione, su come terminare la guerra, su cosa fare a Gaza il giorno dopo, se mai arriverà. All’inizio era chiaro che speravano di poter completare la Nakba ed espellere un gran numero di persone in Egitto e forse anche dalla Cisgiordania in Giordania. E hanno mandato il loro galoppino, Blinken, a fare il lavoro sporco per loro: andare dagli egiziani, dai giordani e dai sauditi e implorarli: per favore, potete permettere che questo accada? La partecipazione del governo americano a un piano israeliano di ulteriore pulizia etnica della Palestina è uno degli episodi più spregevoli della storia americana. Sarà un marchio di vergogna per Blinken e Biden per il resto del tempo. Nel 1948, Washington non voleva la pulizia etnica, anche se Truman ha permesso che avvenisse e non ha fatto nulla per sostenere la risoluzione di partizione che aveva storto tante braccia per ottenere. Ora è diverso e molto peggio. Washington sostiene attivamente Israele nel genocidio e cerca attivamente di mediare la sua pulizia etnica di una parte della Palestina.
Ma se la leadership israeliana aveva una visione chiara di ciò che voleva all’inizio – devastare Gaza e completare la Nakba – non credo che l’abbia ora. Ciò che sembra probabile è una forma di occupazione israeliana, un risultato che nessuno, compresi gli stessi israeliani, dovrebbe desiderare. Non vorrei occupare Gaza se fossi in loro. La loro ultima occupazione, fino al 2005, non ha avuto molto successo. Pensate a cosa hanno dovuto affrontare allora, da parte di Hamas dei primi anni 2000 e di altri gruppi con capacità pari a una frazione di quelle attuali. Non credo che ci siano opzioni valide, francamente, dal punto di vista israeliano. Non credo che ci sia stata una chiara decisione della leadership in merito. Potrei sbagliarmi, ma questa è la mia impressione dall’esterno, leggendo la stampa israeliana. Nonostante il loro potere schiacciante, si sono messi in una situazione strategica senza speranza.
Una terribile ironia storica. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Isaac Deutscher rilasciò un’intervista a New Left Review10. Aveva rotto con Israele in modo deciso e aveva inviato un messaggio a Ben-Gurion, che conosceva, in cui avvertiva della catastrofe che sarebbe avvenuta se non si fosse posto fine all’occupazione. Descrisse gli israeliani come i prussiani del Medio Oriente – una successione di vittorie che genera una cieca fiducia nella propria forza delle armi, un’arroganza sciovinista e un disprezzo per gli altri popoli – e ricordò la lezione che i tedeschi trassero dalla loro esperienza: “Man kann sich totseigen! Si può trionfare fino alla morte.
Ben-Gurion lo ha imparato. Dopo la guerra del 1967 temeva che Israele si crogiolasse nel trionfalismo e non cogliesse l’opportunità offerta dalla guerra per ottenere un accordo favorevole a Israele e al sionismo. Naturalmente aveva ragione. La cosa triste di molti di questi leader è che imparano troppo tardi. Così, Ehud Olmert parla di cose che non aveva mai detto quando era Primo Ministro, o Ben-Gurion dice cose che non aveva mai detto prima, o ex generali israeliani o capi del Mossad e dello Shin Bet, pieni di saggezza dopo essere andati in pensione. Ho avuto un incontro meraviglioso con Yehoshafat Harkabi, capo dell’intelligence militare israeliana negli anni Cinquanta, che ha scritto due libri fondamentali che sono stati i progetti per la demonizzazione dell’OLP. Non è stato solo il capo dell’intelligence militare, ma anche il principale propagandista in Occidente di una visione negativa dell’OLP. Quando l’ho incontrato in età avanzata, l’uomo aveva cambiato completamente rotta e aveva scritto una serie di libri che criticavano Israele. Spesso con queste persone succede troppo tardi. Lo stesso vale per Jimmy Carter. Perché non l’ha detto quando era Presidente?
Esattamente.
Il miglior ex presidente che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. Ma vorrei finire di rispondere alla tua prima domanda: cosa è cambiato e cosa no. Sono cresciuto in un mondo, come ho detto, in cui la narrazione sionista era l’unico gioco in città e veniva creduta ciecamente da quasi tutti. Oggi non è più così, come abbiamo discusso. C’è una vigorosa contestazione della narrativa sionista, in particolare all’interno della comunità ebraica, con un’interessante divisione generazionale. È un fatto del tutto nuovo e molto importante.
Ciò che non è cambiato, e con cui i nostri nipoti devono ancora confrontarsi, è il sostegno incrollabile dei governanti delle potenze imperiali al progetto sionista. Soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, e Francia e Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questo è per molti versi il problema più grande, a mio modo di vedere. Se si accetta il quadro del colonialismo d’insediamento, la metropoli è importante quanto la colonia. Israele non è affatto un tipico insediamento coloniale; è anche un progetto nazionale, con una significativa dimensione biblica, e un rifugio dalle persecuzioni. Nessun altro insediamento coloniale è stato a tal punto un rifugio dalle persecuzioni: i puritani e altri dissidenti religiosi, come i quaccheri, che sono arrivati in Nord America, avevano certamente subito una repressione, ma non della stessa portata. In sostanza, questa combinazione di caratteristiche è unica per il progetto israeliano. Ma il nucleo centrale, il nucleo coloniale, si riferisce a una metropoli. E le élite di questa metropoli, purtroppo, sono cambiate a malapena rispetto a quando ero bambino. Le nuove generazioni dovranno fare i conti con questo.
Alcuni studiosi e archeologi israeliani, tra cui Israel Finkelstein, hanno dimostrato che le storie eroiche del racconto dell’Antico Testamento – l’esodo, la stirpe reale del Libro dei Re – erano in gran parte una “tradizione inventata”, prestiti costruiti come ideologia di corte in un periodo successivo. Le edizioni ebraiche dei libri di Shlomo Sand, ‘L’invenzione del popolo ebraico’ e ‘L’invenzione della Terra d’Israele’, sono state dei bestseller in Israele. Ma questo ha avuto un impatto trascurabile sulla presa dell’ideologia nazionale sulla maggioranza della popolazione.
Sul nazionalismo, Gellner, Hobsbawm e Benedict Anderson avevano ragione: non importa quali siano state le realtà storiche, è ciò che la gente crede che conta. Finkelstein e altri eccellenti archeologi israeliani hanno fatto saltare in aria gran parte delle fondamenta bibliche del sionismo, con scarsi effetti politici. Penso che dobbiamo considerare il potere di questi miti biblici, a prescindere dalla loro infondatezza dal punto di vista storico e archeologico – la loro risonanza per generazioni, per secoli, e non solo tra gli ebrei. È altrettanto importante che abbiano risuonato tra i cristiani. I protestanti britannici sono in ultima analisi responsabili della Dichiarazione Balfour, radicata nella loro fede in questi stessi miti. Lord Shaftesbury era sionista negli anni Trenta del XIX secolo, prima dei primi sionisti ebrei, per motivi religiosi.
Ma la barbarie israeliana, come stiamo vedendo, sta iniziando a intaccare alcuni di questi miti, non è così?
Potrebbe esserci una resa dei conti. Questo sionismo cristiano è principalmente un fenomeno protestante; è molto meno diffuso tra le popolazioni cattoliche. Questa lettura della Bibbia – il “raduno di Israele” come precursore della Seconda Venuta e del Giudizio Universale, l’Apocalisse di San Giovanni il Divino – è essenzialmente una lettura protestante. E in molte delle denominazioni protestanti più liberali negli Stati Uniti, si sta diffondendo la consapevolezza del pericolo di questa lettura e di quanto sia falsa in termini di valori cristiani. Si assiste a un cambiamento parallelo tra gli ebrei, che dicono che questo non ha nulla a che fare con la tradizione ebraica che vogliamo sostenere. Non vogliamo distruggere le persone come gli israeliti distrussero Amalek. Non crediamo nella versione dell’ebraismo che anima molti coloni e l’ala destra dello spettro politico israeliano, che va dall’estrema destra al centro-sinistra. Credono a queste cose, alla distruzione degli Amaleciti in quanto nemici di Israele. Netanyahu ha cinicamente abbracciato questa logica sterminazionista, in una interpretazione alla lettera del Libro di Saul: “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek”. La maggioranza della Knesset, 64 membri, sostiene un governo guidato da un uomo che ha ripetuto questo concetto. Ma non è quello che crede gran parte della comunità ebraica negli Stati Uniti.
Infine, la tua università, la Columbia.
Non sarà più la mia università perché andrò in pensione alla fine di giugno.
Ma sarete comunque associati in qualche modo.
Sarò solo un ex membro della facoltà, che terrà alcuni corsi come non membro della facoltà o come facoltà “contingente”, come siamo soliti chiamarla.
Potrebbero eliminare del tutto il nome di un “terrorista”, la cattedra Edward Said?
Non ho idea di cosa succederà. Ci sono donatori e discendenti di donatori che, suppongo, insisteranno affinché continui a esserci una cattedra e che qualcuno qualificato la ricopra. Non ne ho idea. La campagna negli Stati Uniti contro gli studi sul Medio Oriente in generale e sulla Palestina in particolare è virulenta e attraversa tutto lo spettro politico. E ora abbiamo il Dipartimento di Polizia di New York che si unisce a politici senza principi nella polemica, vergognosamente ripresa dagli amministratori dell’università, sugli agitatori esterni e sull’istigazione dei membri della facoltà, incluso il sottoscritto. Quindi non so cosa succederà. Quando mi fanno questo tipo di domande, rispondo che il lavoro di uno storico non comprende la previsione del futuro.
Hai dedicato il tuo ultimo libro ai tuoi nipoti, cosa che noi anziani tendiamo a fare.
[Risate]
È bene che si ricordi che entrambi ridiamo di cuore.
Hai espresso la speranza che i nipoti vedano un mondo migliore. Qual è la differenza più grande tra il mondo in cui sei cresciuto e quello in cui stanno crescendo loro?
Sono cresciuto in un mondo in cui non c’era nessuna voce palestinese – nel mondo arabo, nella sfera pubblica in Occidente; nessuna, non esisteva. I palestinesi non esistevano. I miei quattro nipoti stanno crescendo in un’epoca in cui ci sono voci piuttosto vigorose per la Palestina, in tutto il mondo. Questo è un elemento di cambiamento in meglio. Sono cresciuto in un mondo in cui la narrazione sionista era completamente egemonica e Israele era descritto come “una luce per le nazioni”. Oggi non è più così. Oggi è ampiamente, e giustamente, considerato uno stato paria a causa delle sue stesse azioni genocide. Queste sono solo alcune delle poche cose positive che sono accadute in questi tempi molto difficili.
Note:
1 Ghassan Kanafani, The Revolution of 1936-1939 in Palestine: Background details and analysis, New York 2023 [1972].
2 Kanafani, The Revolution of 1936–1939 in Palestine, p. 60.
3 “Memoirs of the First Palestine War” di Nasser, tradotte in inglese da Walid Khalidi per il Journal of Palestine Studies, inverno 1973, sono un resoconto avvincente del caos e della deliberata mancanza di piani da parte del corrotto alto comando del Cairo.
4 Albert Hourani, “Ottoman Reform and the Politics of the Notables” in William Polk e Richard Chambers, eds, Beginnings of Modernization in the Middle East: The Nineteenth Century, Chicago 1968, pp. 41-68.
5 Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un’organizzazione socialista rivoluzionaria formata da George Habash e altri dopo la guerra del 1967.
6 Seth Anziska, Preventing Palestine: A Political History from Camp David to Oslo, Princeton 2018.
7 Shaul Mishal e Avraham Sela, The Palestinian Hamas: Vision, Violence and Coexistence, New York 2000.
8 Perry Anderson, ‘The House of Zion’, New Left Review 96, novembre-dicembre 2015.
9 John Mearsheimer e Stephen Walt, The Israel Lobby and US Foreign Policy, New York 2007; il libro espande gli argomenti presentati in “The Israel Lobby”, London Review of Books, 23 marzo 2006.
10 Isaac Deutscher, ” On the Israeli–Arab War”, New Left Review I/44, luglio-agosto 1967, pp. 38-9.
© New Left Review Ltd 2024
https://newleftreview.org/issues/ii147/articles/the-neck-and-the-sword
Traduzione a cura di AssoPacePalestina
Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.