Quanto è internazionale la Corte Penale Internazionale

Mar 18, 2023 | Notizie

di Giampaolo Cadalanu,

Il Post, 18 marzo 2023. 

«La verità è che oggi all’Aia siamo di fronte a una svolta: alla possibilità di riproporre la speranza in una giustizia universale valida – almeno in prospettiva – per tutti gli uomini, indipendentemente dalla nazionalità delle persone coinvolte»

Il Procuratore capo della Corte penale Internazionale, l’avvocato britannico Karim Khan, durante il processo a Mahamat Said Abdel Kani per crimini contro l’umanità e di guerra nella Repubblica Centrafricana. L’Aia, 26 settembre 2022. (AP. Peter Dejong, Pool)

A sentire le reazioni del Cremlino al mandato di arresto per crimini di guerra emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aia (ICC) contro Vladimir Putin torna in mente il sogno di una giustizia universale, che mai come in questo momento sembra essere in discussione. Il presidente russo è accusato della deportazione di bambini ucraini, insieme con Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dell’infanzia.

Il mandato della Corte “non ha nessun significato” per la Russia, dice Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo. Formalmente la sua posizione è ineccepibile: Mosca non ha firmato lo Statuto di Roma, e dunque sul territorio russo i giudici dell’Aia non hanno competenza. Nel caso in questione, però, è stata Kiev – che pure non ha riconosciuto la Corte alla sua nascita – ad attribuire la giurisdizione alla Corte penale internazionale, rinunciando a quella che compete ai giudici nazionali.

Ma se nel concreto un processo al presidente russo appare improbabile, il nodo più difficile da sciogliere è quello della credibilità di un’idea di giustizia universale. La critica alla Corte penale internazionale dei paesi che non l’hanno riconosciuta è praticamente unanime: i magistrati dell’Aia procedono in modo fazioso, senza mai mettere in discussione l’operato dell’Occidente. La Corte è un’organizzazione intergovernativa istituita nel 1998 dallo Statuto di Roma che persegue i reati di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressione, con una competenza supplementare a quella degli apparati giudiziari nazionali. La sua legittimazione ideale si basa su una prospettiva di universalità. Oggi ha la possibilità di dimostrare che il suo operato è libero dai pregiudizi, affrontando in modo convincente il tema delle responsabilità occidentali, prima di tutto in Afghanistan.

Il ricordo è vivo: nei primi giorni dell’intervento in Iraq come in quelli dell’Afghanistan, fra noi giornalisti, inviati a seguire gli scontri e gli sviluppi politici, si rincorrevano le voci su possibili abusi da parte di qualche “mela marcia” inquadrata nelle forze occidentali. Era un tabù per tutti: senza prove o quanto meno testimoni disposti a comparire, nessuno ne poteva scrivere.

È sempre così: per contrastare la narrativa che in quei giorni presentava gli occidentali come le forze del Bene, servivano ricostruzioni inattaccabili. A noi inviati restava l’amaro in bocca nell’ascoltare i fixer di Baghdad che raccontavano sottovoce di famiglie a cui erano spariti tutti i risparmi, dopo le perquisizioni. In Afghanistan era più comune l’accenno a massacri immotivati, o racconti sulla sparizione senza senso di innocui padri di famiglia. Ma i sussurri non erano notizie.

Il mio fixer in Iraq, per esempio, era un anziano attivista palestinese terrorizzato dai checkpoint americani: sosteneva che le truppe statunitensi lo avrebbero consegnato al Mossad, come avevano già fatto con altri suoi compatrioti, ignorando ogni regola di legalità internazionale. Pochi mesi dopo seppi che se n’era andato da Baghdad per la Giordania. Ho dovuto aspettare anni, perché le prime storie concrete di abusi venissero alla luce: le bombe sulle feste di nozze, le torture alla base segreta di Bagram e poi quelle di Abu Ghraib, gli stupri e gli assassinii di Mahmudiyah, le stragi di Haditha, Fallujah, Kandahar…

Nei giorni scorsi ho sentito al telefono l’interprete-fixer che mi accompagnava a Kabul: un ex giornalista, bravissimo, di assoluta fiducia. Mi ha raccontato che negli ultimi anni, sotto il regime dei talebani, molte famiglie afghane si sono fatte coraggio e hanno rivelato quello che prima non potevano dire a voce alta: le violenze e i piccoli soprusi, le perquisizioni diventate pestaggi o i risparmi di famiglia volatilizzati durante i controlli. «Nelle città, fra gli afghani filo-governativi, questo succedeva di rado», racconta il fixer, «ma nei paesini di campagna era una pratica diffusa. È per questo che molti adesso ringraziano Dio per la giustizia dei talebani».

Per chi ha seguito crisi e conflitti negli ultimi vent’anni non è una sorpresa: la guerra fa emergere il meglio e il peggio di ognuno. Ma la verità è che oggi all’Aia siamo di fronte a una svolta: alla possibilità di riproporre la speranza in una giustizia universale valida – almeno in prospettiva – per tutti gli uomini, indipendentemente dalla nazionalità delle persone coinvolte.

All’inizio di marzo, prima che fosse emesso il mandato di arresto per Putin, il New York Times aveva scritto che il Pentagono si era opposto alla condivisione con la Corte penale internazionale di materiali probatori raccolti in Ucraina. La decisione del Pentagono di fatto toglieva elementi alle accuse e indeboliva la possibilità che il comportamento delle truppe russe potesse essere oggetto di condanna. Per i comandi statunitensi condividere con l’ICC eventuali prove di crimini di guerra o contro l’umanità avvenuti in Ucraina avrebbe potuto essere un precedente troppo pericoloso, potenzialmente in grado di aprire la strada al coinvolgimento di militari americani in procedimenti davanti ai giudici dell’Aia. La possibilità di procedere contro cittadini russi per fatti commessi in Ucraina potrebbe comportare, cioè, la messa sotto accusa di cittadini americani per azioni compiute nei 123 Paesi che aderiscono all’ICC.

Il problema è sostanzialmente quello dell’esistenza stessa della Corte: se i giudici dell’Aia non saranno in grado di perseguire nel concreto l’ideale di una giustizia universale, quanto meno come speranza e prospettiva, verrà meno la credibilità stessa dell’istituzione.

La partita che si sta giocando sull’Ucraina è per molti versi simile a quella sui fatti dell’Afghanistan. Nel settembre 2021 il nuovo Procuratore capo della Corte penale internazionale, l’avvocato inglese Karim Khan, aveva proposto di riprendere l’inchiesta sull’Afghanistan avviata nel 2017 dal precedente procuratore, la gambiana Fatou Bensouda. Quest’ultima riteneva ci fossero le condizioni per procedere: 1) contro i talebani e gli affiliati alla Rete Haqqani per crimini di guerra e contro l’umanità; 2) contro la polizia e i servizi di sicurezza afghani per crimini di guerra; 3) contro le truppe americane e i membri della CIA per crimini di guerra commessi in Afghanistan e nelle carceri segrete in altri Paesi.

La richiesta originale della Procura, però, aveva provocato una reazione molto dura da parte degli Stati Uniti. L’allora segretario di Stato americano Mike Pompeo aveva attaccato la Corte e bloccato i visti del procuratore e di ogni dipendente della Corte penale internazionale coinvolto in indagini su cittadini statunitensi, mentre il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton aveva minacciato processi e sanzioni contro lo staff e persino contro i Paesi che avessero dato assistenza nelle indagini. L’inchiesta era stata fermata, prima dalla Camera preliminare all’Aia, poi anche dal governo di Kabul che sosteneva fosse già in corso un’indagine interna (e il principio di complementarietà avrebbe tolto la competenza all’ICC, lasciandola alla giustizia nazionale afghana).

La richiesta di Khan di riaprire il procedimento si basa però su presupposti diversi: il nuovo procuratore ha proposto di dare priorità ai crimini commessi da talebani e ISIS-K, rispetto a quelli che lo stesso Khan definisce “gli altri aspetti dell’inchiesta”, senza nemmeno nominare le forze governative o USA su cui la Bensouda avrebbe invece voluto indagare. Alla fine del 2022, dopo il ritorno al potere dei talebani, la Camera preliminare dell’ICC ha autorizzato la ripresa del procedimento, ma solo nel quadro della richiesta originale del 2017, quindi ribadendo che nel mandato è compresa la possibilità di indagare anche gli americani. Ma il procuratore Khan ha fatto appello, sottolineando che le risorse del suo ufficio sono molto limitate rispetto a un mandato così ampio.

L’inchiesta sui crimini in Afghanistan riparte mentre si avvia con clamore quella sugli abusi in Ucraina. La prima sembra impostata dal procuratore in modo da considerare meno rilevanti le responsabilità occidentali, la seconda nasce su sollecitazione anti-russa, ma con tutte le riserve da parte americana sulla pretesa di universalità che la Corte penale internazionale vorrebbe consolidare. Insomma, nonostante la messa in stato di accusa di Putin, resta insoluto l’interrogativo fondamentale, se possa o meno concretizzarsi il sogno di una giustizia unica per tutta l’umanità o se invece i “Grandi del pianeta” possano eludere le regole comuni.

Ma rimane anche la necessità di dare una risposta alle famiglie ucraine bombardate, a quelle che si sono viste sottrarre i bambini, come a quelle afghane, irachene e così via. L’allarme sul pericolo di un “doppio standard” per i giudici è stato posto da Amnesty International, Human Rights Watch e altre ONG. Ora i giudici dell’Aia possono scegliere di spazzar via le accuse di faziosità (ribadite di recente anche dal governo del Venezuela, in aggiunta a quelle di numerosi paesi africani) e affermare che si lavora verso una giustizia unica, ma per farlo hanno solo una scelta: esaminare appieno anche le possibili responsabilità occidentali per ribadire che tutti gli abusi saranno puniti, quale che sia la nazionalità dei colpevoli.

Giampaolo Cadalanu segue da oltre trent’anni le crisi e i conflitti in mezzo mondo, ed è stato per molti anni inviato di Repubblica.

https://www.ilpost.it/2023/03/18/cadalanu-icc/

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