Non si può salvare la democrazia in uno stato ebraico

Feb 20, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Peter Beinart,

The New York Times, 19 febbraio 2023. 

Manifestanti a Tel Aviv che mostrano cartelli con le scritte “Studenti israeliani che lottano per la democrazia” e “Senza democrazia non c’è accademia.” Jack Guez/Agence France-Presse – Getty Images

Gli avvertimenti arrivano ogni giorno: la democrazia israeliana è in pericolo.

Da quando il nuovo governo di Benjamin Netanyahu ha annunciato i suoi piani per minare l’indipendenza della Corte Suprema di Israele, centinaia di migliaia di israeliani hanno manifestato nelle strade. Tutti gli ex procuratori generali viventi di Israele, in una dichiarazione congiunta, hanno avvertito che la proposta di Netanyahu mette a rischio gli sforzi per “preservare Israele come stato ebraico e democratico”. I leader ebrei americani liberali fanno il tifo per le proteste. All’inizio di questo mese, Alan Solow, ex capo della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Ebraiche Americane, ha detto che lui e altri notabili ebrei americani “condividono le preoccupazioni di decine di migliaia di israeliani determinati a proteggere la loro democrazia”. In una dichiarazione pubblica, Solow e altri 168 influenti ebrei americani hanno avvertito che “la direzione del nuovo governo rispecchia le tendenze antidemocratiche che vediamo nascere altrove”.

A prima vista, la battaglia tra Netanyahu e i suoi critici ha un aspetto familiare. Negli ultimi anni, dal Brasile all’Ungheria, dall’India agli Stati Uniti, i manifestanti antigovernativi hanno accusato i populisti di stampo autoritario di minacciare la democrazia liberale. Ma se si guarda più da vicino al dramma politico di Israele, si nota qualcosa di sorprendente: le persone più minacciate dall’autoritarismo di Netanyahu non fanno parte del movimento contro di esso.

Le manifestazioni includono pochissimi palestinesi. Infatti, i politici palestinesi le hanno criticate perché, secondo le parole dell’ex membro della Knesset Sami Abu Shehadeh, “non hanno nulla a che fare con il problema principale della regione: la giustizia e l’uguaglianza per tutte le persone che vivono qui”.

Il motivo è che il movimento contro Netanyahu non è come i movimenti di opposizione pro-democrazia in Turchia, India o Brasile – o il movimento contro il Trumpismo negli Stati Uniti. Non è un movimento per la parità di diritti. È un movimento per preservare il sistema politico che esisteva prima che la coalizione di destra di Netanyahu prendesse il potere, e che non era, per i palestinesi, una vera democrazia liberale. Era un movimento per salvare la democrazia liberale per gli ebrei.

Il principio che i sionisti liberali critici di Netanyahu dicono che lui propone – uno stato ebraico e democratico – è in realtà una contraddizione. Democrazia significa governo da parte del popolo. Stato ebraico significa governo da parte degli ebrei. In un Paese in cui gli ebrei rappresentano solo la metà delle persone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, il secondo aggettivo [democratico] elimina il primo [ebraico].

Per capire quanto sia illiberale il sionismo liberale sostenuto dagli attuali oppositori di Netanyahu, basti pensare alle azioni di Yair Lapid, suo predecessore come Primo Ministro. Il mese scorso, Lapid ha scritto un saggio di quasi 2.000 parole in cui ha scritto: “Se questo governo Netanyahu non cade, Israele cesserà di essere una democrazia liberale”. Nel saggio non c’era traccia della parola “palestinesi”.

Questo diventa meno sorprendente quando ci si rende conto che come Ministro degli Esteri, nel 2021, Lapid ha implorato la Knesset di rinnovare una legge che nega ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, sposati con cittadini palestinesi di Israele, il diritto di vivere con i loro coniugi all’interno di Israele. La legge è palesemente discriminatoria; gli ebrei possono immigrare in Israele e ottenere la cittadinanza immediata, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno parenti nel Paese. E lungi dal negare la natura discriminatoria della legge, Lapid l’ha esaltata. La legge, ha spiegato in un tweet del luglio 2021, “è uno degli strumenti destinati a garantire la maggioranza ebraica nello Stato di Israele”.

Quando Tucker Carlson [giornalista televisivo conservatore USA, NdT] e Viktor Orban utilizzano questo tipo di logica –quando promuovono politiche volte a garantire che la percentuale di cristiani bianchi nei loro Paesi non scenda troppo in basso– i liberali ebrei americani la riconoscono come un anatema al principio di uguaglianza della cittadinanza su cui poggia la democrazia liberale. Tuttavia, molti ora vedono Lapid come il campione della democrazia liberale, perché si oppone alle riforme giudiziarie di Netanyahu.

Un’altra figura importante nel movimento anti-Netanyahu è l’ex Ministro della Difesa Benny Gantz, che il mese scorso ha esortato gli israeliani a “protestare per la salvaguardia della democrazia israeliana”. Ma come Ministro della Difesa, nel 2021 Gantz ha designato sei importanti gruppi palestinesi per i diritti umani come organizzazioni terroristiche, in quello che il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha definito “un atto caratteristico dei regimi totalitari”. Le truppe israeliane hanno poi fatto irruzione negli uffici di una di queste organizzazioni, hanno sequestrato i documenti e poi hanno saldato le porte. Queste sembrano azioni di qualcuno interessato a ‘salvaguardare’ la democrazia?

Ma il problema non si limita a questi politici. Quando i leader ebrei americani come Alan Solow esprimono solidarietà con quegli “israeliani determinati a proteggere la loro democrazia”, non solo si illudono sui principali oppositori di Netanyahu. Si illudono sulla stessa statualità ebraica.

Un manifestante a Tel Aviv che tiene in mano una bandiera palestinese durante una manifestazione contro il governo di estrema destra del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Tsafrir Abayov/Associated Press

Per la maggior parte dei palestinesi sotto controllo israeliano – quelli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza – Israele non è una democrazia. Non è una democrazia perché i Palestinesi nei Territori Occupati non possono votare per il governo che domina le loro vite. Quando Gantz invia le truppe israeliane per chiudere i loro gruppi per i diritti umani, i palestinesi della Cisgiordania non possono punirlo alle urne. Possono lamentarsi con l’Autorità Palestinese. Ma l’Autorità Palestinese è un subappaltatore, non uno stato. Come gli altri palestinesi, i suoi funzionari hanno bisogno del permesso israeliano anche per lasciare la Cisgiordania. Anche a Gaza, Israele determina, con l’aiuto dell’Egitto, quali persone e prodotti entrano ed escono. E i residenti di Gaza, che vivono in quella che Human Rights Watch definisce “una prigione a cielo aperto”, non possono votare contro i funzionari israeliani che hanno le chiavi della prigione.

Questa mancanza di diritti democratici aiuta a spiegare perché i palestinesi sono meno motivati degli ebrei israeliani a difendere la Corte Suprema di Israele. Come notano i professori di diritto israeliani David Kretzmer e Yael Ronen nel loro libro “L’occupazione della giustizia“, “in quasi tutte le sue sentenze relative ai Territori Occupati, soprattutto quelle che riguardano questioni di principio, la Corte ha deciso a favore delle autorità”. Un indebolimento della Corte minerebbe le protezioni legali che gli ebrei israeliani danno per scontate, ma di cui la maggior parte dei palestinesi non ha mai goduto.

Per essere precisi, circa il 20 per cento dei palestinesi sotto controllo israeliano gode della cittadinanza israeliana e del diritto di voto alle elezioni israeliane. Eppure, spesso sono proprio questi palestinesi a protestare con più forza contro le credenziali democratiche di Israele. Nel 2009, il membro palestinese della Knesset Ahmad Tibi ha detto che Israele è davvero “ebreo e democratico”: democratico verso gli ebrei ed ebreo verso gli arabi”. Per molti sionisti liberali, ciò potrebbe sembrare scortese. Dopo tutto, Tibi fa parte del Parlamento israeliano da quasi 25 anni. Ma Tibi sa che lo Stato ebraico contiene una struttura profonda che nega sistematicamente ai Palestinesi l’uguaglianza legale, che siano cittadini o no.

Considerate com’è assegnata la terra in Israele. La maggior parte della terra all’interno di Israele è stata confiscata ai Palestinesi durante la guerra di indipendenza di Israele alla fine degli anni ’40, quando più della metà della popolazione palestinese fu espulsa o fuggì per paura. All’inizio degli anni ’50, il governo israeliano controllava più del 90% della terra di Israele. Lo fa ancora. Il governo distribuisce terra per lo sviluppo e la affitta ai cittadini attraverso l’Israel Land Authority. Quasi la metà dei posti nel consiglio direttivo di questa Authority sono riservati al Fondo Nazionale Ebraico, la cui missione è “rafforzare il legame tra il popolo ebraico e la sua patria”.

Questo spiega perché i Palestinesi sono più del 20 percento dei cittadini israeliani, ma i municipi palestinesi, secondo un rapporto del 2017 di vari gruppi per i diritti umani palestinesi e israeliani, comprendono meno del 3 percento della terra di Israele. Nel 2003, una commissione governativa israeliana ha rilevato che “molte città e villaggi arabi sono circondati da terreni designati per scopi quali zone di sicurezza, consigli regionali ebraici, parchi nazionali e riserve naturali o autostrade, che impediscono o ostacolano ogni possibilità di espansione”. Non potendo ottenere il permesso di costruzione, molti cittadini palestinesi costruiscono case illegalmente, che sono quindi soggette alla demolizione da parte del Governo. Il 97% degli ordini di demolizione in Israele tra il 2012 e il 2014, secondo il rapporto del 2017, sono stati emessi contro i Palestinesi.

Non è un caso. È la logica conseguenza dell’autodefinizione di Israele. Israele non è uno “Stato per tutti i suoi cittadini”, un concetto a cui Lapid ha detto nel 2019 di essersi opposto “per tutta la vita”. Nel 2018, quando diversi legislatori palestinesi hanno proposto una legge “per ancorare nella legge costituzionale il principio della pari cittadinanza”, lo speaker della Knesset ha stabilito che tale legge non poteva nemmeno essere discussa perché avrebbe “intaccato le fondamenta dello Stato”. Nello stesso anno, la Knesset ha approvato una legge che riafferma l’identità di Israele come “Stato-nazione del popolo ebraico”, il che significa che il paese appartiene agli ebrei come me, che non vivono lì, ma non ai palestinesi che vivono sotto il suo controllo, nemmeno ai pochi fortunati che hanno la cittadinanza israeliana. Tutto questo è accaduto prima che il nuovo governo Netanyahu prendesse il potere. Questa è la vibrante democrazia liberale che i sionisti liberali vogliono salvare.

Alcuni ebrei potrebbero temere che, sostenendo una vera democrazia liberale –esponendosi quindi alle accuse di antisionismo– i critici di Netanyahu si emarginerebbero. Ma se allargano la loro visione, vedranno che è vero il contrario. Includendo i palestinesi come partner a pieno titolo, il movimento democratico israeliano scoprirà un vasto serbatoio di nuovi alleati e svilupperà una voce morale molto più chiara. In ultima analisi, un movimento basato sull’etnocrazia non può difendere con successo lo stato di diritto. Solo un movimento per l’uguaglianza può farlo.

Peter Beinart (@PeterBeinart) è professore di giornalismo e scienze politiche presso la Newmark School of Journalism della City University di New York. È anche redattore di Jewish Currents e scrive The Beinart Notebook, una newsletter settimanale.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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