Disegnare il genocidio

di Stefano Casi,

casicritici, 3 ottobre 2024.   

Rappresentare il genocidio oltre la cronaca, trasportando una tragedia storica sul piano simbolico del racconto e della sua elaborazione artistica: sarebbe già un’impresa temeraria, ma se il genocidio è in corso, come quello che sta subendo il popolo palestinese, e l’autore ne è un testimone diretto, la sfida è ancora più forte, ma al tempo stesso più necessaria e potente. Quando poi l’artista, come accade con Mohammad Sabaaneh, utilizza uno strumento come il fumetto e l’illustrazione, l’obiettivo pare ancora più difficile per il disequilibrio tra l’enormità dell’oggetto e il senso di impotenza e forse anche di fragilità o addirittura futilità dello strumento. Eppure proprio il fumetto ci ha regalato nel secolo scorso una delle opere più folgoranti per riuscire a restituire il senso di orrore del massacro: dopo qualche decennio dalla fine della seconda guerra mondiale, Art Spiegelmann riuscì a dimostrare, con la sua opera dolente e spiazzante che prendeva le mosse da ricordi familiari, che proprio il fumetto poteva essere lo strumento più adatto per riuscire a comunicare alle generazioni contemporanee il baratro del genocidio e l’imperativo della memoria, fondendo la concretezza storica con l’elaborazione simbolica e la rappresentazione visionaria. Era il 1980 e il suo Maus riuscì a interpretare la tragedia del genocidio degli ebrei sotto il regime nazista intrecciando l’epopea collettiva e la testimonianza intima, attraverso il linguaggio pop del fumetto. Sembrava difficile riuscire a tornare a quella efficacia e potenza, nonostante i diversi genocidi di cui è costellata la Storia, da quello immenso per portata antropologica e storica, per numeri e varietà, dei nativi americani, a quello più concentrato del popolo armeno poco più di un secolo fa, che peraltro è stato oggetto proprio di una graphic novel di Paolo Cossi, che nel 2007 ha disegnato Medz Yeghern, il Grande Male (ed. Hazard).

Il genocidio in corso a Gaza, in perfetta e agghiacciante continuità con l’impegno di pulizia etnica, espulsione, sterminio, umiliazione e annientamento del popolo palestinese portato avanti da Israele fin dalla sua creazione nel 1948, è dunque il punto d’arrivo di una lunga storia di espulsione colonialista di un popolo dalla sua terra. E perciò qualunque suo racconto non giornalistico o storico non può prescindere da un sentimento di lunga e profonda sofferenza e rappresentazione che ha avuto molteplici e straordinari esiti nell’opera di molti scrittori, artisti, musicisti e cineasti, che a partire dalla Nakba del 1948 – primo stadio del genocidio in corso – hanno cercato di portare quel dolore e la denuncia umana e politica su un piano simbolico, in modi estremamente variegati, dallo scrittore Ghassan Kanafani al regista Elia Suleiman, per intenderci. Si tratta, come ha scritto Simone Sibilio nel suo libro Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese (ed. Q) a proposito del poeta Mahmud Darwish, di “verbalizzare l’inenarrabile”. E si tratta di farlo non come mera denuncia né come auto-terapia o lamentazione delle vittime, ma con una consapevolezza speciale, quella che definisce l’arte palestinese degli ultimi 70 anni in modo inequivocabile, riassunto nel titolo del libro di Federica Battistelli, Laura Lanni e Lorenza Sebastiani: L’arte come re-esistenza (ed. Emi). Concetto riassunto in modo ancor più eclatante ed evidente dalla celebre performance poetica di Rafeef Ziadah We teach life o dai quadri radiosi e vitali di Malak Mattar. La vita, cioè l’esistenza, è il vero centro dell’opera di scrittori, artisti, musicisti e cineasti palestinesi, in reazione alla morte e all’annullamento perseguito dagli occupanti israeliani.
Certo, è tutto chiaro e tutto logico, ma il passaggio dallo sterminio strisciante e nascosto dei decenni scorsi a quello palese della sistematica ‘soluzione finale’ di Gaza e dei pogrom in Cisgiordania di questi mesi, addirittura orgogliosamente rivendicati da ministri del governo israeliano e ampie fasce di popolazione israeliana, mette a dura prova la sfida degli autori. Mohammad Sabaaneh raccoglie la sfida affrontando frontalmente la questione nel suo libro illustrato 30 seconds from Gaza (ed. Mesogea), con una potenza visiva, poetica e politica di straordinario impatto.
Disegnare il genocidio, insomma, ha una nuova e violentissima – e al tempo stesso vitalissima – declinazione. Non siamo dalle parti della divulgazione storica di Cossi riguardo agli armeni e neanche della memoria familiare di Spiegelmann, che non aveva vissuto personalmente lo sterminio. Non stiamo vedendo sulla carta la trasfigurazione e storicizzazione di un evento del passato più o meno lontano. Sabaaneh è testimone diretto, sulla sua pelle, di ciò che sta avvenendo ora: vede, racconta, e con il suo racconto crea poesia, crea simboli, crea un immaginario che si nutre della cronaca più spietata ed effimera per diventare segno trasfigurato e permanente da condividere nell’oggi con chi ne è altrettanto testimone, volente o nolente.

Il segno poetico di Sabaaneh scaturisce proprio dalla dimensione testimoniale della sua opera. Lo avevamo visto nel precedente libro Racconto Palestina (ed. Mesogea). Quella graphic novel è di fatto un incubo kafkiano che unisce la sua autobiografia di illustratore con alcuni fatti di cronaca da varie parti della Palestina. In quel libro, l’autore si auto-rappresenta in un carcere militare dell’esercito d’occupazione (dove è stato realmente detenuto per alcuni mesi), in cui riceve la visita di un uccellino che gli riferisce alcuni avvenimenti da Gerusalemme, Gaza, Ramallah, Betlemme, che si intrecciano ai propri ricordi. Si tratta di un viaggio doloroso nel catalogo delle umiliazioni e delle atrocità compiute dagli israeliani, che documentano quel genocidio strisciante andato avanti nei decenni. La narrazione è ondivaga, scavalca i piani, si aggroviglia e si sbroglia, risucchia il lettore in un universo onirico e claustrofobico. Ma se ‘onirico’ e ‘claustrofobico’ ci paiono concetti in contraddizione, è proprio su questa contraddizione che Sabaaneh costruisce il libro: alla chiusura della prigione (e, per estensione, della Palestina occupata) si oppone il sogno, cioè la possibilità di usare la libertà interiore dell’uomo come forma di re-esistenza, capace di trasfigurare la realtà nel suo mito. Questa fluidità, narrativa e di senso, ha la sua perfetta corrispondenza in una scelta formale avvincente e altrettanto onirica e claustrofobica: il racconto si sviluppa in tavole che di volta in volta possono racchiudere più vignette o un solo quadro, per riportare un racconto o esprimere un’emozione. Pagine fitte e squarci visionari si alternano immersi in un bianco e nero – più nero, anzi bituminoso, che bianco – con disegni spigolosi, che sembrano gli incerti graffiti dei carcerati sui muri delle celle, e che interpretano e al tempo stesso sviluppano la tradizione del fumetto per agganciarsi anche a una certa sensibilità espressionista, cubista o muralista. Sono vignette e illustrazioni con la forza visiva di opere pittoriche autonome.
A definire maggiormente la qualità artistica di Sabaaneh è tuttavia proprio il piano onirico dei suoi disegni. In ogni momento spuntano soluzioni surreali di grande impatto, come il balloon ammanettato (potrebbe essere un’immagine di Jacovitti…) o lo sguardo tenero e consolatorio dell’amata tradotto come una scala che parte da un occhio e supera il filo spinato, o ancora l’impressionante trasformazione grafica di un bambino in un libro… perché la Palestina, come si legge, è “dove i proiettili israeliani trasformano un bambino in un libro di storia”. In altre parole, il racconto della Palestina, come dice il titolo italiano, sta in realtà in una dimensione metamorfica e immaginifica, dove ogni dettaglio quotidiano e concreto diventa altro: una fluidità che riflette la volatilità dell’uccellino e sembra contrastare con la staticità imposta al prigioniero (e agli altri personaggi che affollano le pagine), ma che in realtà è condivisa proprio con gli oppressi. Racconto Palestina sembra raccontare le mie prigioni o la sofferenza di un intero popolo, ma in realtà è il poema che sconfigge la violenza e l’oppressione con la fantasia e la libertà dell’artista. Con tutto il dolore e l’inchiostro nero che dilagano, ma con la consapevolezza del valore assoluto dell’espressione artistica.

La nuova impresa grafica di 30 seconds from Gaza sviluppa il discorso in modo inatteso, portando a esiti ancor più estremi le scelte espressive che, sempre in un drammatico bianco e nero, fanno della trasfigurazione surreale, simbolica, allusiva, metamorfica, il registro pressoché esclusivo. Inattesa è invece la scelta narrativa. Sabaaneh decide di non aggiungere un racconto allo stillicidio dei racconti quotidiani che dall’ottobre 2023 documentano il genocidio, ma di aderire alla fragile ed effimera testimonianza visiva che rappresenta forse una delle caratteristiche storicamente più originali di questa tragedia dal punto di vista mediatico. Dall’inizio dello sterminio, infatti, al contrario di altri genocidi citati all’inizio, il mondo ha potuto osservare in diretta quanto stava accadendo (salvo decidere di disinteressarsene o addirittura di sostenere l’aggressore…) attraverso una quantità significativa e sconvolgente di materiale video arrivato grazie alle registrazioni con gli smartphone, che hanno mostrato crimini contro l’umanità così come storie intime e personali. I 30 secondi del titolo si riferiscono proprio al tempo medio di quei video arrivati in qualche modo tramite i social da quella tonnara umana che è da un anno Gaza. Sabaaneh ha scelto 92 video, fissando per ciascuno di essi un’immagine (e spesso un titolo), e riportandola in disegno, fino a dispiegare una serie di screenshot in formato quasi sempre quadrato – tipo Instagram –, che racchiudono in quel fermo-immagine il senso di ogni singolo video.
Ma naturalmente non si tratta di illustrare qualcosa che abbiamo già visto o che potremmo vedere, bensì di catturarne l’essenza poetica più profonda, fissando nella pagina non il documento ma l’eco di quel documento nel cuore di chi osserva. Ed è sempre un’eco straziante e indimenticabile, un inventario del dolore e dell’umanità calpestata, che al fondo però mantiene l’aspirazione insopprimibile alla vita. E così, il video con la madre che abbraccia la bara dei suoi figli si trasforma in lacrime versate su fiori recisi; il bambino che piange all’ospedale si trova, nel disegno di Sabaaneh, al centro di un vortice di segni come un pesce, un fiore, una tenda, una valigia e un uccellino; la madre che nel video cerca suo figlio, qui moltiplica il suo volto mentre un puzzle con il viso del bambino sta andando in pezzi; e così via. Ogni disegno è un vortice di segni grafici e di emozione, che richiama il lettore a una visione attenta: il fermo immagine non va ‘scrollato’ o ‘swippato’ rapidamente come su Instagram o Tik Tok, ma richiede attenzione a ogni minimo tratto. E in quell’attenzione dedicata, in quel tempo passato su ciascuna immagine è come se si ricostituisse il valore di una pietas sempre più urgente per riconoscere un’umanità che parrebbe svanita.
Alla fine del libro, sommersi da tanto dolore e con il bisogno di tornare a respirare umanità, l’autore aggiunge tre tavole preceduta dal titolo Hope. Una breve storia di speranza: un padre e un bambino si perdono di vista durante l’assalto dei carri armati a un campo di tende, finché non si ritrovano. La speranza è un abbraccio, quello fisico del padre e del figlio al termine del libro, quello del nostro sguardo e del nostro cuore verso le 92 microstorie che sono riuscite a rappresentare l’inenarrabile.

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Mohammad Sabaaneh, Racconto Palestina, trad. Enrica Battista, ed. Mesogea, 2023, pp. 136, euro 22.
Mohammad Sabaaneh, 30 seconds from Gaza, trad. Enrica Battista, prefazione di Ilan Pappé e Nadia Naser-Najjab, ed. Mesogea, 2024, pp. 112, euro 22.https://casicritici.com/2024/10/03/disegnare-il-genocidio/

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