Cisgiordania, esperienza di volontariato internazionale in supporto alla popolazione palestinese

di Alessandro Luparello

Focus on Africa, 15 gennaio 2025

Nell’area avviene una sistematica violazione dei diritti umani. Alcune persone scelgono di affiancare la popolazione palestinese nelle attività quotidiane, come deterrenza alla violenza dei coloni. Sara Emara lo ha fatto, è tornata e ce ne parla.

Nel villaggio due bambini, fratello e sorella, giocano facendo finta di cucinare. Foto di Sara Emara.

La Cisgiordania è – suo malgrado – un simbolo della “questione palestinese”. Un territorio teatro di occupazioni, scontri e resistenze. Fin dalla guerra dei sei giorni del 1967, il contesto ambientale è caratterizzato da un’occupazione militare prolungata e ininterrotta, con insediamenti israeliani sempre più numerosi e una crescente, umiliante e distruttiva frammentazione del territorio palestinese.

La Cisgiordania, anche nota come West Bank, si estende su circa 5.7 mila chilometri quadrati. Includendo Gerusalemme Est, è abitata da circa 3 milioni di palestinesi (dato del 2023) e 720 mila coloni israeliani (di cui 230 mila nella sola Gerusalemme Est).

Sulla base degli accordi di Oslo (che ricordiamo essere nati come passaggio temporaneo per una transizione verso lo Stato Palestinese, transizione mai avvenuta), il 60% del territorio della Cisgiordania – area che include anche la maggior parte delle risorse naturali – è sotto il pieno controllo israeliano (Area C), il 22% ha un controllo congiunto (Area B) e il 18% è sono il controllo esclusivo dell’Autorità Palestinese (Area A). Inoltre, le già limitate aree sotto il controllo dell’Autorità Palestinese non sono contigue.

Rapporti dell’UNRWA e di Amnesty International (ad esempio “Israel’s Apartheid Against Palestinians: Cruel System of Domination and Crime Against Humanity”, rapporto del 2022) sottolineano l’impatto devastante delle restrizioni di movimento, della demolizione di abitazioni palestinesi e dell’espansione degli insediamenti, che violano il diritto internazionale.

Sulle restrizioni al movimento, un consiglio può essere quello di guardare (dura una ventina di minuti) il cortometraggio “The Present”, diretto da Farah Nabulsi. Il film mostra con potente realismo come un semplice viaggio per comprare un regalo diventi un percorso di umiliazione e resistenza per una famiglia palestinese. È uno spaccato della realtà vissuta quotidianamente da milioni di persone.

La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha, su questo punto specifico, anche emesso un parere consultivo che ribadisce l’illegalità degli insediamenti israeliani nel territorio occupato, inclusa la Cisgiordania e Gerusalemme Est: la Corte ha dichiarato che le colonie violano l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento della popolazione civile della potenza occupante nei territori occupati. Ha inoltre chiesto a Israele di fermare immediatamente la costruzione di nuove colonie e di smantellare quelle esistenti.

Nel contesto attuale, la (rarefatta) attenzione internazionale si concentra sulle drammatiche conseguenze umanitarie a Gaza, ma la Cisgiordania resta in una situazione di intollerabile e reiterata ingiustizia: azioni militari, arresti arbitrari e crescenti tensioni territoriali e per l’accesso alle risorse – in primo luogo l’acqua, i pascoli e gli ulivi – sono all’ordine del giorno, con effetti particolarmente pesanti su donne e bambini.

Organizzazioni come UNICEF e Save the Children (ad esempio nel rapporto “Defenceless Childhood’s: The Impact of Armed Conflict on Palestinian Children”) denunciano che il 50% dei bambini palestinesi ha vissuto almeno un episodio di violenza legata al conflitto.

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei territori palestinesi, ha dichiarato: “L’occupazione in Cisgiordania non è solo una questione politica, è una violazione costante e sistematica dei diritti umani”. Anche il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ha sottolineato che “le azioni unilaterali che violano il diritto internazionale devono cessare immediatamente per prevenire ulteriori sofferenze”.

Amnesty International, nel suo rapporto del 2022, ha definito la situazione nei territori occupati come un regime di apartheid, sottolineando che “Israele ha istituito un sistema di oppressione e dominazione sui palestinesi che equivale ad apartheid secondo il diritto internazionale”.

E l’apartheid non può non avere conseguenze pervasive e profonde sulla vita delle persone.

Diverse associazioni palestinesi, come Al-Haq, denunciano infatti la progressiva distruzione del tessuto sociale, economico e culturale della Cisgiordania. Un giornalista palestinese, citato in un rapporto di B’Tselem, ha dichiarato che “vivere sotto occupazione è come essere intrappolati in una gabbia invisibile: ogni decisione, ogni movimento, è soggetto al controllo di qualcun altro”. Sempre B’Tselem (che è un’organizzazione israeliana per i diritti umani) ha documentato pratiche discriminatorie e soprusi sistematici. Sul campo, queste dinamiche si traducono in vite sospese tra checkpoint, muri e speranze (umiliate) di normalità.

Checkpoint da Bardala a Tubas. Foto di Elena Castellani, gentilmente concessa.

Gli operatori internazionali svolgono un ruolo cruciale nella Cisgiordania, lavorando sia per garantire supporto umanitario sia per documentare le violazioni dei diritti umani. Ci sono organizzazioni che forniscono aiuti essenziali come cibo, acqua, supporto psicologico e assistenza legale eppure spesso il loro lavoro è ostacolato da (aggiuntive) restrizioni di movimento, minacce di violenza da parte dei coloni e tensioni con le forze di difesa israeliane (IDF).

E infatti, la relatrice speciale ONU Francesca Albanese ha dichiarato che “gli operatori umanitari non sono solo testimoni ma anche bersagli di un sistema che cerca di soffocare ogni forma di resistenza”. Un rapporto di Human Rights Watch del 2023 ha evidenziato che gli attacchi contro gli operatori umanitari in Cisgiordania sono aumentati del 40% nei precedenti cinque anni. E la situazione è decisamente peggiorata dopo il 7 ottobre 2023.

L’azione degli operatori internazionali non è solo un atto di solidarietà ma anche una forma di deterrenza, seppur fragile, contro le violenze. La loro presenza ricorda che, anche (o specialmente) nelle situazioni più difficili, la comunità internazionale non può (e non deve) voltare lo sguardo altrove.

Sulla situazione attuale in Cisgiordania e sul ruolo degli attivisti abbiamo voluto concentrare l’attenzione e approfondire.

Per questo, abbiamo contattato Sara Emara, appena tornata in Italia da un’esperienza come volontaria internazionale in Cisgiordania, che ringraziamo per il tempo dedicatoci e la preziosa testimonianza diretta.

Iniziamo subito dalle presentazioni: chi è Sara?

Sono Sara Emara, ho 32 anni, sono italo-egiziana e ho vissuto 15 anni in Egitto, dove mi sono laureata in produzione televisiva e radiofonica. Attualmente studio progettazione di esperienze e interfacce digitali e sono una digital designer, regista e sceneggiatrice indipendente. Faccio anche parte del Coordinamento SWANA di Amnesty International Italia, dove ci occupiamo di diritti umani nell’area del Sud-Ovest asiatico e Nord Africa.

Quando e come nasce, in una giovane donna, l’idea di partire per una missione come operatrice internazionale in Cisgiordania?

Il desiderio è sempre stato presente ma il problema era trovare il momento giusto per agire. Spesso ci blocchiamo pensando che non sia il momento opportuno o chiedendoci se sia meglio affrontare la situazione da soli o con il supporto di un’associazione. Tuttavia, arriva sempre il momento in cui bisogna fare il passo.

I motivi sono molteplici: uno di questi è la sensazione di impotenza che provo ogni giorno della mia vita di fronte alle violazioni dei diritti umani in Palestina, soprattutto quando mi rendo conto dell’indifferenza della comunità internazionale. Ho riflettuto sul fatto che, se voglio davvero avere un impatto concreto e immediato, devo essere lì, devo vedere con i miei occhi, devo vivere la frustrazione e soprattutto devo parlare con le persone, ascoltare i loro punti di vista, i loro desideri e condividere momenti belli e semplici, perché alla fine dobbiamo ricordarci che sono esseri umani con i loro sorrisi, i loro sogni e il loro patrimonio culturale.

Voglio offrire un aiuto tangibile: aiutare a attraversare una strada, accompagnare una persona a portare gli animali a pascolo o permettere a un altro di dormire una notte tranquilla. Questo è il tipo di aiuto che voglio vedere realizzato e che mi aiuta a dare un senso più profondo all’attivismo che svolgiamo da lontano, sensibilizzando e esercitando pressione sui governi.

Per fare tutto questo, specie in aree dove l’occupazione militare dura da decenni e dove (da un lato) un radicato apartheid istituzionalizzato e (dall’altro) la violenza dei coloni rendono difficile, asfissiante e pericolosa tutti i momenti della vita di ogni palestinese, servirà una certa preparazione fisica e psicologica. Può descriverci un po’ come funziona l’organizzazione prima della partenza?

Una volta completato il modulo di partecipazione, riceviamo un manuale di orientamento e iniziamo a partecipare alle call periodiche con Assopace Palestina, un’organizzazione che, oltre a molte altre attività, coinvolge i volontari internazionali nella lotta non violenta e nel supporto alle comunità palestinesi nella resistenza nel Territorio Occupato. Ci vengono spiegati vari aspetti del manuale, in particolare riguardo alla sicurezza, ai rischi che potremmo correre e alle modalità di ingresso. Ci colleghiamo anche con i volontari e i coordinatori presenti sul campo per aggiornamenti sugli avvenimenti in corso.

Un training più dettagliato, invece, avviene una volta arrivati sul posto, incentrato su come comportarsi con le autorità, su come reagire in determinate situazioni, sulle conseguenze delle nostre azioni, sulla logistica e la cultura delle comunità con cui entreremo in contatto.

Dal punto di vista fisico non ci sono vincoli, a meno che non si diventi di intralcio a sé stessi o agli altri; considerando che ci sono persone di diverse età, si fa appello al buon senso nel riconoscere i propri limiti e adattarsi di conseguenza.

Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, ci viene spiegato come questa esperienza potrebbe impattare, ad esempio attraverso la sensazione di alienazione o il rischio di traumi emotivi. Viene sottolineata l’importanza di fare affidamento sui compagni di viaggio per supporto e nei casi più estremi, su specialisti per un aiuto professionale.

Ancora sulla preparazione: ci sono delle indicazioni sul materiale da portare in viaggio, sull’uso dei social network e del cellulare, sul comportamento da tenere in loco, ecc… che può condividerci?

È molto importante documentare l’esperienza, quindi è fondamentale portare un cellulare in grado di scattare foto e registrare video di buona qualità, oppure una fotocamera. Naturalmente, bisogna tenere a mente che c’è il rischio che venga confiscato o distrutto. È consigliato indossare abiti comodi, scarponi robusti e portare un sacco a pelo.

È fondamentale essere cauti con i social media poiché, se interrogati dalle autorità israeliane, è comune che possano accedere ai nostri account per verificare il tipo di attività che svolgiamo e motivare accuse nei nostri confronti. Personalmente, ho deciso di disattivare momentaneamente i social.

Per quanto riguarda il cellulare, è essenziale che sia pulito da qualsiasi dato sensibile o informazioni che potrebbero compromettere noi stessi e altre persone. È importante ricordare che ogni nostra azione potrebbe avere delle ripercussioni sulle persone con cui entriamo in contatto, in particolare sui palestinesi.

Il comportamento verso le autorità deve essere sempre pacifico. È fondamentale conoscere i propri diritti, ma bisogna essere consapevoli che questi potrebbero essere negati anche per un breve periodo di tempo. In ogni caso, la situazione è imprevedibile.

La situazione è imprevedibile, e questo a partire già dal viaggio. Com’è andata?

Sono partita con una attivista di Assopace Palestina verso Amman. Il nostro volo è stato cancellato due volte e alla fine siamo state costrette a optare per un volo alle 5 del mattino con uno scalo di 14 ore a Larnaca (Cipro). Il giorno successivo ci siamo incontrate con altre due persone e insieme abbiamo attraversato la frontiera. Per fortuna, nonostante la paura di essere interrogati, soprattutto nel caso di chi è già stato in quei luoghi, o di vedersi vietare l’ingresso, come nel mio caso per il cognome arabo, siamo riusciti a passare. A volte anche solo un timbro sul passaporto da determinati luoghi (come Iran, Libano, Siria, ecc…) può causare molte difficoltà.

Siamo consapevoli di quanto sia un privilegio avere un passaporto occidentale, che ci permette di viaggiare con meno ostacoli rispetto a chi non ha la stessa cittadinanza.

E finalmente la Palestina! Com’è stato arrivare in Cisgiordania?

Abbiamo superato i controlli palestinesi a Gerico senza problemi. La prima tappa è stata Ramallah, una città che mi ha colpito molto: nonostante una presenza di polizia piuttosto visibile che creava un’atmosfera di tensione, ciò che mi ha impressionato è stata l’energia. Spesso si pensa alla Palestina come a un luogo isolato, ma la città è vivace, piena di negozi, ristoranti, caffè e mercati. È un posto che, pur affrontando le sue difficoltà, è ricco di vita e di vitalità. Lì abbiamo incontrato altri volontari internazionali assegnati a diverse località e, insieme al gruppo con cui ero entrata da Amman, ci siamo diretti nella Valle del Giordano, dove saremmo rimasti per circa dieci giorni.

Quindi la sua destinazione era nella Valle del Giodano?

Sì, abbiamo operato nella Valle del Giordano, considerata area C quindi completamente gestita dalle autorità israeliane. La nostra guesthouse si trovava nel villaggio di Bardala, nel governatorato di Tubas, dove trascorrevamo il tempo libero, prima o dopo le attività e nelle sere di riposo insieme ad altri volontari internazionali, per la maggior parte americani. Alcuni di loro erano lì da due o tre mesi (il permesso di soggiorno per turisti consente una permanenza di tre mesi).

Mappa della Valle del Giordano occupata. Dal sito della Jordan Valley Solidarity

Per quello che può, naturalmente, ci racconterebbe delle sue attività? Cosa faceva/facevate in pratica?

Ci occupavamo principalmente di sorveglianza notturna e di lavori di pastorizia durante il giorno in quattro comunità nella Valle del Giordano, le cui terre sono state ripetutamente confiscate, mentre le case sono minacciate di demolizione e le comunità sono costantemente attaccate dai coloni che abitano nelle aree circostanti, con saccheggi di bestiame e attrezzi.

Durante il giorno, stavamo alla guesthouse di Bardala, dove ci occupavamo di cucinare, pulire e fare la spesa. Poiché la zona non ha accesso a fonti idriche, l’acqua veniva acquistata da un’area A, ma a un costo molto elevato, quindi era fondamentale usarla con molta parsimonia.

Alle 17:00 mangiavamo il nostro pasto principale, cucinato a rotazione tra noi o dal nostro coordinatore palestinese, che era anche il proprietario della guesthouse. Dopo cena, ci preparavamo con zaini e torce e ci dirigevamo verso la comunità assegnata quel giorno, in un gruppo di almeno due e al massimo quattro persone. Avevamo a disposizione una macchina: una persona guidava e l’altra faceva da co-pilota. Partivamo alle 18:00 e venivamo lasciati nella comunità designata, dove venivamo accolti dalla famiglia con del tè e passavamo il tempo giocando con i bambini e chiacchierando. Poi andavamo nel nostro spazio, solitamente una tenda separata da quella della famiglia, dove facevamo sorveglianza notturna a turno.

La mattina ci svegliavamo al sorgere del sole, facevamo colazione con la famiglia e poi accompagnavamo il pastore con il suo gregge, così da permettergli di far pascolare gli animali sul proprio territorio ma in zone che, secondo le autorità israeliane, gli sono precluse, a volte dichiarandole improvvisamente ‘zona militare chiusa’. Questo continuava fino a mezzogiorno, poi comunicavamo che avevamo terminato e a seconda della disponibilità, i volontari con la macchina venivano a prenderci per riportarci alla guesthouse, dove potevamo riposare.

I bambini rientrano con il gregge dopo il pascolo. Foto di Sara Emara

Sara, possiamo chiederle che emozioni ha provato in un contesto come quello che ha vissuto e ci sta descrivendo?

La prima sera ero molto spaventata. La tenda nella comunità dove ero stata assegnata era molto isolata e si trovava in una conca tra le colline, dove ti senti quasi intrappolata, circondata da una base militare e da una strada percorribile esclusivamente dai coloni e che porta ai loro insediamenti dietro quelle colline e con le bandiere israeliane conficcate nel terreno che trasmettevano un senso di inquietudine.

In quella comunità ci sono molti cani, non sempre amichevoli e quella sera continuavano ad abbaiare fortissimo e a girare intorno alla tenda. Essendo arrivata di notte, non avevo avuto modo di esaminare la zona e mi sono lasciata prendere un po’ dal panico, facendo fatica a dormire.

Ma al sorgere del sole, tutto è passato e da lì in avanti ho vissuto solo sensazioni positive. Ho capito che quelle persone vivono così ogni giorno della loro vita e mi sono resa conto che dovevo essere all’altezza della situazione per loro e per me.

Ho amato tutte le famiglie che ho incontrato e loro erano molto felici di avere una volontaria che parlava arabo, con cui finalmente potevano chiacchierare senza la barriera di Google Translate. Non si vedono molti volontari arabi da quelle parti.

Le comunità sono in genere molto conservatrici e per questo bisogna sempre rivolgersi a loro con il massimo rispetto per la loro cultura e le loro tradizioni: un fraintendimento potrebbe danneggiare la fiducia reciproca e compromettere l’intera operazione.

Le risate dei bambini riscaldavano il cuore! Pur studiando e aiutando i genitori nei loro lavori, avevano sempre voglia di giocare e fare due chiacchiere. Ho provato tanta impotenza per non poter fare di più, ma anche una grande malinconia all’idea di dover andare via. Eppure, ho vissuto anche tanta vita e tanta voglia di vivere, sensazioni che mi hanno insegnato molto e di cui farò tesoro.

Una bambina sul suo asino rientra dal pascolo verso il suo villaggio sottostante, mentre una bandiera israeliana sventola su una collina che affaccia su di esso, con una base militare israeliana dall’altra parte, di fronte a lei. Foto di Sara Emara

Poco prima ha osservato che “non si vedono molti volontari arabi da quelle parti”, eppure sarebbe forse ovvio aspettarsi una maggiore presenza solidale da parte delle popolazioni arabe, che pure tanto stanno manifestando all’interno dei propri Stati e spesso a fronte di posizioni governative assai più ‘tiepide’. Sebbene possiamo forse avanzare alcune ipotesi, la domanda è d’obbligo: perché secondo lei ci sono così pochi volontari arabi a supporto della posizione palestinese?

Ci sono diverse ragioni per cui non ci sono molti volontari arabi in Cisgiordania.

In primo luogo, molti temono di essere respinti e di non poter entrare in Palestina. Inoltre nei paesi arabi, a causa della repressione politica, i volontari non si sentono sicuri, né individualmente né a livello delle ONG, che vengono anch’esse sottoposte a repressione.

Le autorità tendono a limitare le attività delle organizzazioni non governative, creando un clima di difficoltà e paura per chi vuole impegnarsi. Di conseguenza, ci sono meno volontari arabi in generale.

Infine, la sensibilizzazione alla causa palestinese non è diffusa in modo uniforme. A parte le persone veramente attive (che comunque affrontano difficoltà), molti vedono la Palestina come un mito, qualcosa di cui si parlava a scuola, come la liberazione di Al-Quds (Gerusalemme), ma di cui in realtà sanno poco. Invito comunque gli arabi con un passaporto occidentale a considerare la possibilità di andare in Palestina. Ho percepito il desiderio di molti palestinesi di sentire che non sono soli, soprattutto in un momento in cui si sentono delusi anche dagli Stati arabi. Per loro, sapere che altri arabi sono vicini e li sostengono ha un grande valore emotivo.

Una domanda ancora sui volontari e sulle volontarie: nonostante la società israeliana appaia monolitica, ci sono diverse posizioni (singole e di associazioni) contro le politiche di apartheid dello Stato ebraico e contro la disumanizzazione della popolazione palestinese; sappiamo che ci sono anche persone di Israele o ebrei provenienti da altri Stati che operano in Cisgiordania come attivisti. Tu hai avuto modo di incontrarle?

Non ho incontrato volontari ebrei nell’area in cui operavamo, ad eccezione di un volontario statunitense proveniente da una sinagoga negli Stati Uniti, che ha attirato la mia attenzione e suscitato la mia ammirazione. So però, dai racconti delle famiglie, che ci sono volontari che sono passati da quella zona: erano molto grate per l’aiuto ricevuto dai volontari ebrei (provenienti anche da Israele) che si rendono disponibili nei loro confronti. Ovviamente, la loro presenza è significativa anche in altre aree.

Come è vissuta la vostra presenza dalla comunità?

La nostra presenza era richiesta direttamente dalle comunità. Tutto nasce dal fatto che quando una comunità si sente in pericolo chiama il nostro coordinatore, che è un membro dei comitati popolari palestinesi per la lotta non violenta. Lui aiuta le famiglie a resistere sulla loro terra, nonostante le minacce. Per loro, la nostra presenza è fondamentale e ci esprimono una grande gratitudine, convinti che senza di noi non potrebbero portare avanti molte delle loro attività. Al contrario, altre persone esterne ritengono che il nostro intervento funzioni da ‘cuscinetto’ senza apportare cambiamenti concreti alla situazione e, per questo, preferiscono cavarsela da soli o trovare soluzioni alternative, soprattutto nelle comunità meno isolate, quindi rafforzate da quelle più vicine.

Le tende del villaggio di una comunità palestinese, dove i volontari portano il gregge al pascolo di giorno e svolgono sorveglianza di notte. Sulla collina a sinistra, una base militare israeliana. Foto di Sara Emara

Le tende del villaggio di una comunità palestinese, dove i volontari portano il gregge al pascolo di giorno e svolgono sorveglianza di notte. Sulla collina a sinistra, una base militare israeliana. Foto di Sara Emara

Oltre all’aiuto materiale, la vostra presenza è un prezioso punto di osservazione internazionale sulla situazione politica e militare, sul rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, in una zona che scivola sempre più verso una cronicizzazione della violenza. Da quel che ha avuto modo di vedere e sentire, qual è la situazione attuale in Cisgiordania? C’è stato un peggioramento delle (già gravi) condizioni, dopo il 7 ottobre 2023?

In particolare nell’area C della Cisgiordania, ai palestinesi è sempre stato negato il diritto all’acqua, la possibilità di costruire e la libertà di movimento. Tuttavia, c’è stato un peggioramento significativo dopo il 07/10/2023, quando sia l’esercito israeliano che i coloni hanno usato quell’evento come pretesto per intensificare le restrizioni, i controlli, le minacce e gli attacchi, applicando una punizione collettiva nei confronti di tutti i palestinesi.

Cosa pensano le persone con le quali ha avuto modo di parlare della situazione quotidiana che sono costrette a vivere, dei check-point che frammentano il territorio, della prepotenza dei coloni, del ruolo delle IDF?

Le persone sono stanche di vivere in quel modo, di non essere libere di condurre una vita normale. Non vogliono più dover passare due ore a un checkpoint per poi sentirsi dire: ‘Mi dispiace, non puoi passare, oggi chiudiamo’ e trovarsi costretti a dormire altrove. Non vogliono che i bambini siano obbligati a camminare per chilometri per prendere un autobus che li porti in una scuola in un’altra città, senza sapere quando partirà e a che ora arriverà. Sono stanche di subire senza poter mai reagire, perché ogni reazione avrebbe sempre una risposta sproporzionata. Eppure resistono. Non vogliono arrendersi e non vogliono cedere l’ultima parte di dignità rimasta di fronte alle autorità israeliane e ai coloni. Noi cerchiamo di offrire loro tutto il nostro sostegno e supporto.

Ha avuto modo di percepire cosa le persone palestinesi della Cisgiordania pensano della politica regionale e della complicità della comunità internazionale in questo frangente?

Delusione, nei confronti di tutti. Vedono ciò che accade a Gaza e sono consapevoli che da un giorno all’altro potrebbe succedere anche a loro. Temono che tutti i loro sforzi possano risultare vani davanti agli occhi indifferenti del mondo.

Si sentono soli e abbandonati, tanto che ormai si meravigliano del fatto che ci siano persone come noi disposte a andare fisicamente là in solidarietà con loro. Sono molto consapevoli delle dinamiche politiche e questo genera in loro un profondo disprezzo.

Domanda difficile: quali sono i sogni e le speranze dei bambini e delle bambine con cui è riuscita a interagire?

Il sogno è quello di continuare a vivere e un giorno, riuscire finalmente a liberarsi dall’occupazione, vedendo la Palestina libera e i propri cari finalmente liberi.

I bambini assorbono tutto in modo indiretto. Sanno cos’è un soldato e cos’è un colono e imparano a vederli come persone cattive. Fortunatamente, soprattutto in giovane età, non subiscono il pieno peso della consapevolezza delle condizioni in cui vivono, perché non hanno mai conosciuto una vita diversa dalla loro. Per gli adolescenti, però, è già più difficile. Iniziano a maturare la frustrazione e a fare paragoni con le realtà di altri giovani e luoghi che scoprono attraverso i social media.

Un episodio che mi ha colpita durante la mia prima sera di volontariato, in cui ero stata assegnata alla famiglia, è stato quando il figlio di 13 anni mi ha mostrato un video in cui un colono scendeva dalla collina del loro villaggio. Dopo essersi fatto una passeggiata, se n’è andato. Ciò che mi ha impressionato di più è stata la reazione dei due bambini più piccoli della famiglia. Poco prima stavano giocando e scherzando tra di loro, ma quando hanno sentito pronunciare la parola “mustauten” (colono, in arabo) il loro atteggiamento è cambiato improvvisamente. Ho letto la paura nei loro occhi.

Ascoltare questi brevi racconti, questi scorci di quotidianità delle persone, specie dei bambini e delle bambine, ci aiuta a capire meglio; è come se ci consentisse di avere un’idea più concreta e tangibile, al di là di statistiche e mappe, e delle coordinate più accurate. C’è qualche altro momento di vita coi ragazzi e bambini che vuole condividere?

Un altro episodio, sempre con i bambini di questo villaggio, è avvenuto durante la mia ultima sera. Nel nostro programma di volontariato si viene considerati “nuovi” per i primi dieci giorni, durante i quali si è sempre affiancati da un volontario esperto per le attività. Tuttavia, quella sera, ero con Elena Castellani, mia compagna di viaggio, che era anche lei considerata “nuova” fino a quel giorno.

Appena arrivate, come di consueto, siamo andate nella tenda della famiglia, dove ad accoglierci c’erano solo i bambini e i ragazzi più giovani. Ci hanno comunicato che il resto della famiglia era andata a Tubas per festeggiare il fidanzamento della sorella maggiore e che sarebbero rientrati la mattina seguente. Ricordo ancora lo scambio di sguardi preoccupati tra me ed Elena, ma abbiamo deciso di farci coraggio e ci siamo lasciate andare in una risata nervosa.

Siamo rimaste più a lungo con i bambini che si sono divertiti a prenderci in giro per il mio dialetto egiziano. I palestinesi guardano spesso film e serie TV egiziane, quindi trovano il mio dialetto particolarmente simpatico. Ridere con loro mi faceva piacere, anche quando scherzavano sulla mia pronuncia o sui modi di dire egiziani.

Alla fine, il nonno è tornato qualche ora dopo, ma in un primo momento io ed Elena lo abbiamo scambiato per un colono, il che ci ha fatto prendere un bello spavento! La mattina seguente abbiamo scoperto che i bambini in realtà non erano rimasti da soli: le zie erano nella tenda accanto. Ripensandoci, abbiamo interpretato l’episodio come un modo – da parte loro – per trasmetterci un senso di forza e indipendenza.

Ci avviamo alla conclusione di questa chiacchierata e non possiamo che affrontare l’argomento delle (nostre) azioni. Partiamo da qui: in che modo, secondo lei, la presenza di operatori/operatrici internazionali è utile ai palestinesi?

Fondamentale è entrare in un’ottica di consapevolezza: non siamo lì per risolvere il conflitto israelo-palestinese, né per dire a nessuno come vivere sotto l’occupazione. Siamo lì per seguire le regole dei palestinesi, imparando anche a farci da parte quando lo ritengono opportuno. Il nostro ruolo è aiutare le persone a resistere a modo loro, ed è questa la cosa fondamentale da comprendere e rispettare.

Questo articolo vuole essere un invito a riflettere sul ruolo che ciascuno di noi, come cittadino e cittadina del mondo, ha nel promuovere la giustizia e la solidarietà per i popoli oppressi. E quindi, Sara, nuovamente una domanda difficile: cosa possiamo fare, noi, per provare a rompere il silenzio asfissiante della politica e l’apparente appiattimento dei nostri principali media sulle veline israeliane? Cosa può fare, per le persone palestinesi, chi leggerà questo articolo?

Non smettere mai di parlarne, così facendo li facciamo esistere attraverso le nostre azioni e parole.

Inoltre, ci sono molti centri e organizzazioni locali che hanno bisogno di aiuti e finanziamenti di qualsiasi tipo.

Un esempio è lo Yafa Center nel campo profughi di New Askar a Nablus che ospita circa 7000 persone ed è nato a seguito del sovraffollamento del campo di Askar. Il centro è gestito da volontarie con diverse specializzazioni tra cui l’infanzia, l’insegnamento, la psicologia e la sociologia. Ha bisogno di fondi per finanziare progetti destinati ai bambini, ai giovani e alle donne, con lo scopo di creare attività ricreative, sportive e culturali per colmare il vuoto delle infrastrutture, delle scuole e dei servizi nel campo profughi. Aiutare loro e altre realtà simili potrebbe rappresentare un sostegno molto importante.

L’ultima domanda la riserviamo al bilancio personale: a posteriori, come valuta questa esperienza?

Credo che sia una di quelle esperienze che porti con te per tutta la vita, che ti arricchiscono come persona. Già quando ero là, non vedevo l’ora di tornare e di restare più a lungo. Mi sono affezionata ai volontari – ho conosciuto persone stupende! – e alle famiglie, che mi hanno insegnato a vivere. Sono molto dispiaciuta di essermene andata e di continuare a vivere la mia vita privilegiata, mentre loro sono ancora lì a vedersi negare i diritti fondamentali. Dopo la nostra partenza, gli attacchi dei coloni e dei soldati nei dintorni della guesthouse di Bardala sono aumentati e questo mi ha dato un senso di impotenza enorme, perché non ero più lì ad aiutarli. Non riesco a pensare di non tornare.

La Cisgiordania è una terra di contrasti: speranza e disperazione convivono, così come oppressione e resilienza. Gli incontri sul campo rivelano un’umanità, quella della vita quotidiana delle persone, spesso invisibile nelle narrazioni ufficiali, nei numeri, nei rapporti, nelle agenzie di stampa, spesso persino nei reportage e nelle inchieste (superficiali).

Organizzazioni internazionali continuano a sottolineare l’urgenza di una soluzione basata sui diritti umani e sul diritto internazionale e tuttavia, le politiche espansive degli insediamenti, le violazioni sistematiche, l’apartheid e la pressochè totale impunità israeliana, insieme alla mancanza di responsabilità della comunità internazionale, perpetuano un ciclo di ingiustizia che appare una ininterrompibile.

Appare.

Non riusciremo a trovare e (far) implementare una soluzione, ma possiamo e dobbiamo continuare a parlare di Palestina, a far conoscere il genocidio in corso, a scrivere della pericolosissima (per tutta l’umanità) voragine che sta distruggendo – oltre alla popolazione palestinese – il diritto internazionale e l’universalità dei diritti umani, a divulgare la cultura e le peculiarità di un popolo oppresso, a far conoscere mezzi per aiutare in modo concreto, attraverso progetti sul territorio o appelli a supporto di pressione politica. L’importante è agire, ad ogni livello e in ogni circostanza.

Alessandro Luparello  Attivista per i diritti umani. In Amnesty Italia fa parte del Coordinamento South-West Asia North Africa (SWANA), del Gruppo di lavoro contro il linguaggio d’odio (TFHS) e di un gruppo territoriale di Palermo.

https://www.focusonafrica.info/cisgiordania-esperienza-di-volontariato-internazionale-in-supporto-alla-popolazione-palestinese

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