MicroMega, 4 Ottobre 2024.
Fra torsioni autoritarie e débâcle politiche la vicenda dei cortei per la Palestina testimonia di una situazione difficile in Italia.
5 ottobre 2024, storia di una manifestazione per la Palestina che non s’ha da fare, che – al momento in cui scriviamo – non c’è ancora stata, eppure rappresenta quel non-evento che è già diventato un evento, in grado di produrre conseguenze e di manifestare realtà. Due realtà in particolare: la torsione autoritaria già in atto in questo paese senza che ancora neanche sia stato approvato il Ddl Sicurezza che la renderà legge di Stato, e il livello di disfacimento politico, etico e organizzativo delle realtà della sinistra italiana, oltre che, in questo caso specifico, delle comunità palestinesi in Italia. Fra queste due realtà c’è una profonda connessione, perché se la torsione autoritaria è mirata (anche) a colpire la capacità di azione politica delle opposizioni, è molto (anche) grazie alla mancanza di azione politica delle opposizioni, largamente intese, che ci ritroviamo a dover fare i conti con la torsione autoritaria.
Storia di una manifestazione, storia di responsabilità. E di irresponsabilità.
Tutto comincia quando la questura di Roma si trova a dover gestire due parallele richieste di manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, per la data del 5 ottobre. Un sabato, come sempre. Siamo vicini all’anniversario dell’operazione Al Aqsa Flood – il nome ufficiale dell’attacco di Hamas del 7 ottobre – che ha inaugurato un anno di devastazioni in Medio Oriente. Prima l’attacco ai kibbutz israeliani e al Festival musicale Nova e la carneficina di quel giorno; la risposta israeliana di sterminio, pulizia etnica e devastazione, di Gaza e della Cisgiordania, rivolta contro i palestinesi tutti; e infine l’attacco al Libano e l’invasione di terra nel Sud, non senza provocazioni rivolte direttamente all’Iran, nella speranza di suscitare una reazione bellica da parte loro e ottenere così, finalmente, la grande guerra apocalittica che è nei piani del messianesimo al potere.
Perché due richieste diverse di manifestazione, per quel giorno? Ciascuna è arrivata da settori di associazioni palestinesi. La prima, dalle Comunità palestinesi in Italia, associazioni attive su base regionale, che hanno fatto una richiesta su una piattaforma molto semplice: “Cessate il fuoco; stop al genocidio; stop ai bombardamenti israeliani in Libano; per la fine dell’occupazione israeliana in Palestina”, come ha confermato Yousef Salman, presidente della comunità palestinese di Roma e del Lazio, a MicroMega. È una piattaforma molto poco pubblicizzata, difficile da trovare online. Le comunità che hanno fatto richiesta di questa piazza sono poco attive sui social media, di più nella costruzione di relazioni sui territori, attraverso festival, incontri e iniziative culturali. Più facile da trovare, e ben più lunga e articolata, è la piattaforma della seconda manifestazione richiesta per il 5 ottobre, da parte di altri gruppi: I Giovani Palestinesi d’Italia, attivi soprattutto a Milano; e l’UDAP, Unione democratica arabo palestinese. Si dice: “Pretendiamo che lo Stato italiano si ritiri dall’aggressione genocida in Palestina”, spiegando in modo articolato cosa si intende per “ritiro”, e poi una serie di altre richieste in cui si rimarca “la necessità dell’unità nazionale palestinese sulla base della resistenza contro l’occupante” e il supporto incondizionato alla resistenza palestinese.
Fin qui, siamo di fronte a due fazioni diverse della comunità palestinese, divise fra loro sia dai rapporti politici con le fazioni in Palestina, sia dagli approcci all’idea di resistenza, sia da frazionismi e settarismi che accompagnano la lunga storia della sinistra da sempre: qualcuno ricorderà il “Fronte popolare di Giudea” di uno degli sketch più divertenti del geniale collettivo dei Monthy Python.
Perché allora il divieto? Il ministro Piantedosi lo aveva giustificato, prima che divenisse ufficiale, dicendo che non si potevano consentire manifestazioni “contenenti un chiaro ed esplicito invito alla celebrazione di un eccidio”. Il riferimento era a un post su Instagram del gruppo “Giovani Palestinesi d’Italia” in cui si legge chiaro e tondo “Il 7 ottobre è la data di una rivoluzione” e prosegue: “Dopo un anno, il valore dell’operazione della resistenza palestinese e della battaglia del Diluvio di Al Aqsa è chiaro a tutto il mondo”.
Una rivendicazione violenta innanzitutto perché ridicola, e fuori dalla realtà. Di quale mondo parlano i Giovani palestinesi? Ciò che è chiaro dopo il 7 ottobre è che Gaza è stata rasa al suolo, e come città non esiste più; che sono morte 40mila persone come cifra ufficiale, oltre 200mila come cifra molto più probabile, fra cui una percentuale di bambini mai così alta in così poco tempo nella storia di tutti i conflitti mondiali; che la Cisgiordania è più oppressa di prima, che il Libano ha già iniziato a pagare il suo prezzo per la volontà espansionistica di Israele. Ma anche solo rimanendo al 7 ottobre in quanto tale: quale rivoluzione ha vinto, che idea di rivoluzione hanno questi giovani, se persino Hamas stesso ha dovuto ammettere che si è trattato di una operazione in cui a un certo punto gli stessi miliziani hanno perso il controllo della situazione? Di quali fossero i reali obiettivi dell’operazione l’opinione pubblica non è stata mai messa al corrente dai vertici dell’organizzazione. Non è mai stato spiegato, per esempio, da Hamas, se l’assalto ai kibbutz, il rapimento e l’uccisione di civili, alcuni dei quali neanche di cittadinanza israeliana, facessero parte del piano dall’inizio oppure no. Sta di fatto che si è trattato di un atto terroristico che ha colpito la popolazione civile, non solo quella militare, contravvenendo così a tutte le regole del diritto internazionale che ammettono sì la lotta armata come forma di resistenza, ma solo se rivolta alle strutture dello Stato oppressore, non alle sue popolazioni civili.
Tant’è. Forse il vero problema è che le critiche a quel post sarebbero dovute piovere da sinistra, nell’esercizio di un dovere del dissenso leale e franco che consentisse, dopo un anno, di aprire un dibattito quanto mai necessario sul “valore” delle resistenze e della resistenza, su cosa è resistenza e cosa non lo è, sulla situazione sociale e politica in Palestina e sulle divisioni e lacerazioni interne al mondo palestinese stesso. Se non lo si è fatto è stato per un malinteso senso del lemma “chi lotta decide”, ovvero che spetterebbe solo ai palestinesi stabilire il come e il perché della propria resistenza. Se ci fosse anche solo un grammo di verità in questo lemma, la sinistra non sarebbe mai esistita in quanto tale, giacché l’internazionalismo socialista si è sempre costruito sulla base di una compartecipazione alle lotte da ogni luogo del mondo, non solo in armi, ma anche e innanzitutto nel pensiero. E questo pensiero, se non è anche critico, non è più pensiero, come abbiamo imparato da Rosa Luxemburg.
Invece a sinistra è prevalso il silenzio, e la critica è stata lasciata interamente alle destre, alla comunità ebraica italiana connotata ormai solidamente per un’adesione organica all’estrema destra, nei mezzi e nei fini, e alla stampa liberale estremista, che in questo Paese gode di ottima salute, anche grazie ai copiosi finanziamenti pubblici che riceve. Queste pressioni, secondo molti, sono state alla base della decisione di vietare le manifestazioni del 5 ottobre, mettendo così in un unico calderone entrambi i cortei. Una decisione confermata dal neoquestore di Roma Roberto Massucci, insediatosi appena un giorno fa, e dal TAR del Lazio al quale l’UDAP aveva fatto ricorso, contestando il divieto. L’allerta per il 5 ottobre è dunque massima, da parte della questura. Perché una manifestazione in ogni caso, hanno fatto sapere alcuni gruppi palestinesi, ci sarà, nonostante un divieto considerato – a ragione – illegittimo.
A ragione, perché come spiega bene Amnesty International in un suo comunicato, “Possibili atti o espressioni di odio antisemita, che vanno condannati nella maniera più netta, non possono essere attribuiti anticipatamente e automaticamente alla maggioranza se non addirittura alla totalità della protesta. Lo stesso vale per eventuali messaggi individuali di incitamento alla violenza. Gli standard internazionali, infatti, specificano che le restrizioni necessarie dovrebbero essere basate solo sul tempo, il luogo o le modalità di una riunione, senza tener conto del messaggio che essa cerca di trasmettere, in base al principio secondo cui le restrizioni devono essere “neutrali rispetto al contenuto”. Non è dunque ammissibile che un post su Instagram, per quanto esecrabile lo si ritenga, configuri una allerta tale da legittimare il divieto di manifestare alla collettività tutta, colpendo ogni cittadino. Non è la prima volta che succede, tuttavia, con i palestinesi. Anche il 27 gennaio scorso fu negato il diritto di manifestare, con una decisione a sua volta piuttosto discutibile sul piano del diritto.
In un momento in cui il Ddl Sicurezza 1660 già approvato alla Camera rischia, proprio su questo terreno, di operare una torsione autoritaria tale da rendere reato ogni forma di disobbedienza civile, non stupisce che molte organizzazioni, in queste ore, stiano prendendo la decisione di scendere comunque in piazza il 5 ottobre prossimo, nonostante il divieto. È il caso per esempio di Rifondazione Comunista, il cui segretario Maurizio Acerbo ha scritto in un comunicato che il 5 ottobre saranno in piazza “per denunciare l’incostituzionalità del divieto di manifestare imposto alla Comunità palestinese. Comunicati o slogan discutibili di singoli gruppi comunque non giustificano il divieto essendo legittimo sostenere la resistenza palestinese. Se si usa questa logica dovrebbero essere vietate tutte le manifestazioni a sostegno di Israele.”
Eppure, ancora una volta, anche sulla piazza del 5 ottobre le comunità palestinesi si sono divise. Mentre le già citate Udap e i Giovani Palestinesi saranno in piazza, le Comunità palestinesi d’Italia, il Movimento degli studenti palestinesi e l’Associazione palestinesi in Italia hanno deciso di indire una seconda manifestazione, per il 12 ottobre prossimo, con le stesse consegne di quella originaria. Nessuna risposta unitaria, dunque, da parte delle comunità palestinesi, che sono distanti fra loro non solo per appartenenze politiche, ma anche per visioni strategiche e meramente tattiche, vale a dire relative alla politica di ogni giorno. “Noi non intendiamo violare il divieto della questura anche se lo riteniamo profondamente sbagliato”, sono le parole, di nuovo, di Yousef Salman. “Quello di manifestare è un diritto democratico fondamentale. Gli eventuali illeciti fanno capo agli individui, in uno Stato di diritto. Non è ammissibile che le esternazioni di qualcuno, ma anche gli atti violenti di un individuo all’interno di una manifestazione abbiano come conseguenza colpire una comunità intera o la cittadinanza intera, non è democrazia”. No, infatti non lo è, e a dirla tutta somiglia, in piccolo, alla stessa logica che adotta Israele nei confronti dei palestinesi: per gli atti di qualcuno sono colpevoli tutti.
Se elementi di punizione collettiva si infiltrano nella vita democratica italiana, siamo tutti in pericolo. Dunque è più che comprensibile che il 5 ottobre tante sigle e associazioni oltre a tanta gente comune, sia intenzionata a un atto di disobbedienza pacifica contro un’imposizione che spiana la strada a un autoritarismo dalle conseguenze imprevedibili. Rimane però un grande elefante nella stanza, ovvero le divisioni politiche di merito interne al mondo palestinese e solidale con il mondo palestinese: il mondo di quella che un tempo si sarebbe chiamata sinistra. Divisioni che sussistono, che trapelano a mezza bocca dai comunicati, come quelli di Forum Palestina, di Assopace Palestina, della stessa Rifondazione Comunista e di altre realtà, ma che non si fanno mai discussione aperta, alimentando in questo modo ancora più confusione fra le persone comuni che, seppur volessero manifestare la loro solidarietà individuale con il popolo palestinese di fronte a un massacro di proporzioni inaudite come quello che sta subendo in questo momento, fanno grande fatica a trovare punti di riferimento chiari, anche a fronte di questioni molto serie, ineludibili, come la posizione da assumere nei confronti di un terrorismo che fa vittime civili, o come il concetto stesso di resistenza, di lotta, di rivoluzione. Tutte questioni che dovrebbero animare vivaci scambi e dialoghi per la comprensione reciproca, e che invece diventano tabù, coprendosi, come accennavamo prima, dietro la soggettività palestinese per non affrontare nodi scoperti del pensiero della sinistra, innanzitutto. È certamente vero, come ha spiegato Luisa Morgantini a MicroMega, che “Se nessuno ferma il genocidio in corso, se non interviene nessuno per fermare Israele, la società palestinese purtroppo si schiererà sempre di più con chi osa ribellarsi” attraverso le armi, e che in molte zone della Cisgiordania le giovani generazioni sono sempre più sensibili al richiamo delle armi e della resistenza armata e dunque all’arruolamento con Hamas o con altre realtà a questo scopo preciso. Da sempre lo sostengono studiosi come Ilan Pappé e tanti altri: è un errore, figlio dell’eurocentrismo, credere che il sostegno ad Hamas in Palestina sia basato innanzitutto sull’adesione al loro progetto religioso-politico. Esso è in realtà legato all’idea, o meglio all’idealizzazione di una visione della resistenza come gloriosa, che fa presa su tanti, anche fra le generazioni più giovani, perché offre quantomeno una strada di ribellione, una strada che non sia una resa, come quella che invece molti identificano nelle movenze dell’Associazione nazionale palestinese, l’autorità creata dopo gli accordi di Oslo che in Cisgiordania di fatto, secondo l’accusa di molti palestinesi, contribuisce a mantenere l’ordine caro a Israele, non alla causa del popolo. Meglio morire martiri che collaborazionisti: questa è una delle regole etiche di tanti resistenti palestinesi.
Questa idealizzazione gloriosa di una prospettiva di morte è figlia della terribile scomparsa di un qualsiasi orizzonte possibile non solo di pace, ma anche solo di vita dignitosa sotto il giogo di Israele. “Il dramma è che il potere politico e militare israeliano è talmente sproporzionato che sta massacrando tutti, anche in Cisgiordania”, spiega di nuovo Morgantini, e questo fa sì che in Palestina “esistere e resistere siano un tutt’uno”, ma anche che ogni resistenza sia alla fin fine la forma che prende una disperazione. Sarebbe compito della sinistra, un compito storico ineludibile, aprire orizzonti praticabili di speranza, prospettive di liberazione per il popolo palestinese che abbiano come fine la vita libera dall’oppressione, non soltanto la morte nella gloria della resistenza. Se questo non avviene, se nessuna sinistra si assume questa responsabilità – a partire da quella più popolare, da un Partito democratico che non è in grado di orientare nessuno su questo argomento a cominciare dalla sua stessa leader più disorientata che mai, o dagli altri partiti di opposizione o dalla CGIL, vergognosamente silente da un anno su quanto accade in Palestina – succede che prendono visibilità, anche perché dargliela fa molto comodo alla destra e alla propaganda filosionista, solo quelle realtà ultraminoritarie della galassia rossobruna, come i CARC o altre, ancorate all’immagine fuori tempo massimo di una “Palestina rossa” che serve solo a riempire gli ego di qualche pesce in barile, non certo può tracciare credibili strade di resistenza per un popolo, e men che meno di rivoluzione. Realtà che glorificano personaggi come Chef Rubio, animati più da antisemitismo che da antisionismo, o pusillanimità come l’esibizione di cartelli contro Liliana Segre. Ovviamente neanche Segre, come nessuno, è esente da critiche, ma prendere a bersaglio una donna ultranovantenne sopravvissuta ai campi di concentramento suona davvero come un atto di viltà e vigliaccheria.
Sabato alle 14 l’Udap e i giovani palestinesi spiegheranno le ragioni del loro corteo disobbediente al divieto in una conferenza stampa all’aperto. Il questore neoarrivato ha promesso dialogo e una attività di mediazione costante. Potrebbero giungere provocazioni dalle realtà sioniste, crearsi scontri fra forze di polizia e manifestanti, potrebbe non accadere nulla di tutto questo, come ci auguriamo. Tutta questa vicenda rimane lo specchio, in ogni caso, oltre che dell’evidente autoritarismo già in azione da tempo in Italia così come in altri paesi d’Europa, di un serio fallimento politico che è innanzitutto dovere delle sinistre, tutte, assumere come tale, per poter ripensare la solidarietà col popolo palestinese su basi rinnovate, tali da renderla davvero popolare e aperta al coinvolgimento e alla partecipazione di ampie fasce della società, come avviene in molti altri paesi d’Europa. Il settarismo, le ambiguità, le resistenze a discussioni franche e leali non fanno che allontanare le persone, anche dalle cause più giuste. E in questo momento non esiste forse causa storica più giusta che la solidarietà con i popoli che stanno subendo lo sterminio di Israele.
Giornalista, redattrice di MicroMega.
Analisi lucida, chiara e ben argomentata della situazione di contesto della manifestazione di oggi, 5 ottobre 2024, e delle responsabilità della sinistra italiana, PD in primis. Avrei visto bene anche una più estesa disamina delle responsabilità internazionali (non è un caso che nessuno degli stati del G7 ha riconosciuto lo stato di Palestina) e dei media di casa nostra.