Ridurre il conflitto: smontare la nuova strategia di Israele

Mar 7, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Walid Habbas,  

Al-Shabaka, 6 marzo 2023. 

25 novembre 2022, Nablus, Cisgiordania, Palestina: Un manifestante palestinese discute con un soldato israeliano durante la manifestazione contro gli insediamenti israeliani nel villaggio di Beit Dajan, vicino alla città cisgiordana di Nablus. (Credit Image: Nasser Ishtayeh/SOPA Images via ZUMA Press Wire/APAimages)

Sintesi

Dal 2021, i leader israeliani hanno proposto una nuova serie di politiche economiche, adottando l’approccio di “ridurre il conflitto”. Questa strategia mira a offrire ai palestinesi maggiori opportunità economiche e alcune cosiddette libertà, usandole in realtà come strumenti per sostenere l’occupazione israeliana. In questo articolo, l’analista di Al-Shabaka Walid Habbas smonta questo progetto e spiega perché i palestinesi non potranno essere pacificati con incentivi economici.

Panoramica

Dal 2021, un numero crescente di leader israeliani ha proposto nuove politiche per gestire l’occupazione della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e Gaza. Queste politiche sono basate sul nuovo concetto di “riduzione del conflitto“, un approccio introdotto nel 2018 dallo storico israeliano Micah Goodman che raccomandava la gestione del conflitto “al di sotto della soglia di guerra, migliorando al contempo la vita quotidiana della popolazione palestinese”.

L’approccio, che è una versione rivista del modello di “pace economica” di Benjamin Netanyahu, mira a rafforzare l’occupazione militare del regime israeliano per impedire l’istituzione di uno Stato palestinese o di una realtà a uno stato. A differenza della strategia di “pace economica”, l’approccio della “riduzione del conflitto” è progettato per ridurre le “ondate di terrore e gli scontri violenti” palestinesi, ampliando le libertà dei palestinesi all’interno del sistema di apartheid di Israele.

Questo articolo smonta l’approccio israeliano del “ridurre il conflitto” e i cambiamenti politici che esso comporta. Esamina le nuove decisioni economiche del governo nei confronti della Cisgiordania e di Gaza, delineandone le potenziali implicazioni gravi e irreversibili per i palestinesi. Si sostiene qui che qualsiasi cambiamento che non sia in grado di smantellare completamente i sistemi israeliani di apartheid, occupazione e colonizzazione non porterebbe né un miglioramento della vita dei palestinesi, né la loro acquiescenza allo status quo.1

Analisi del concetto di “riduzione del conflitto”.

Goodman ha introdotto per la prima volta il concetto di “riduzione del conflitto” come soluzione alla crescente spaccatura tra la cosiddetta sinistra israeliana, che ha chiesto la fine dell’occupazione israeliana per evitare una realtà di apartheid con un solo Stato, e la destra israeliana, che si oppone a qualsiasi ritiro di Israele dalle terre occupate nel 1967. L’approccio di Goodman deve essere inteso come una nuova versione della precedente strategia di “gestione del conflitto” attraverso la “pace economica“. Le politiche messe in atto con la strategia della “pace economica” hanno rafforzato la dipendenza economica dei palestinesi dal regime israeliano, permettendo al contempo tattiche militari oppressive contro i palestinesi.

Al contrario, l’approccio di “ridurre il conflitto” presuppone che gli strumenti di oppressione israeliani generino attriti quotidiani “non necessari” che aumentano la probabilità di lamentele palestinesi e, quindi, di scontri violenti. Nell’ambito di questa nuova strategia, il regime israeliano non deve smantellare l’occupazione, ma semplicemente gestirla in modo diverso, apparentemente meno oppressivo. In questo modo, l’approccio della “riduzione del conflitto” abbandona del tutto ogni seria discussione sulla soluzione dei due-stati.

In altre parole, le politiche di “pace economica” sono state introdotte per favorire la dipendenza economica dei palestinesi da Israele con la scusa dei due-stati, al fine di creare un segmento della società palestinese complice della continuazione dello status quo. È importante notare che queste politiche hanno creato un’élite economica palestinese compiacente che ha lavorato in tandem con le autorità di occupazione israeliane per reprimere violentemente ogni reazione palestinese di rivolta. Inoltre, l’approccio di “pace economica” non prevedeva disposizioni per mitigare le sofferenze dei palestinesi sotto l’occupazione militare israeliana.

Mentre il modello di “riduzione del conflitto” continua con politiche economiche simili, propone modi attraverso i quali il “desiderio pubblico palestinese di pieni diritti civili” possa essere riconosciuto senza la necessità che Israele ponga fine alla sua occupazione e senza il riconoscimento di confini sovrani palestinesi. Di conseguenza, la concessione di agevolazioni economiche ai palestinesi, così come una maggiore mobilità all’interno della Cisgiordania e l’accesso al mondo esterno, fanno parte di una più ampia strategia israeliana volta a limitare le rimostranze per l’occupazione, proprio al fine di sostenere l’occupazione stessa. Ciò si basa sul presupposto razzista che i palestinesi accetteranno l’occupazione coloniale israeliana se i suoi meccanismi di oppressione saranno attenuati e resi meno visibili.

Fondamentalmente, l’approccio di “riduzione del conflitto” presuppone erroneamente che la resistenza palestinese sia apolitica ed estranea alla lotta per la liberazione dall’apartheid e dall’occupazione israeliana. L’approccio si basa invece sulla convinzione che la maggior parte degli scontri violenti tra palestinesi e israeliani derivi dalle condizioni sempre più aspre in cui vivono i palestinesi. In questo modo, l’approccio presuppone che non sia l’occupazione israeliana in sé a perpetuare il conflitto, ma il modo in cui viene gestita attraverso l’oppressione palese dei palestinesi. Riconfigurare l’occupazione per rendere la vita “più facile” ai palestinesi può quindi “ridurre il conflitto” – e un conflitto ridotto significa la continuazione dell’occupazione stessa.

Nonostante i maldestri tentativi di Goodman di riconciliare le diverse tendenze politiche israeliane mediante questo approccio, la “sinistra” israeliana sta rapidamente scomparendo e la leadership israeliana è ora probabilmente divisa tra una destra pragmatica e un‘estrema destra, che rifiutano entrambe i negoziati politici e la statualità palestinese. Pertanto, qualsiasi nuova misura israeliana volta a “ridurre il conflitto” –attraverso l’ammorbidimento delle tattiche militari oppressive o l’aumento delle opportunità economiche per i palestinesi– deve essere intesa come un mezzo per estendere indefinitamente lo status quo dell’occupazione del regime israeliano in Cisgiordania e a Gaza.

Creare l’illusione della libertà

Nel 2019, un gruppo di studenti e giovani politici israeliani ha istituito l'”Iniziativa per la Riduzione del Conflitto“, basata sulle otto raccomandazioni di Goodman per “migliorare” la vita dei palestinesi e allo stesso tempo portare vantaggi a Israele. Da allora, l’iniziativa fa parte di quasi tutte le sessioni della Knesset in cui si discute dell’economia palestinese, dell’Area C della Cisgiordania e di Gaza. L’approccio della “riduzione del conflitto” compare esplicitamente anche nel programma elettorale del partito New Hope ed è stato sostenuto sia dall’esponente della destra Neftali Bennett che dal cosiddetto centrista Yair Lapid.

Le prime quattro raccomandazioni di Goodman mirano ad aumentare il senso di libertà dei palestinesi sotto occupazione. In primo luogo, Goodman propone piani militari israeliani per collegare tutti i distretti palestinesi delle Aree A e B con nuove strade. La proposta si basa sul fatto che la mobilità limitata all’interno della Cisgiordania è una delle condizioni che rendono particolarmente difficile la vita dei palestinesi, che devono continuamente confrontarsi con i checkpoint israeliani, gli insediamenti, le pattuglie militari e i blocchi stradali. Strade per soli palestinesi più efficienti e meglio collegate aiuterebbero a nascondere l’infrastruttura dell’occupazione, dando teoricamente ai palestinesi la sensazione che l’occupazione sia in qualche modo scomparsa.

Goodman suggerisce anche di trasferire parti dell’Area C all’Area A, per consentire ai palestinesi di espandere le loro abitazioni in base alle necessità. Tuttavia, questo non implica un graduale ritiro israeliano dall’Area C; vuol dire invece che Israele è disposto a trasferire porzioni limitate dell’Area C ai palestinesi, perché sono adiacenti ai villaggi palestinesi e non sono adatte all’espansione degli insediamenti. Inoltre, i palestinesi sanno bene che questi gesti sono spesso legati a un’espansione degli insediamenti israeliani. Nel 2021, per la prima volta in 20 anni, il regime israeliano ha approvato la costruzione di oltre 1.000 unità abitative per i palestinesi nell’Area C solo pochi giorni dopo aver approvato la costruzione di 2.200 unità di insediamento israeliano, sempre nell’Area C. In questo modo, qualsiasi trasferimento di parti dell’Area C all’Area A per lo sviluppo abitativo palestinese, accompagnato dall’espansione degli insediamenti israeliani, aumenterà la resistenza palestinese.2

La strategia di “riduzione del conflitto” richiede anche di facilitare la connessione dei palestinesi con il mondo esterno. A tal fine, Goodman propone di concedere ai palestinesi l’accesso agli aeroporti israeliani. Nel 2022, il regime israeliano ha fatto un passo avanti in questo senso, permettendo ai palestinesi della Cisgiordania di utilizzare per i loro viaggi l’aeroporto di Ramon, situato nel Naqab meridionale. Sebbene apparentemente vantaggioso a prima vista, questo passo non fa che esacerbare il controllo israeliano sui palestinesi. Infatti, per accedere all’aeroporto Ramon, i palestinesi devono affidarsi alle infrastrutture di trasporto israeliane, il che permette al regime israeliano ad aumentare i suoi meccanismi di sorveglianza.

Infine, Goodman raccomanda paradossalmente che Israele sostenga gli sforzi diplomatici palestinesi per ottenere il riconoscimento internazionale come Stato, ma non riconosca i confini di uno Stato palestinese. Mentre il riconoscimento della statualità “aumenterebbe il senso di libertà e indipendenza dei palestinesi”, spiega Goodman, se non si riconoscono i confini palestinesi, le incursioni delle forze di occupazione israeliane in Cisgiordania continueranno a non essere considerate violazioni di un territorio sovrano, una componente importante della sua proposta originale in ebraico che è stata omessa dalla traduzione inglese. In ogni caso, è improbabile che il sostegno alla statualità palestinese avvenga sotto qualsiasi regime israeliano, specialmente sotto il nuovo governo di coalizione di estrema destra di Israele.

Le componenti economiche della “riduzione del conflitto”

Il regime israeliano utilizza da tempo l’economia per controllare e pacificare i palestinesi. Ciò è stato stabilito nel Protocollo economico di Parigi (PEP) del 1994, un accordo tra Israele e l’Autorità Palestinese (AP) volto a dare l’illusione dell’autonomia economica palestinese, rendendo invece paradossalmente i palestinesi economicamente dipendenti dal regime israeliano. Nel corso degli ultimi cinque anni, la leadership israeliana ha fatto poco più che aggiornare il modello di “pace economica” di Netanyahu, che rientra a pieno titolo nel quadro del PEP.

In particolare, qualsiasi nuova politica economica israeliana che offra ai commercianti e ai lavoratori palestinesi opportunità di mobilità e collaborazione con Israele, al fine di aumentare il loro tenore di vita –e quindi di “minimizzare” il conflitto– è fondamentalmente errata e illogica. Questi tentativi devono essere intesi come un modo per rafforzare la frammentazione geografica ed economica palestinese, così come la dipendenza economica da Israele, in uno stato di perpetuo de-sviluppo.

Il punto di vista di Goodman sulle relazioni economiche

L’approccio di Goodman di “ridurre il conflitto” è volto a consentire una revisione del PEP, anche attraverso una collaborazione economica congiunta tra i palestinesi e il regime israeliano. Nell’ambito di questo approccio, l’ex primo ministro israeliano Yair Lapid e il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh hanno partecipato a un incontro nel settembre 2022 sponsorizzato dal Ministero degli Affari Esteri norvegese, il cui obiettivo era promuovere la costruzione dello Stato palestinese. Il Comitato di Collegamento Ad Hoc ha poi proposto di ristrutturare le relazioni finanziarie tra palestinesi e israeliani e di rilanciare il Comitato Economico Congiunto, congelato dopo la Seconda Intifada. Ad oggi, nessuna di queste proposte è stata avanzata ed entrambe saranno probabilmente abbandonate con il sesto governo di Netanyahu.

Goodman propone anche ulteriori agevolazioni economiche – basate sui cambiamenti di politica raccomandati dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale – volte a ottenere l’acquiescenza politica palestinese. Ad esempio, sostiene la graduale destinazione di ulteriori terreni nell’Area C alla cooperazione economica israelo-palestinese, compresi gli investimenti stranieri e ulteriori parchi industriali che rimarrebbero sotto il controllo israeliano. Questi si aggiungerebbero a progetti già esistenti, come il Parco Industriale Multidisciplinare di Betlemme (BMIP) e la Società del Parco Agroindustriale di Gerico (JAIP Co.), nessuno dei quali è riuscito nel suo intento di sostenere la crescita economica palestinese. A ben vedere, la proposta di Goodman si basa sugli investimenti stranieri – un importante promemoria del fatto che la “riduzione del conflitto” serve anche agli interessi di parti interessate al di fuori della Palestina colonizzata.

Inoltre, Goodman chiede la creazione di percorsi logistici “sicuri” all’interno della Cisgiordania per facilitare il processo di trasferimento delle merci palestinesi verso i mercati israeliani, incentivando così un maggior numero di commercianti palestinesi a cercare di entrare nell’accordo con il regime israeliano. Chiede inoltre di aumentare e diversificare la manodopera palestinese nei territori del 1948. Sebbene possano sembrare vantaggiose per i palestinesi, queste due misure non fanno altro che favorire la loro sottomissione economica.

La creazione di percorsi logistici “sicuri”

Dal 2018, l’Amministrazione Civile israeliana, l’USAID e il Quartetto, insieme a diversi produttori palestinesi su larga scala, hanno lavorato a un nuovo modello per esportare le merci palestinesi nei mercati israeliani, consentendo ai camion israeliani di entrare nell’Area A e caricare le merci direttamente dalle porte delle fabbriche palestinesi. Il nuovo modello, noto come “Porta-a-porta”, riduce in modo significativo i tempi di trasferimento dei prodotti e snellisce il processo di arrivo delle merci palestinesi nei mercati israeliani.

L’accordo è promosso come finanziariamente vantaggioso per i grandi produttori palestinesi, che sarebbero in grado di aumentare la produzione e i loro profitti rispettando le condizioni israeliane. Tuttavia, esso include diversi requisiti per i palestinesi che ruotano attorno alla sicurezza: 1) le fabbriche palestinesi devono erigere barriere di cemento e recinzioni metalliche, supportate da un sistema di allarme collegato direttamente a un ufficio militare israeliano presso il varco commerciale più vicino; 2) i dipendenti palestinesi, addestrati dai militari israeliani, devono caricare le merci palestinesi e riferire quotidianamente ai loro supervisori militari israeliani; 3) ogni camion merci deve installare un sistema di tracciamento GPS che consente agli agenti militari israeliani di sorvegliare le spedizioni sulla strada che attraversa la Cisgiordania.

A settembre 2022, 21 aziende palestinesi di al-Khalil (Hebron), Ramallah e Nablus hanno aderito all’accordo Porta-a-porta.3 Le spedizioni totali effettuate con questo metodo sono state 61.880 tra marzo 2018 e settembre 2022, riducendo i costi logistici di circa 8,6 milioni di dollari. Come nel caso del modello di “pace economica”, questo accordo garantisce che una parte dei produttori palestinesi su larga scala sia separata dal resto degli esportatori palestinesi, che invece ne risentono. In effetti, le autorità israeliane di occupazione richiedono che i palestinesi che aderiscono all’accordo “Porta-a-porta” debbano superare il volume del loro commercio con Israele di 10 milioni di NIS all’anno, un risultato a cui pochissimi palestinesi possono aspirare.

Oltre a peggiorare il divario salariale dei palestinesi in una geografia già frammentata, la politica del Porta-a-porta consente un’ulteriore invasione israeliana sulla terra dei palestinesi e la sorveglianza sulla loro vita quotidiana. L’accordo prevede che il regime israeliano si infiltri nei siti produttivi palestinesi dell’Area A, dove si trovano le fabbriche, ogni volta che lo ritiene necessario. Israele sorveglia anche questi siti di produzione, così come le rotte logistiche “sicure” riservate ai trasporti Porta-a-porta, espandendo così in modo significativo la sua oppressiva infrastruttura di sorveglianza sui palestinesi.

Le forze di occupazione israeliane hanno anche intensificato i controlli di sicurezza nell’ambito del loro regime di permessi, facendo sì che un numero crescente di palestinesi sia politicamente pacificato al fine di preservare i loro permessi di lavoro e i loro mezzi di sussistenza economica. Nel complesso, queste politiche indicano che Israele sta insidiosamente assicurando l’annessione de facto di importanti poli di produzione economica palestinese, oltre a mettere a tacere il dissenso dei palestinesi mediante l’offerta di incentivi economici.

Approfondimento della dipendenza economica attraverso il lavoro

Alla fine del 2016, il regime israeliano ha emanato una risoluzione che richiedeva importanti “innovazioni” sia per quanto riguarda il volume dei lavoratori palestinesi autorizzati nei territori del 1948, sia per quanto riguarda le procedure di rilascio dei permessi di lavoro. Da allora, il governo ha legiferato diverse risoluzioni per attuare queste “innovazioni”. Di conseguenza, il numero di lavoratori palestinesi nei Territori del 1948 è aumentato da circa 110.000 nel 2016 a 204.000 nel 2022. Questo spostamento è in linea con il quinto passo di Goodman per “ridurre il conflitto”: aumentare il numero di lavoratori palestinesi nel mercato del lavoro israeliano (con un tetto massimo di 400.000).

Numero di lavoratori palestinesi emigrati nei luoghi di lavoro israeliani tra il 1967 e il 2022. Fonte: Ufficio centrale di statistica palestinese (PCBS).

Allo stesso modo, nel marzo 2022, Israele ha emesso la decisione 1328 per consentire ai lavoratori palestinesi di Gaza di entrare nei territori del 1948 per la prima volta dal 2006. Fino alla fine del 2022, il numero di lavoratori autorizzati provenienti da Gaza era limitato a 20.000. Compreso nel contesto della “riduzione del conflitto”, l’approccio del regime israeliano nei confronti di Gaza in particolare è passato dalla “calma per la calma” all'”economia per la calma”, come ha dichiarato esplicitamente Yair Lapid, allora ministro degli Esteri, nel settembre 2021. È importante notare che, oltre a offrire ai palestinesi di Gaza opportunità economiche nei territori del 1948, il territorio di Gaza è del tutto escluso dalla proposta di Goodman.

Sebbene le autorità israeliane sostengano che l’aumento del flusso di reddito in Cisgiordania e a Gaza contribuirà alla crescita economica palestinese, –nel 2021 si è stimato che il reddito combinato dei lavoratori palestinesi nei Territori del 1948 ha raggiunto i 5,5 miliardi di dollari (circa il 35% del PIL palestinese)– è necessario fare una distinzione tra tale crescita e lo sviluppo economico, soprattutto in condizioni di occupazione militare restrittiva e di assedio. Invece, l’aumento della migrazione di manodopera palestinese verso il mercato israeliano rafforza fondamentalmente la dipendenza dei palestinesi da Israele e, quindi, l’occupazione israeliana.

A peggiorare le cose, il regime israeliano non è più interessato solo alla manodopera palestinese a basso salario. Negli ultimi anni, ha diversificato la forza lavoro palestinese nei Territori del 1948, includendo i settori dell’alta tecnologia, della medicina e dell’ingegneria. Ha anche investito circa 300 milioni di NIS per formare i lavoratori palestinesi a nuove competenze professionali. In questo modo, l’espansione e la diversificazione della manodopera palestinese non fa altro che aumentare il numero di palestinesi che dipendono economicamente dal regime israeliano e dal mantenimento dello status quo politico.

Perché la “riduzione del conflitto” è destinata a fallire

Il concetto di “riduzione del conflitto” presuppone che una serie di cambiamenti della politica israeliana nei confronti della Cisgiordania e di Gaza – in particolare di tipo economico – elimini le condizioni che generano gli “scontri” tra i palestinesi e le forze di occupazione israeliane. Alleviando presumibilmente la gravità delle sofferenze quotidiane dei palestinesi, l’occupazione militare di Israele diventa così più gestibile e sostenibile. In altre parole, la questione dell’autodeterminazione palestinese attraverso la creazioine di uno stato diventa obsoleta, sollevando i leader israeliani di tutto lo spettro politico dalla perenne questione di cosa fare con la popolazione palestinese.

In definitiva, il progetto della “riduzione del conflitto” rivela che il regime israeliano continuerà a operare a proprio vantaggio a spese dei palestinesi, anche sostenendo le stesse strutture di apartheid coloniale che sono alla base della loro sofferenza attuale. Infatti, come sostiene lo stesso Goodman, la “riduzione del conflitto” non richiede un accordo formale, il ritiro dei coloni o degli insediamenti israeliani dalla Cisgiordania o la divisione di Gerusalemme.

In definitiva, gli otto passi di Goodman si basano sull’errata opinione che i palestinesi saranno meno propensi a resistere se si farà credere loro che possono godersi la vita sotto l’occupazione coloniale permanente, grazie a minori restrizioni alla mobilità e maggiori opportunità di collaborazione economica con il regime israeliano. Si tratta di un’ipotesi distorta e razzista, basata sul vecchio errore dei sionisti, secondo cui i palestinesi non sono un popolo che chiede l’autodeterminazione, ma una folla apolitica e violenta che può essere pacificata se le vengono concessi i cosiddetti privilegi.

Alcuni aspetti dell’approccio di “riduzione del conflitto” favorito dalla destra pragmatica israeliana sono stati invalidati dalla vittoria del governo di coalizione di estrema destra di Netanyahu nel dicembre 2022. Da un lato, l’aumento della repressione violenta della resistenza palestinese da parte di Israele, soprattutto nel nord della Cisgiordania, ha minato il piano di eliminazione dei meccanismi che generano gli scontri. Dall’altro lato, la coalizione estremista di Netanyahu, che spinge per un’ulteriore espropriazione e spostamento dei palestinesi, non seguirà probabilmente le proposte di Bennett e Lapid per una presunta “riduzione del conflitto”. Tuttavia, è probabile che le misure economiche messe in atto dal 2021 continueranno a plasmare le relazioni economiche tra Palestina e Israele nei prossimi anni.

E mentre il nuovo governo di coalizione israeliano deve ancora definire le sue politiche economiche nei confronti della Cisgiordania e di Gaza, il suo palese impegno a rafforzare l’occupazione aggraverà certamente le sofferenze dei palestinesi. I palestinesi non accetteranno mai questa realtà, anche di fronte a maggiori agevolazioni economiche. In altre parole, anche se i politici israeliani spingono per misure volte a “migliorare” la vita dei palestinesi attraverso una maggiore partecipazione al mercato del lavoro israeliano, la mobilità all’interno della Cisgiordania o l’accesso al mondo esterno, la realtà del colonialismo israeliano, dell’apartheid e dell’occupazione persisterà –così come la resistenza palestinese.

  1. Tutte le traduzioni delle fonti arabe ed ebraiche contenute in questo articolo sono state fatte dall’autore.
  2.  È altamente improbabile che le proposte di espansione delle abitazioni palestinesi continuino con il nuovo regime israeliano.
  3. È importante notare che alcuni capitalisti palestinesi hanno scelto di partecipare all’accordo Porta-a-porta.
  4. Il sito web del PCBS offre dati solo a partire dal 1994. Per accedere ai dati tra il 1967 e il 1993, l’autore ha consultato i rapporti annuali del PCBS e il libro di Leila Farsakh, Palestinian Labour Migration to Israel: Labour, Land and Occupation (Oxford: Routledge, 2005).

Walid Habbas è ricercatore presso il Forum Palestinese per gli studi israeliani (MADAR) e dottorando presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Attualmente lavora sulle relazioni economiche tra Cisgiordania e Israele, ponendo l’accento sulle molteplici modalità di interazione tra gli attori palestinesi e le strutture coloniali: i regimi di confine e di permesso. Si occupa di attività come il contrabbando, la migrazione di manodopera, le reti di intermediazione del lavoro, le rotte logistiche e gli interventi economici coloniali.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.

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