Da un apartheid all’altro, tra Soweto e Nazareth

Feb 13, 2023 | Notizie

di Jean Stern,

Orient XXI, 10 febbraio 2023. 

Gli abitanti di Nazareth non vivono sotto occupazione militare come in Cisgiordania o sotto il blocco come a Gaza. Ma tra la township di Soweto vista nel 1989 e la città araba nel nord di Israele del 2022, lo stato d’animo degli abitanti e l’organizzazione urbana e sociale rispecchiano quella forza trainante alla base dell’apartheid che è la separazione.

Nazareth, con a sinistra il campanile della Basilica dell’Annunciazione. Zeitfixierer/Flickr

Dal nostro inviato speciale a Nazareth.

Settembre 1989. Ero andato a Soweto, poco prima della liberazione di Nelson Mandela l’11 febbraio 1990, per vedere l’enorme township alle porte di Johannesburg, che allora contava più di due milioni e mezzo di abitanti. Il sistema di apartheid, che aveva privato la popolazione nera del Sudafrica del diritto di cittadinanza relegandola in determinate aree dette riserve, stava crollando da ogni parte. Sotto l’influenza di Mandela e dei sostenitori della sua causa, le manifestazioni si erano moltiplicate per le strade delle città sudafricane, con violente repressioni a Soweto come nel resto del Paese. Durante le proteste furono centinaia le vittime, come avviene da decenni a centinaia di palestinesi durante le manifestazioni a Gaza, nei territori occupati, a Gerusalemme est, ma anche a Nazareth. Nell’autunno del 2000, la polizia israeliana uccise molti cittadini di Nazareth, che protestavano in segno di solidarietà con la rivolta di Gerusalemme Est.

“STIAMO CONQUISTANDO LA NOSTRA LIBERTÀ”

Nel 1989 Soweto era un mondo a parte, un’immensa città-ghetto, ma allora era meno isolata dal mondo di quanto lo siano oggi Gaza e i territori palestinesi occupati. Si poteva entrare e uscire, anche se, a seconda delle circostanze, la polizia controllava in maniera più o meno rigida l’accesso alle sue stradine strette e alle baracche con i tetti di lamiera.

Andavo in giro di notte per gli shebeen [bar illegali] di Soweto, incontrando gente piena di ottimismo che pianificava il futuro di un paese che presto si sarebbe liberato da un sistema razzista condannato da tutto il mondo. “Stiamo conquistando la nostra libertà”, gridava Souizo, un uomo sulla trentina, che stava ballando con me per la gioia di vedere crollare il sistema di apartheid. Dopo così tanta rabbia e tanti morti, Souizo sapeva bene che la mobilitazione mondiale aveva fatto conoscere a tutti la loro battaglia. Insieme ai suoi amici, era orgoglioso di spazzare via un sofisticato e subdolo sistema di discriminazione.

Trent’anni dopo, a Nazareth, una grande e polverosa cittadina orientale, invece, incontro persone preoccupate, depresse, che pensano che non ci siano prospettive per il loro futuro. Meta di pellegrinaggio per una parte della cristianità, famosa in tutto il mondo quanto Soweto, la città nella regione storica della Galilea si trova entro i confini del 1948, non lontano dal lago di Tiberiade. In linea d’aria, Jenin dista solo una ventina di chilometri. Nell’area metropolitana di Nazareth, popolata prevalentemente da arabi, musulmani e cristiani, oggi vivono circa 200.000 persone.

I miei interlocutori condividono il punto di vista profetico di Nelson Mandela, espresso in questa dichiarazione del 2001:

“Il valore della separazione è misurato in termini di abilità, da parte di Israele, di mantenere lo Stato ebraico, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza in futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare una democrazia o uno stato bi-nazionale laico, oppure trasformarsi in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure“.

“SÌ, È VERO, SIAMO VISTI CON SOSPETTO”.

La maggior parte delle persone che incontro, che una volta si chiamavano arabi israeliani e che oggi preferiscono, quasi tutti, definirsi palestinesi, ne sono la prova. Aveva ragione Mandela. Cittadini di seconda classe, solidali con i palestinesi rinchiusi dall’altra parte del muro o bloccati a Gaza, la gente qui ha effettivamente l’impressione di vivere quotidianamente in un sistema di apartheid. “È così, per noi non ci sono prospettive, a meno che non lasciamo questo Paese. Ed è anche vero che siamo visti con sospetto dalla maggioranza ebraica. Certo, non dicono “morte agli arabi” tutti i giorni, come i coloni più estremisti, ma molti lo pensano”, dice Nassira [tutti i nomi sono di fantasia], una giovane architetta.

Nazareth è cambiata dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Prima c’era la Nazareth “bassa”, 75.000 abitanti, di cui il 35% cristiani. Per più di un secolo, la città dell’Annunciazione è stata prevalentemente musulmana. “Nazareth è stata segnata nel 1948 dall’espulsione della popolazione e dalla demolizione da parte degli israeliani di due vicini villaggi palestinesi, Saffuriyya e Ma’alul”, spiega Reda, intellettuale palestinese sulla trentina, molto impegnato. Far andar via la popolazione araba era lo scopo della costruzione, nel 1956, di una Nazareth “alta”, chiamata Nazareth Illit, 40.000 abitanti, che ha cambiato nome, con un referendum nel 2019, in Nof HaGalil per distinguerla dalla rivale araba. Nazareth Illit è nata come un progetto urbano pensato per riequilibrare la popolazione della Galilea. In questo Paese, la demografia governa la politica, come già aveva notato Mandela. Nel 1973, migliaia di persone appena sbarcate dall’ex URSS si stabilirono a Nazareth Illit. Dopo un sordido fatto di cronaca, come prima cosa, scesero in piazza al grido di “morte agli arabi”.

La separazione degli spazi urbani è evidente ad occhio nudo, nonostante non ci siano posti di blocco o barriere tra la vecchia Nazareth araba e quella nuova a maggioranza ebraica.

All’arrivo, si trovano due centri commerciali, il primo nella conca alle porte della città vecchia e il secondo sulle alture all’ingresso di Nof HaGaIlil. Quello in basso si chiama Big Fashion e quello in alto Mail One. Sono quasi uno di fronte all’altro, a poche centinaia di metri di distanza. Hanno gli stessi marchi internazionali, quello sotto: H&M, Adidas, Mango, Pizza Hut, Mc Donald; quello sopra: di nuovo Adidas e ancora Mango, Castro e Diesel. La separazione c’è già: un centro per gli arabi, l’altro per gli ebrei. A Nazareth si evita di incrociarsi. Alla popolazione nera di Soweto non era permesso fare acquisti nei lussuosi centri commerciali del centro di Johannesburg, e quindi ci si accontentava delle bancarelle all’interno del ghetto, spesso gestite da indiani, “Indians” secondo il sistema di classificazione dell’apartheid.

“L’APARTHEID PARTE DAL MIO LETTO”

Ricchi e poveri, bianchi o neri, ebrei o arabi, la regola della separazione porta alla divisione della società. Possiamo tradurre il termine apartheid con un mettere da parte, ed è quello che sta accadendo in Israele. Come racconta Mata, cittadino israeliano, musicista sulla quarantina, capigliatura alla Jim Morrison: “La legge porta alla discriminazione. Ad esempio, io e mia moglie abbiamo due status diversi; quindi l’apartheid è già nel mio letto”. Nassira, sua moglie, è “residente” a Gerusalemme Est, dove è nata, e infatti non ha gli stessi diritti di suo marito.

“È molto semplice”, mi spiega Nassira. Mata ha il diritto di votare, io no. Può decidere, all’improvviso, di prendere un aereo per andare dove vuole, io no. Ha potuto scegliere la facoltà, io no. Viviamo insieme, ma io potrei essere costretta, dalla sera alla mattina, a tornare a Gerusalemme Est”. Nella primavera del 2022, la Knesset, il parlamento israeliano, ha ripristinato una legge che vieta il ricongiungimento familiare per matrimonio tra palestinesi di Israele, Gerusalemme Est e territori occupati.

Quale democrazia riserva quattro diversi status a una parte della sua popolazione, a seconda che viva a Nazareth – entro i confini del 1948 – a Gerusalemme Est, in Cisgiordania o a Gaza?

“L’IDENTITÀ ARABA È PERCEPITA COME UNA MINACCIA”.

Reda denuncia anche la legge sullo stato-nazione approvata nel 2018, che definisce ufficialmente Israele come “la casa nazionale del popolo ebraico”. “Non capisco come facciano ad accettarlo gli amici di Israele. Non mi importa se sono ebreo, cristiano o musulmano. Qui l’identità araba è percepita come una minaccia. I media, la vox populi ci fanno capire chiaramente che facciamo parte dei nemici di Israele”, puntualizza.

La piccola galleria-libreria-sala concerti nel cuore di un suq in pieno rinnovamento, dove ci ritroviamo di sera per uno spettacolo della cantante elettro-folk Sama Mustafa, è un posto accogliente, come lo sono i tanti caffè nei dintorni, tipo il Center Baladna – in arabo “la nostra città” – inaugurato nel 2021 da un gruppo di giovani palestinesi.

Ritrovo la stessa atmosfera degli shebeen. Come a Soweto, qui tutti hanno una storia di oppressione, di umiliazione da raccontare. “In questo posto stiamo bene, è la nostra oasi”, mi spiega Louisa. “Per noi non vuol dire nulla essere israeliani. Il mio bisnonno era turco, mio nonno inglese, mio padre israeliano. Israele non è il mio Paese, e me lo fa capire”.

Siman è un simpatico quarantenne che proviene da una famiglia comunista e cristiana di Nazareth. Ha lavorato a lungo nel cinema, a Tel Aviv e nel mondo. “Nell’ottobre 2000, a Nazareth, abbiamo organizzato manifestazioni a sostegno dell’Intifada. C’è stata una brutale repressione, con diversi morti. È stato allora che ho capito che Israele era uno stato di apartheid. Non voglio più essere un burattino che si può rinchiudere dentro”. Siman fa una breve pausa. “Gli israeliani non hanno interesse a risolvere le discriminazioni, le usano e le gestiscono. È questo il loro apartheid”.

Il giorno dopo, incontro Khaled, un professore di matematica, che mi ha detto più o meno la stessa cosa. “L’apartheid? Bisogna intendersi sul significato delle parole. Ti faccio un esempio: posso dire di essere antisionista; quindi ho una certa libertà di espressione, ma non posso sposare una ragazza di Ramallah o di Gaza, che, a sua volta, non potrà vivere con me. E se, ad esempio, lavorassi nella filiale di Nazareth di una società informatica di Tel Aviv, verrei pagato il 40% in meno di un ebreo israeliano…”.

A Soweto avevo incontrato un commesso di un’azienda di profumi, che guadagnava molto meno dei suoi colleghi bianchi e che inoltre non lavorava nello stesso posto.

“HO CAPITO CHE QUESTA ERA LA MIA TERRA”

Ovviamente anche a Nazareth c’è una ricca borghesia araba, così come a Soweto esisteva una borghesia nera. Amat è un ragazzo in gamba, molto simpatico che lavora in una società di gestione, e fa la bella vita. Ha 27 anni, guida una decappottabile, indossa abiti firmati e si distrugge tra due smartphone. Si fa il segno della croce davanti a ogni chiesa, rendendo divertente ma caotico il giro delle stradine strette e ripide nella sua coupé… “Dico semplicemente che mi chiamo Amat, non dico mai se sono cristiano, musulmano o ebreo”, mi spiega, mentre mi porta a fare un giro approfondito alle porte della città, tra angoli visibili come un viale o uno scorcio di quartiere e altri più nascosti. Mi fa notare, ad esempio che “ci sono molti bambini musulmani nelle scuole cristiane, ma non ci sono cristiani o musulmani nelle scuole ebraiche”. Amat sottolinea anche un clima d’insicurezza dilagante. I numerosi e cruenti regolamenti di conti tra narcotrafficanti sono, per lui, la dimostrazione che al governo importi poco della vita degli arabi. Amat mi dice anche che è impossibile per la sua famiglia acquistare un appartamento sulle alture di Haifa o a Tel Aviv. Non si tratta di soldi, la questione è un’altra: “non ce la venderebbe nessuno”.

Kaïd è un ragazzo esile, poco più che adolescente. Ha 18 anni e, nella primavera del 2021, ha subito un arresto arbitrario, un pestaggio, passando tre notti in carcere. Kaïd aveva protestato in segno di solidarietà ai palestinesi di Gerusalemme Est, Gaza e Cisgiordania. La manifestazione è stata però brutalmente dispersa, con l’arresto di molti giovani a Nazareth, ma anche ad Haifa e a Lod. Kaïd confessa senza vergogna di aver avuto paura. “Ho l’età per andarmene in giro a divertirmi, ma le cose che mi sono capitate mi hanno cambiato. Dopo, sono andato per la prima volta in vita mia a Gerusalemme e a Betlemme. Lì ho capito che questa era la mia terra”. La cosa che lo rende più orgoglioso è che suo nonno e suo padre hanno lottato istancabilmente per farlo rilasciare, e non hanno mai condannato il fatto di aver manifestato.

Per Reda, a cui racconto la storia di Kaïd, “parlare di una polizia che ci prende di mira è come parlare di apartheid”. “Dieci o vent’anni fa, quando parlavamo di apartheid, ci accusavano di essere troppo radicali”, aggiunge. Un’organizzazione per i diritti umani israeliana, B’tselem, ha pubblicato un rapporto sull’apartheid, seguito poi da Amnesty. È un bene sapere almeno che la questione dei nostri diritti non è più a geometria variabile”.

Anche se, aggiunge Mata, “ancora non si muove nulla. E questo è molto deprimente”.

IN PRIMA LINEA PER L’ACCESSO ALL’ACQUA E ALL’ISTRUZIONE

Due estratti dal rapporto di Amnesty International fanno luce sui diversi livelli di discriminazione subita dai palestinesi a seconda del loro luogo di residenza. Per chi vive nei territori palestinesi occupati, l’accesso all’acqua è limitato. Il loro consumo è di circa 70 litri al giorno a persona, contro i 369 litri di un colono israeliano. Secondo l’ONU, il 90% delle famiglie di Gaza deve comprare l’acqua a prezzi carissimi dagli impianti di desalinizzazione o depurazione. Anche i palestinesi che vivono in Israele hanno accesso alle stesse quantità di acqua degli altri cittadini. Con l’unica eccezione dei beduini del Negev, soggetti a una serie di misure restrittive, compreso l’accesso all’acqua corrente…

Per quanto riguarda l’istruzione, gli studenti palestinesi provenienti da contesti svantaggiati in Israele e Gerusalemme Est dispongono di minori possibilità rispetto a quelli israeliani. Secondo uno studio del 2016, i finanziamenti per l’istruzione primaria sono stati del 30% in meno, per la scuola media del 50% in meno e per l’istruzione secondaria del 75% in meno.

A giudizio dei tanti detrattori della posizione di Amnesty, ciò che può sembrare pertinente per la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est non lo è in Israele prima del 1967. Questo vuol dire dimenticare che, dopo la Nakba, gli arabi rimasti in Israele furono sottoposti, dal 1948 al 1966, a un regime militare con espulsioni dalle loro case e arresti arbitrari, oltre che a un rigido sistema di controllo e sorveglianza – antesignano di Pegaso. Uno dei meriti del rapporto di Amnesty è stato proprio quello di aver rispolverato un pezzo di Storia.

JEAN STERN è stato giornalista di Libération, di La Tribune e di La Chronique d’Amnesty International. Nel 2012 ha pubblicato Les Patrons de la presse nationale, tous mauvais per La Fabrique; con le edizioni Libertalia: nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv e nel 2020 Canicule.

Traduzione dal francese di Luigi Toni

https://orientxxi.info/magazine/da-un-apartheid-all-altro-tra-soweto-e-nazareth,6218

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