Israele, viaggio tra i refusenik: “Rifiutare è il minimo che possiamo fare”

Lug 29, 2023 | Notizie

Micol Meghnagi e Mosè Vernetti,

MicroMega Edizioni, 28 luglio 2023. 

Quello dei refusenik, i giovani obiettori di coscienza, è un fenomeno che si presenta a varie ondate nella società israeliana. Il governo e l’esercito cercano di sminuirne la portata politica, riducendolo a scelte di carattere personale, spesso legate alla salute mentale. In questo reportage tra i giovani refusenik israeliani, le motivazioni vengono rivelate da loro stessi. E sì, hanno tutte una portata profondamente politica.

 (Israele) Tel Aviv, “bolla liberale”, concordano i detrattori e i devoti, città LGBTQ+ e centro metropolitano dell’eccesso. Capitale epicurea dove, sotto un sottile velo di tolleranza e inclusione, divampa lo spettro dell’occupazione. Ogni sabato, da oltre sei mesi, si riversano per le sue strade centinaia di migliaia di persone. “Vergogna, vergogna! Democrazia, Democrazia!” sono le parole d’ordine. Protestano contro il nuovo Governo e in difesa del potere giudiziario. Volano fiere nel cielo bandiere arcobaleno.

Circa mille israeliani e palestinesi, cittadini di Israele, all’angolo fra Via Kaplan e via Leonardo da Vinci, formano il blocco contro l’occupazione. Ricordano alla folla esaltata che “non c’è democrazia con l’occupazione”. Qualcuno si ferma, si aggrega, domanda, ma i più aggrediscono, insultano e minacciano al grido di “siete dei traditori!”. Tra i giovani che alzano la bandiera palestinese incontriamo Yeheli, Yuval e Einat.  Hanno tra i 19 e i 22 anni e sono i refusenik, obiettori di coscienza che si rifiutano di arruolarsi nell’esercito israeliano.

“Il blocco chiede la liberazione queer dal fiume al mare!”, urla Yeheli attraverso un megafono ricoperto di adesivi del Partito Comunista ebraico-arabo Hadash. E ancora: “La nostra è una lotta contro l’occupazione e le ingiustizie che danneggiano direttamente la comunità queer, come il ricatto da parte dei militari israeliani ai danni dei palestinesi LGBTQ+”. Yeheli è il coordinatore di Mesravot, una delle più importanti ONG che sostengono gli obiettori di coscienza. Giovanissimi che mettono in discussione l’intero sistema dove sono nati e cresciuti. Condizione esistenziale che manda in cortocircuito qualsiasi individuo opinato che chiuda gli occhi di fronte alle violenze dell’occupazione israeliana.

La leva militare è obbligatoria per la maggior parte degli Israeliani ebrei, sia uomini che donne, e il rifiuto di arruolarsi, senza l’approvazione dell’esercito, è un reato punibile. Gli obiettori di coscienza sono in genere processati presso il Centro di reclutamento e condannati a pene detentive tra i 10 e i 21 giorni. Una volta rilasciati, sono chiamati a tornare al Centro di reclutamento dove, se rifiutano nuovamente di arruolarsi, vengono incarcerati per diversi mesi (o anni) finché l’esercito non decide di congedarli.

I refusenik non sono gli unici giovani israeliani a non prestare servizio. “Spesso Israele concede l’esenzione per ragioni di salute mentale – ci confida Yeheli, mentre ci dirigiamo verso la sede di Hadash nel sud di Tel Aviv – anche perché se il rifiuto venisse politicizzato in massa crollerebbe il castello di carta sui cui si fonda la nostra società. Siamo permeati da una cultura del sacrificio. Tutti devono sacrificarsi per essere socialmente accettati. Se ti rifiuti e rivendichi la tua scelta il prezzo che paghi è altissimo”.

Ci accoglie Islam, attivista palestinese con passaporto israeliano. La sede del partito è tappezzata di scritte in ebraico e in arabo.  “Basta occupazione!”. “Palestina libera!”. E ancora: “Diritti per tutte e tutti!”. Nel piccolo salotto al terzo piano svolazza una bandiera della FIOM-CGIL. ”Ce l’hanno regalata dei compagni italiani qualche anno fa”, ci dice Yuval.

Yuval ha 19 anni ed è appena stato rilasciato dal carcere di Tel Aviv, dove è entrato per la prima volta il 20 marzo di quest’anno per aver rifiutato espressamente di voler servire l’esercito israeliano e le sue politiche di occupazione. ”Non ho un passato da attivista”, racconta, ”il primo passo è stato rifiutare di arruolarmi. Qualche tempo fa mi sono imbattuto in un video in cui veniva mostrata, nero su bianco, l’occupazione militare israeliana. Ricordo che ne rimasi profondamente infastidito… La verità mi infastidiva. Mi sentivo ferito e arrabbiato e queste emozioni contrastanti mi hanno spinto a documentarmi su giornali indipendenti palestinesi e israeliani. Una volta che vedi le cose in profondità non puoi più tornare indietro. Arruolarsi nell’esercito significa sostenere un’agenda militare ben precisa, ma soprattutto prendervi parte. Rifiutare è il minimo che possiamo fare. Grazie al supporto di Mesravot ho reso la mia scelta pubblica, perché voglio dimostrare che un’altra via è possibile”.

”Mesravot è una rete fondamentale per i giovanissimi che scelgono di rendere pubblico il loro rifiuto”, aggiunge Einat, 20 anni, che ha scontato in totale 182 giorni di carcere. ”L’obiezione di coscienza è un fenomeno piuttosto silenzioso: mi ci è voluto un po’ per scoprirlo. Durante le proteste contro il cambiamento climatico, ho legato con delle ragazze palestinesi cittadine di Israele. Questo mi ha spinto a pormi delle domande e ad andare al di là del racconto sionista con cui sono cresciuta. Ho capito che non avrei potuto servire in un esercito che da decenni si macchia di crimini di guerra. Non dobbiamo dare nulla per scontato… Ecco perché per me è stato importante farlo in modo pubblico piuttosto che trovare altre strade per uscire dall’esercito”.

”Viviamo una vita alienante… L’IDF è parte integrante del nostro tessuto sociale, criticarlo o rifiutarlo significa in qualche modo uscire dalla società”, ci racconta Yeheli mentre prepara un caffè e rolla una sigaretta. ”Con Mesravot organizziamo workshop di apprendimento per i giovani liceali nella West Bank, soprattutto nell’area delle “South Hebron Hills. La solidarietà si manifesta attraverso pratiche quotidiane. Da quando ho rifiutato di arruolarmi, trascorro la maggior parte delle mie giornate a Masafer Yatta e nella Valle del Giordano. I leader sono i nostri partner palestinesi. Noi rispondiamo alle loro chiamate… Per esempio, quando serve presenza protettiva o scudo umano di fronte a una casa in demolizione. Siamo anche noi vittime del sistema israeliano? Certamente. Ma attenzione: sono sempre i palestinesi a pagare il prezzo più caro dell’occupazione. Io nella West Bank rispondo alla legge civile, i palestinesi a quella militare. Come lo volete chiamare questo se non apartheid? Lasciatemi dire che non capisco che cosa aspetti la comunità internazionale ad intervenire”. E con un velo di amarezza, conclude: ”Io non ho un altro posto dove andare. Ogni tanto leggo frasi che ci invitano a tornare in Europa. Non sanno che oltre la metà della popolazione israeliana è figlia di profughi. Io non ho un altro passaporto. Come facciamo a tornare in Yemen, in Iran, in Iraq, in Afghanistan, in Libano o in Libia? E cosa ne sarà di chi è scappato dalle persecuzioni e pogrom europei quasi un secolo fa? Ma poi, siete sicuri che creare una nuova ondata di rifugiati sia un’alternativa percorribile o perlomeno realistica? In questa terra c’è spazio per tutti. Però non c’è pace senza giustizia. Anche i profughi palestinesi hanno il diritto al ritorno. Dobbiamo combattere il suprematismo. La nostra è una lotta per i diritti di tutti e tutte, dal fiume al mare”.      

Sono le tre di notte passate. I giovani refusenik devono partire tra qualche ora in direzione Valle del Giordano, nella cosiddetta zona C della West Bank occupata. Qui l’espansione coloniale israeliana ha relegato la popolazione palestinese a minuscoli fazzoletti di terra sotto costante minaccia di evacuazione forzata. Decidiamo di unirci a loro. La comunità palestinese nella Valle del Giordano ha scelto di resistere alle angherie quotidiane attraverso pratiche non violente. I giovani attivisti israeliani, coordinati dai palestinesi, monitorano la situazione, scortano i pastori, accompagnano i bambini a scuola e documentano le aggressioni per mano dei coloni. Nell’ultimo decennio c’è stato un incremento sistematico di soprusi e arresti arbitrari ai danni della popolazione palestinese e chi ha scelto di resistere al suo fianco è costantemente criminalizzato. A casa di Mustafà, attivista palestinese, incontriamo Anouk e Tal.

Anouk, 22 anni, è una giovane obiettrice di coscienza. A suo tempo non rese pubblica la scelta di rifiutare la leva militare obbligatoria: ”Quando sono entrata in carcere avevo poco più di 18 anni”, racconta, ”è stato un processo che ho affrontato da sola. All’inizio mi sono nascosta. Non avevo idea che esistessero reti di solidarietà per persone come me… Poi sono stata contattata da alcuni attivisti e ho trovato il coraggio di parlare”. Dopo essere stata rilasciata, Einat ha scelto di collettivizzare la sua esperienza e di metterla al servizio della comunità attraverso campagne mirate per supportare gli obiettori di coscienza. E aggiunge: ”Nell’assenza di un coordinamento tra di noi, l’occupazione ci tratterà sempre come individui diversi dagli altri e socialmente fuori posto. Se collettivizziamo questa scelta possiamo apportare un reale cambiamento e forse un giorno arrivare a smilitarizzare questa società.  Questi discorsi fanno paura a chi ci governa. Nella città dove vivo, a nord di Tel Aviv, abbiamo iniziato un processo di formazione con dei giovanissimi. Forniamo loro gli strumenti necessari affinché possano essere liberi di rifiutarsi di imbracciare un fucile a 17 anni. L’importanza dell’obiezione di coscienza è il desiderio di far sì che i giovani si pongano delle domande. Chi è davvero maturo, a quell’età, per fare una scelta così radicale e socialmente giudicata?”. Anouk si gira verso Tal, che di anni ne ha 17, e ha già deciso che il prossimo ottobre rifiuterà pubblicamente di arruolarsi: ”Ciò che dovrò subire non è comparabile al prezzo che pagano, ogni giorno, i palestinesi che vivono sotto occupazione militare israeliana. Sono disposto a rinunciare alla mia libertà, e come me tantissimi giovani che stanno facendo altrettanto”.

Yeheli ritiene che questa nuova ondata sia dovuta alla crescente visibilità di una politica governativa che, in passato, non era dichiarata. ”Smotrich e Ben-Gvir si sono tolti la maschera. È improvvisamente chiaro ciò che viene chiesto loro: essere una forza annessionista, una forza di occupazione, una forza repressiva, e che questo non è temporaneo. Le persone meno radicali stanno finalmente iniziando capire che questa situazione è destinata a rimanere”.    

Gli obiettori di coscienza sono spesso arrivati ad ondate. Nel corso della prima e della seconda Intifada in migliaia si rifiutarono di arruolarsi. ”L’esercito non vuole che il rifiuto diventi una questione politica”– è di nuovo il giovanissimo Tal a parlare – ”quindi quando inizia un’ondata cercano di reprimerla, di rendere le punizioni più severe, come è successo con i quattro obiettori di coscienza più recenti. Ma noi non ci arrenderemo”.  

Il sole si sta per schiantare tra le colline brulle alle porte di Jericho. Fa un caldo torrido. La maggioranza della popolazione che abita questa valle non ha accesso all’acqua corrente. ”Quando la società israeliana smetterà di considerare questi giovani uomini e donne dei traditori… Allora, forse, ci sarà speranza”, ci dice Mohammad Bakri, tra una sigaretta e un’altra, mentre ci accingiamo ad entrare insieme nel campo profughi di Jenin, appena violentato da una delle più massicce invasioni degli ultimi venti anni.   

Crediti Foto: Gili Yaari

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