Un anno in cui il valore del diritto internazionale è salito in Ucraina e sceso in Palestina: andare oltre il gioco di chi ne sia responsabile

Feb 28, 2023 | Notizie, Riflessioni

di: Hassan Ben Imran, Ihsan Adel, Wadea Arabeed,

Law for Palestine, 24 febbraio 2023. 

Introduzione

“Immaginate che quello che sta accadendo in Ucraina stia invece accadendo in Palestina e che ciò che fa la Russia sia fatto dagli Stati Uniti!”. Con queste ironiche – e angoscianti – parole, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha sottolineato i doppi standard occidentali nel trattare la guerra in Ucraina rispetto ad altri casi simili. Come a dire: perché incolpare noi per la nostra aggressione quando non incolpate i vostri alleati per la loro?

Esattamente un anno fa, il 24 febbraio, la Russia dichiarava il lancio di una vasta operazione militare per conquistare i territori ucraini, e le ostilità sono ancora in corso. Questa operazione militare è stata seguita da una raffica di condanne europee e americane, da una sfilza di sanzioni economiche contro la Federazione Russa, da armi e sostegno alle forze armate ucraine e dal richiamo al diritto ucraino all’autodifesa secondo il diritto internazionale e alla cessazione immediata dell’occupazione illegale. Le associazioni giuridiche europee e nordamericane sono state piuttosto rapide nel condannare le azioni russe, abbandonando la loro vecchia politica di rimanere fuori da sviluppi politicamente sensibili, come l’invasione unilaterale americana dell’Iraq avvenuta al di fuori del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite.

Per contestualizzare: sia la Palestina che l’Ucraina sono chiaramente sotto occupazione e sono state testimoni di vari crimini internazionali, tra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità, come sostenuto da molti organismi e giuristi autorevoli. Ciò richiede un maggiore impegno da parte della comunità internazionale per ottenere giustizia e far rispettare il diritto internazionale. La Palestina, tuttavia, è sotto l’occupazione israeliana dal 1967, nonostante un numero quasi infinito di risoluzioni delle Nazioni Unite, tra cui le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 242 e 2334 del 2016, che si riferiscono alla Palestina come territorio occupato soggetto al diritto internazionale umanitario e alle leggi sui diritti umani, e chiedono la fine dell’occupazione israeliana, o almeno delle sue attività di insediamento nei Territori Palestinesi occupati (OPT). Inutile dire che queste risoluzioni sembra siano sfuggite all’attenzione di Israele e dei suoi potenti alleati, negando così i diritti palestinesi all’autodeterminazione o all’autodifesa.

Questo articolo fa luce sul noto sistema dei due pesi e due misure nei criteri di voto dei Paesi occidentali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e su come ciò influisca negativamente sul rispetto del diritto internazionale. Discute poi la strada da seguire per la Palestina per superare le ingiustizie di comportamento e di struttura inflitte al suo popolo.

“Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.

Un rapido confronto tra i voti degli Stati occidentali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nei casi ucraino e palestinese dimostra che l’osservazione di George Orwell non era solo una battuta.

Secondo la Tabella 1 che segue, c’è una vasta e incomprensibile discrepanza tra il voto dei principali Paesi occidentali (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e Italia) nel caso dell’Ucraina rispetto al caso della Palestina.

Infatti, tutti condannano l’invasione russa e sostengono la sovranità e l’integrità territoriale ucraina, mentre all’unanimità mettono al riparo Israele dalla responsabilità legale davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (sia votando contro, sia rinunciando alla propria responsabilità con l’astensione); tutti questi Stati avevano votato a favore della istituzione di Israele al momento della fondazione delle Nazioni Unite.

Tabella 1: Il voto sull’Ucraina

Secondo la successiva tabella 2, molti dei sette principali Paesi citati sopra hanno votato all’unanimità a favore dell’Ucraina, mentre nessuno ha votato a favore della risoluzione sulla Palestina. Nel migliore dei casi, alcuni di essi si sono astenuti (Spagna, Francia e Regno Unito, che inizialmente si sono astenuti ma poi hanno deciso di votare contro nella votazione successiva; vedi tabella 3). In particolare, l’Ucraina ha inizialmente votato a favore della risoluzione sulla Palestina (nella sessione del Quarto Comitato), ma poi non ha partecipato alla sessione successiva (nella sessione dell’Assemblea Generale).

Tabella 2: Prima sessione di voto di novembre sul deferimento del caso alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ)
Tabella 3: La seconda votazione sulla ICJ-Palestina

Sebbene la posizione di alcuni Stati europei sia migliorata sensibilmente (o meglio “non-deteriorata”), passando dal voto contrario all’astensione, è ancora sorprendente che i Paesi che ospitano istituzioni internazionali si siano astenuti.

I Paesi Bassi, che ospitano la sede della Corte Internazionale di Giustizia (su cui si stava svolgendo la votazione) e della Corte Penale Internazionale, si sono astenuti invece di votare a favore del mandato della Corte, così come la Svizzera, che ospita la sede del Consiglio per i Diritti Umani. Inoltre, anche la Norvegia e la Svezia, che hanno una posizione più progressista sulla questione e sulle istituzioni internazionali in generale rispetto a quella tradizionale europea, si sono astenute. Solo quattro dei Paesi occidentali elencati nella Tabella 4 sono stati coerenti nelle loro scelte di voto.

La seguente Tabella 4 riassume il paradosso del voto di alcuni degli Stati occidentali più coinvolti in entrambi i casi: Ucraina e Palestina.

Tabella 4: Il voto di alcuni Stati occidentali sia sull’Ucraina che sulla Palestina.

Al contrario, se si guardano i vari voti di una serie di Stati con una certa influenza al di fuori dell’Europa e del Nord America (Tab. 5), c’è una notevole armonia di voto tra il caso ucraino e quello palestinese, ciò che ci fa supporre che il loro voto sia stato basato sui principi piuttosto che sull’opportunismo – ad eccezione, nel voto sull’Ucraina, degli Stati che sono direttamente o semi-direttamente coinvolti o colpiti dalle conseguenze della guerra russa contro l’Ucraina, come la Russia stessa, la Cina, l’India e il Pakistan.

Tabella 5: Il voto degli altri Stati in entrambi i casi.

Osservando i vari voti degli Stati africani in relazione a entrambe le votazioni, si nota che nessuno ha votato contro la risoluzione sull’Ucraina nell’ottobre del 2022, come mostrato nel sottostante Grafico 1. Il voto sulla Palestina è stato abbastanza simile, con solo il Kenya e la Liberia che hanno votato contro. Vale la pena ricordare il ricco patrimonio e il contributo dei Paesi africani al regime giuridico internazionale nell’era post-coloniale, come il Primo Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra e la legalizzazione dei movimenti di liberazione. Un ruolo di cui c’è ancora molto bisogno in questo momento.

Grafico 1: Voto dei Paesi africani sulla risoluzione di ottobre dell’Ucraina.

Un esame generale di queste tabelle rafforza la forte sensazione che gli stati in generale, ma soprattutto i principali Paesi occidentali (e in particolare i sette maggiori già citati), considerino il diritto internazionale e le sue istituzioni come uno strumento da impiegare per la loro politica estera, piuttosto che come una legge che deve essere rispettata.

La mano della giustizia: colpisce in Ucraina, resta a guardare in Palestina

“Giustizia ritardata è giustizia negata”. Un punto di vista che rispecchia l’atteggiamento dei principali Paesi occidentali nei confronti dell’Ucraina.

Poco dopo il lancio della guerra all’Ucraina da parte della Russia, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha riconosciuto che gli attacchi russi all’Ucraina costituiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità, senza attendere un’indagine obiettiva. Il primo ministro canadese ha ritenuto “assolutamente giusto” definire le azioni della Russia in Ucraina un genocidio, mentre il Belgio ha sostenuto la conclusione che ciò che la Russia sta commettendo costituisce un crimine di guerra. Allo stesso modo, Olaf Scholz, cancelliere della Germania, ha condannato la Russia.

Al contrario, sembra che la mano della giustizia che si occupa della Palestina soffra di un disturbo di tremore essenziale che impedisce di fare le giuste mosse.

A differenza della Russia, Israele non è mai stato sanzionato, o almeno sottoposto a pressioni tangibili, né dagli Stati europei né dagli Stati Uniti, per porre fine all’espansione degli insediamenti e all’occupazione. Questo nonostante l’ampia condanna da parte di numerose organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch, Amnesty International e gruppi israeliani per i diritti. A ciò si aggiungono le molteplici risoluzioni internazionali e le commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite che concludono che l’occupazione israeliana ha commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità negli OPT. Gli Stati Uniti e alcuni Stati europei hanno condannato a stento le azioni israeliane, non hanno parlato di aggressione o di apartheid e, in molti casi, hanno fornito a Israele sostegno militare e finanziario. Tra questi, spicca l’esempio del sostegno militare statunitense, stimato in 3,8 miliardi di dollari all’anno dal 2017 fino al 2028.

Nel frattempo, pochi giorni dopo l’avvio delle operazioni militari russe in Ucraina, sia i Paesi dell’Unione Europea che gli Stati Uniti hanno quasi immediatamente chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI) di indagare sulla situazione in Ucraina; di conseguenza, il 2 marzo 2022 l’ufficio del Procuratore della CPI ha aperto un’indagine su presunti crimini commessi nel contesto della situazione in Ucraina a partire dal 21 novembre 2013. La decisione di aprire l’indagine è stata presa in risposta alla richiesta di oltre 39 Stati, tra cui tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, l’Australia, il Canada, l’Islanda, la Nuova Zelanda, la Norvegia, la Svizzera e il Regno Unito, ciò che ha portato il Procuratore della CPI, Karim Khan, ad accettare la richiesta senza alcun ritardo o osservazione. Egli ha visitato l’Ucraina due volte in meno di un anno, mentre solo recentemente ha annunciato la sua “intenzione” di visitare la Palestina; la Palestina si è rivolta alla Corte per la prima volta nel 2009 e ci sono voluti 12 anni per dichiarare la giurisdizione della Corte sugli OPT.

Le pressioni politiche, soprattutto da parte degli Stati Uniti, si sono mobilitate per ostacolare le indagini sul caso della Palestina e per proteggere Israele davanti alla Corte. Dal 2018 al 2020, l’amministrazione Trump ha lavorato diligentemente per minare gli sforzi della Corte per portare avanti le sue indagini, tra cui l’emissione nel giugno 2020 di un ordine esecutivo USA che ha imposto sanzioni, tra cui la sospensione dei conti bancari e la cancellazione dei visti, nei riguardi dell’ex procuratore della CPI Fatou Bensouda e di Phakiso Mochochoko [uno dei fondatori della CPI, NdT].

Anche dopo che la nuova amministrazione statunitense, guidata dal presidente Biden, ha annullato l’ordine esecutivo del presidente Trump che prendeva di mira i dipendenti della Corte, Washington ha dichiarato di “continuare ad opporsi alle procedure della Corte Penale Internazionale nelle situazioni afghana e palestinese”, mentre offriva assistenza alla Corte nel caso ucraino!

Anche l’amministrazione dell’ex cancelliera tedesca Angela Merkel si è presentata alla Corte Penale Internazionale nel febbraio 2020 cercando di convincere il procuratore che la Corte non ha giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati. Sette Paesi, di cui cinque occidentali, si sono spinti a contestare la giurisdizione della CPI, sostenendo che la Corte non ha la giurisdizione per indagare sui crimini di guerra israeliani contro i palestinesi: Repubblica Ceca, Austria, Australia, Ungheria, Germania, Brasile (sotto l’amministrazione dell’ex presidente Bolsonaro) e Uganda.

Forse l’ipotesi che il diritto internazionale venga applicato immediatamente solo quando si tratta di un Paese amico delle grandi potenze, in particolare dei sette grandi Stati occidentali, è corretta. Ciò si riflette nella dichiarazione dell’ex premier britannico Boris Johnson, che ha detto che il suo governo si oppone a un’indagine del tribunale penale internazionale sui presunti crimini di guerra nei territori occupati da Israele, aggiungendo che “Israele non è parte dello Statuto di Roma e la Palestina non è uno Stato sovrano” e che “questa indagine dà l’impressione di essere un attacco parziale e pregiudiziale a un amico e alleato del Regno Unito”. Vale la pena ricordare che la Russia ora non è parte dello Statuto di Roma, quindi il Regno Unito si opporrà ancora all’indagine della CPI anche in Ucraina? Conosciamo già la risposta.

La dichiarazione di guerra della Russia è stata immediatamente seguita da una massiccia mobilitazione di risorse e meccanismi per facilitare l’accertamento internazionale di responsabilità per l’occupazione russa dell’Ucraina:  si è mobilitata infatti la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Europea dei Diritti Umani. Il 18 marzo 2022, la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una misura provvisoria a questo proposito, meno di due settimane dopo che l’Ucraina aveva presentato una richiesta alla Corte, il 7 marzo 2022, chiedendo che la Federazione Russa interrompesse la guerra e cessasse le attività militari in Ucraina. In questo contesto, la Corte Europea dei Diritti Umani ha emesso misure provvisorie invitando la Russia ad “astenersi da attacchi militari contro civili e strutture civili” e da altre violazioni del diritto internazionale umanitario.

Questo alto livello di entusiasmo – assolutamente giustificato e necessario nel caso ucraino – ha spinto Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, a sottolineare i doppi standard nel modo in cui l’UE ha trattato sia l’Ucraina che la Palestina.

Eccezionalismo palestinese contro eccezionalismo ucraino!

È un peccato che l’atmosfera positiva ed entusiasta per la giustizia in Ucraina sia stata un’eccezione e non la regola. È altrettanto deplorevole che la Palestina non solo sia esclusa da questa eccezione, ma sia di fatto un’eccezione in sé, vista l’estrema marginalizzazione del diritto internazionale e la messa a tacere delle voci che sostengono i diritti dei palestinesi. Sostenere i diritti dei palestinesi è un motivo sufficiente per essere etichettati come antisemiti, secondo la definizione dell’IHRA, mentre il razzismo anti-palestinese è in aumento, soprattutto in Israele e in Occidente.

Si sostiene che l’emarginazione del caso palestinese sia iniziata fin dalla nascita della Palestina sotto il Mandato Britannico. Come ha affermato Ardi Imseis, il regime mandatario ha creato un modello in cui il diritto internazionale deve essere messo in secondo piano rispetto alla dicotomia “egemone/subalterno” che caratterizza lo stato di diritto. Si trattava di uno strumento per internazionalizzare lo status giuridico subordinato delle colonie, producendo di conseguenza quella che egli definiva la subalternità giuridica internazionale. La giurista americana-palestinese Noura Erakat ha sostenuto questa tesi nel suo libro “Justice for Some” (Giustizia per alcuni), sostenendo che la “sovrana eccezione” che contraddistingue la Palestina come sito di insediamento ebraico ha generato un regime giuridico speciale che ha giustificato la cancellazione legale della comunità politica palestinese. Questo regime, insieme a tre decenni di sponsorizzazione imperiale britannica, ha permesso a Israele di affermare con la forza, nel 1948, la sua sovranità sionista-ebraica sui coloni nel 78% della Palestina mandataria, oltre alle alture siriane del Golan, con la conseguente marginalizzazione della legge in Palestina e la creazione di una nuova legge su misura per le esigenze di Israele.

Ricordiamo anche la costante pressione per evitare di etichettare il regime di Israele come apartheid. Nonostante il fatto che questo regime sia stato istituito fin dalla nascita dello Stato di Israele e si sia consolidato nel corso degli anni di occupazione dopo il 1967, questo discorso ha preso piede solo di recente tra le organizzazioni per i diritti umani più rispettate. In effetti, dopo che l’ESCWA (Economic and Social Commission for Western Asia) ha tentato di pubblicare un rapporto legale usando il termine apartheid, Rima Khalaf, la segretaria esecutiva dell’ESCWA-Asia Occidentale, è stata sottoposta a forti pressioni che l’hanno portata a dimettersi e a rimuovere il rapporto dal sito web dell’ESCWA.

Più recentemente, il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, ha dichiarato che il termine apartheid è “inappropriato” per descrivere Israele, sottolineando l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA da parte di Israele; una definizione molto criticata dagli esperti di Olocausto e di studi ebraici perché associa la critica allo Stato di Israele all’antisemitismo, descrivendo specificamente Israele come razzista. A ciò si aggiunge l’ostruzione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite all’approvazione o all’attuazione di diverse risoluzioni, nonché l’ingiustificata lentezza dei lavori della Corte Penale Internazionale sul caso palestinese.

A chi dare la colpa? Al diritto internazionale, agli Stati o non dare la colpa a nessuno?

Abd El-Razzak El-Sanhuri, un famoso giurista che ha avuto un ruolo importante nella formazione del Codice Civile egiziano, ha detto una volta: “È solo tra gli ugualmente forti o gli ugualmente deboli che la legge governa; perché se il potere è squilibrato, il potere diventa legge!“.

Non è un segreto che questa prospettiva sia dominante nei circoli giuridici e politici filo-palestinesi. Molti ritengono che il diritto, alla luce dell’attuale assenza di un equilibrio di potere, non possa servire la giustizia. Ritengono che le basi stesse dell’attuale regime di diritto internazionale (sia i trattati che le istituzioni) ne siano una prova: il potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il fatto che la maggior parte dei trattati sia stata redatta e firmata principalmente da Stati occidentali, molti dei quali stavano colonizzando “il resto”… ecc.

Dall’altra parte, Israele investe molto nelle sue azioni legali, con l’aiuto dei suoi alleati. Per esempio, uno sguardo alle loro richieste alla Corte Penale Internazionale o a qualsiasi altro organismo internazionale, e ai loro rapporti legali dopo le guerre di Gaza, ci danno un’idea di quanto investano nell'”industria del diritto”, cercando di mascherare i loro crimini con una facciata legale. Anche se i giudici e le autorità legali più accreditate non condividono le loro argomentazioni, nessuno può negare le solide capacità argomentative dimostrate.

La Palestina e i suoi alleati non hanno perseguito in modo completo e sistematico tutte le opzioni legali. I giuristi filopalestinesi parlano di apartheid da decenni, ma solo di recente la questione è stata ben inquadrata dal punto di vista legale con i rapporti di B’Tselem, Human Rights Watch e Amnesty. Lo stesso vale per quasi tutti gli aspetti della questione. Uno dei motivi è l’atteggiamento passivo nei confronti del diritto internazionale. Invece, è ora di fare ciò che è nelle nostre mani e di lasciare la correzione del regime legale internazionale a un momento in cui non sia solo un esercizio mentale.

Gli episodi in cui il regime di diritto internazionale ha sostenuto i diritti dei palestinesi sono numerosi. La Palestina è riuscita ad aderire alla Corte Penale Internazionale e a diventare parte dello Statuto di Roma, nonostante la Palestina sia sotto occupazione militare. Un altro esempio è l’attuale parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e il precedente caso della CIG del 2018 contro gli Stati Uniti per il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, che è stato temporaneamente sospeso dalla Palestina e che, se attivato, potrebbe portare a una decisione vincolante contro gli Stati Uniti. Inoltre, nel 1988 l’OLP, nonostante non fosse ufficialmente riconosciuta come Stato né dall’ONU né dagli Stati Uniti, è riuscita (attraverso l’ONU) a ottenere una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che chiedeva agli Stati Uniti di permettere alla missione dell’OLP presso l’ONU a New York di operare nonostante la legge antiterrorismo statunitense. Nel 2019, la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che i prodotti fabbricati negli insediamenti israeliani negli OPT devono essere etichettati; questo, nonostante sia troppo poco per essere definito una sanzione, è stato un passo positivo su cui costruire. Altri esempi sono la sentenza del Tribunale di Roma e la mancata repressione del movimento BDS da parte della magistratura, e l’elenco potrebbe continuare. Siamo consapevoli che la maggior parte di queste battaglie non avrebbero dovuto essere intraprese: perché i palestinesi dovrebbero giustificare il perseguimento dei loro diritti legalmente sanciti? Tuttavia, considerando l’ordine internazionale estremamente squilibrato in cui viviamo, queste potrebbero essere considerate delle vittorie.

Il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), essendo basato sul diritto internazionale, è una chiara prova che il diritto può spingere a servire la giustizia, o più precisamente una parte di essa. Il premier israeliano Netanyahu una volta ha paragonato il BDS all’Iran; entrambi rappresentano una “minaccia strategica”. Nel 2015, l’importantissima conferenza israeliana sulla sicurezza nazionale, nota come Conferenza di Herzliya, ha inserito il BDS tra le principali minacce strategiche, accanto alle attività nucleari dell’Iran.

Crediamo che, proprio come in Namibia, il diritto possa fare la differenza. La Namibia era occupata dal Sudafrica dell’apartheid e l’occupazione era sostenuta da diversi Paesi occidentali, soprattutto dagli Stati Uniti. Nel 1970 la Corte Internazionale di Giustizia emise un parere consultivo, noto come eccezione per la Namibia, in cui si dichiarava illegale l’occupazione e si chiedeva al Sudafrica di ritirarsi dai territori namibiani. In seguito alla vittoria legale, e insieme alla lotta politica e sul campo, la Namibia uscì vittoriosa. Proprio come la Namibia, la Palestina può essere un’altra “eccezione”.

Proprio come la Palestina, anche il diritto internazionale è vittima del colonialismo. Ma qui non stiamo cercando di dimostrare se il problema sia il regime di diritto internazionale o gli Stati che lo usano e lo minano. Stiamo cercando di dire che il passivismo non ci porterebbe da nessuna parte. Il regime giuridico internazionale è difettoso? Assolutamente sì. Stiamo meglio senza? Assolutamente no.

Invitiamo le vittime, i loro avvocati e i loro rappresentanti a onorare il loro dovere di attivare i meccanismi legali internazionali e a lottare contro l’uso del diritto internazionale per gli interessi degli Stati.

In conclusione, come dimostrato sopra, le recenti votazioni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno rivelato l’enormità della discrepanza [tra Ucraina e Palestina], soprattutto perché entrambe le votazioni sono state molto ravvicinate nel tempo. Questo ci ha riportato ancora una volta alle stesse conclusioni di realismo politico, secondo cui il diritto internazionale non viene applicato o richiesto, a meno che non serva gli interessi delle grandi potenze che hanno la capacità di influenzare il corso della sua attuazione.

Tuttavia, questo non è un appello al passivismo, ma piuttosto a incrementare gli sforzi legali per sostenere la legge; per il bene delle vittime che hanno bisogno di protezione contro il comportamento delle grandi potenze che minano il diritto internazionale con il loro approccio da giungla. Come dimostrato sopra, ha funzionato una volta e può funzionare di nuovo!

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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