Cosa significa la distruzione della Grande Moschea di Omar da parte di Israele

di Kate Wagner,

The Nation, 24 gennaio 2024. 

Sì, è un crimine contro il patrimonio culturale. Ma soprattutto, fa parte di una campagna di annientamento totale.

A sinistra: la Moschea di Omar a Gaza City dopo il bombardamento israeliano. A destra: Un uomo palestinese che legge nel cortile della stessa moschea, la scorsa primavera. (Mohammed Abed / Getty)

Se si guardano le immagini di Gaza oggi, invece di città in cui vivevano migliaia di persone, si vedono solo macerie. I resti delle case e degli edifici giacciono sparpagliati in giro, maciullati in modo irriconoscibile. Negozi, ospedali, scuole, università, edifici religiosi, antichi o nuovi (ormai fa poca differenza): tutti sono stati ridotti a cumuli irrecuperabili di sassi e acciaio, alcuni bombardati in modo irriconoscibile, leggibili ormai solo nei ricordi di chi li ha conosciuti. Esiste una parola per indicare quando edifici e città vengono distrutti nell’ambito di una campagna di pulizia etnica: “urbicidio“. È una tattica usata per assicurarsi che non rimanga nulla a cui tornare, nulla che possa essere amato o a cui aggrapparsi. Il suo obiettivo è una colonizzazione totale del paesaggio che cancella tutto ciò che c’era prima.

Da quando Israele ha iniziato l’assalto a Gaza sulla scia dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, una delle vittime architettoniche più devastanti è stata una moschea storica e secolare. Costruita inizialmente come chiesa bizantina nel V secolo, divenne nota come Grande Moschea di Omar nel VII secolo, la prima moschea in assoluto a Gaza durante il periodo dell’islamizzazione. La posizione strategica di Gaza sulla costa le ha permesso di essere testimone di molti cambiamenti: i crociati dell’XI secolo convertirono la moschea in una chiesa, che fu nuovamente convertita in moschea un secolo dopo. La regione ha resistito a molti conflitti, avendo svolto un ruolo importante in molti imperi diversi.

“Gaza era in realtà una città considerevole sotto i Bizantini e, prima di loro, i Romani, ed era un centro [politico]… per l’Impero Mamelucco tra il XIII e il XV secolo. Ed è allora che probabilmente raggiunse il suo massimo livello di potere amministrativo”, mi racconta Nasser Rabbat, direttore del Programma Aga Khan per l’Architettura Islamica del MIT. “Gaza era il luogo in cui l’esercito [mamelucco] si riuniva per fare le campagne nel nord della Siria, nella regione dell’Eufrate o in Anatolia contro i suoi numerosi nemici”.

La Grande Moschea di Omar rifletteva questa storia. È stata danneggiata e ricostruita molte volte nel corso dei secoli: attaccata dai Mongoli nel XIII secolo, colpita da un terremoto pochi decenni dopo, restaurata e ampliata in epoca Ottomana e parzialmente distrutta dalle bombe britanniche nella Prima Guerra Mondiale, per poi essere nuovamente restaurata. Ora è stata di fatto cancellata; rimangono solo alcune mura e un minareto. Si tratta – sia chiaro – di un atto deliberato della campagna israeliana per cancellare ogni traccia di vita palestinese.

Dopo la notizia della sua distruzione, diversi tweet che sono diventati virali hanno paragonato l’ampio clamore per l’incendio del 2019 che distrusse parte della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi con il relativo silenzio per la perdita della storica moschea. È indubbio che questo sia sintomatico dell’islamofobia e dell’ignoranza della cultura islamica in Occidente. Ma c’è un punto più profondo da sottolineare sulle perdite architettoniche dovute alla guerra. Notre-Dame, dopo tutto, è un caso unico: È molto famosa nella cultura popolare di massa (sono pochi gli edifici su cui è stato girato un film della Disney) e l’incendio è stato un semplice incidente, non un atto deliberato di demolizione.

Nel frattempo, abbiamo vissuto almeno un secolo di retorica associata a continui episodi di distruzione di massa. Se l’incendio di Notre-Dame è stato il risultato di un incidente, la guerra – pur essendo sempre un distruttore dell’ambiente costruito – è stata sempre più vista come una ragione legittima per la distruzione architettonica. I palesi attacchi ai siti del patrimonio culturale sono giustificati con una terminologia da Guerra Fredda come “attacco preventivo” o “nell’interesse della sicurezza nazionale”. La svalutazione della cultura tangibile, ovviamente, si basa sullo stesso trattamento riservato alle persone che l’hanno costruita: come perdite tragiche ma necessarie. Gli edifici e le persone sono entrambi denudati, spersonalizzati, ridotti a statistiche. Al momento in cui scriviamo, i morti a Gaza sono ventitremila. La Grande Moschea di Omar aveva quasi 1.500 anni. Queste cifre ci abituano all’orrore della distruzione, mentre i numeri diventano sempre più grandi e insondabili, astratti.

In tempi di guerra, ci aggrappiamo all’arte, all’architettura e ad altre forme di cultura per molte ragioni: per dimostrare che le cose e le persone sono importanti, che la cultura è destinata a durare, che lo sventramento di qualcosa di inestimabile è un crimine vergognoso. Siamo sconvolti da perdite come quella della Grande Moschea di Omar non solo perché sono terribili e tristi, ma anche perché credevamo che chi è al potere potesse avere più rispetto per l’arte e per la storia ritenuta legittima dalle proprie istituzioni che per la vita umana. Ma, naturalmente, non è così: se la vita umana non vale nulla, allora non vale nulla nemmeno l’architettura, che è il risultato cumulativo e la testimonianza di innumerevoli vite umane. In una campagna di urbicidio, nulla ha importanza. L’obiettivo finale è una tabula rasa.

Non tutti gli edifici sono storici o di valore inestimabile, ma in un certo senso ognuno è insostituibile. La perdita di un edificio che dava riparo o nutrimento spirituale alle persone, che faceva da sfondo alla vita quotidiana e alla stabilità, è terribile. La distruzione della Grande Moschea di Omar non è molto diversa da quella di un complesso di appartamenti: lo stesso crimine viene commesso contro le stesse persone per lo stesso motivo. La distruzione di entrambi gli edifici deve essere vista nel contesto dell’urbicidio e della pulizia etnica, non separando i crimini contro il patrimonio culturale dagli inevitabili danni collaterali al paesaggio durante un conflitto. La distruzione di entrambi è una scelta compiuta da Israele con l’aiuto e il sostegno degli Stati Uniti. Il massacro dei palestinesi e lo sventramento dei loro siti culturali fanno parte dello stesso obiettivo di distruzione, che dobbiamo fare tutto il possibile per fermare.

Kate Wagner è critica di architettura di The Nation e giornalista a Chicago e a Lubiana, Slovenia.

https://www.thenation.com/article/world/great-omari-mosque-urbicide-gaza/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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3 commenti su “Cosa significa la distruzione della Grande Moschea di Omar da parte di Israele”

  1. Il capitalismo che raccoglie ed associa le industrie belliche di tutto il mondo è il responsabile occulto di tutte le guerre. Siamo tutti complici e lo saremo fin quando godremo dei “dividendi” di cui anche inconsciamente godiamo.

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  2. Io nella moschea di Omar vedo solo la guerra che faceva il califfo. Usava le moschee come simbolo di vittoria e conquista. Il Califfo ha costruito anche la moschea sopra il territorio del tempio d’israele, come simbolo per sopraffare la storia d’Israele. Ha sfruttato la situazione e si è impadronito del territorio per calpestare una storia e architettura ancora più antica di esso.
    Cmq andiamo in ordine:
    Prima dei romani, quel territorio era un territorio ebreo. I romani con a capo imperatore Tito Flavio Vespaiano fecero guerra agli ebrei bruciarono il tempio di Salomone e ne scacciarono la maggior parte di ebrei da quelle terre. Dopo l’assedio, Tito diede il nome a tutta quella terra in Siria Filistea per ripicca verso gli ebrei. Cmq non ho mai capito perché continuano a chiamarla ancora Palestina quando è sempre stata Israele. Questa storia mi ricorda il popolo arbëresh immigrato in Italia nel XVI (d.C.) che si piazza in Calabria. Quel territorio anche se sono passati quasi V secoli, rimane calabrese ed sempre Calabria. Così anche con Israele, tutto quel territorio è israelita anche se in quel territori sono andati a vivere nomadi di altri popoli. Non perché gli arbëresh hanno costruito chiese ortodossa e case, quel territorio cambia nome e storia. Oggi giorno voi volete cambiare la storia d’israele con queste cose.
    Io sono d’accordo che la Palestina di Striscia di Gazza dev’essere uno stato autonomo ma questa autonomia non deve annientare Israele come storia, come geografia e come popolo.
    Io odio la guerra perché porta solo morti e distruzione. Però diamo a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio.

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