Per la Palestina, la giustizia non è una questione di leggi

Feb 9, 2023 | Notizie, Riflessioni

di Mark Muhannad Ayyash,

Al-Jazeera, 8 febbraio 2023. 

Mentre ci adoperiamo per la liberazione della Palestina, non dobbiamo dimenticare che il diritto internazionale stesso è una forma di violenza imperiale.

Un uomo sventola la bandiera nazionale palestinese durante una protesta contro le operazioni di Israele nella Striscia di Gaza. Sul fondo Ofer, una prigione militare israeliana presso la città di Ramallah in Cisgiordania. 18 novembre 2012 [AP Photo/Majdi Mohammed]

In questi giorni, gran parte degli sforzi per smantellare il sistema di apartheid e di colonizzazione israeliana sul popolo palestinese sembrano seguire un approccio legale.

Gli studiosi, gli attivisti e persino i politici che si occupano della questione suggeriscono sempre più spesso che la strada verso la liberazione della Palestina passa attraverso l’emissione di un parere legale che definisca ufficialmente come apartheid e colonialismo l’espulsione violenta dei Palestinesi da parte di Israele.

La recente risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA), che chiede alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) di esprimere un parere sulle conseguenze legali dell’occupazione illegale dei territori palestinesi da parte di Israele, è l’esempio più recente di questa tendenza.

Sostengo e incoraggio con convinzione tutti questi sforzi e sono ben contento che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite abbia approvato questa importante risoluzione. Sebbene sia scettico, spero davvero che il parere della Corte Internazionale di Giustizia rifletta le condizioni reali in cui versano i palestinesi e contribuisca a dissipare la propaganda israeliana. Tuttavia, non credo che sia produttivo o saggio confinare tutti gli sforzi per la liberazione della Palestina entro la cornice dei diritti umani e del diritto internazionale.

La lotta palestinese per la liberazione deve essere articolata e multidimensionale. Dobbiamo assicurarci che l’approccio legale non diventi il volto predominante della lotta palestinese. È – e deve rimanere – solo una delle sue sfaccettature. Dopo tutto, il nucleo della lotta palestinese non è mai stato e non sarà mai di tipo legale. È una lotta di e per la giustizia, non per la legge. C’è una differenza fondamentale tra le due cose.

L’approccio legale ha molti punti deboli, il che significa che, se viene perseguito da solo o se viene posto come aspetto principale della lotta, finirà per danneggiare la causa palestinese.

In primo luogo, il sistema giuridico internazionale spesso non riesce a inquadrare correttamente la violenza di stato come una questione politica e la tratta come una questione esclusivamente criminale. Di conseguenza, intende la giustizia solo come punizione dei singoli colpevoli, lasciando inalterate e non analizzate le complesse strutture politiche, le logiche e le dinamiche che sono alla radice del problema.

In secondo luogo, i tribunali internazionali devono affrontare notevoli resistenze, comprese le questioni sui limiti della loro giurisdizione, ogni volta che tentano di definire legalmente e di emettere un verdetto sulla violenza perpetrata da stati che appartengono al blocco di potere imperiale degli Stati Uniti (di cui Israele fa parte). Pertanto, se un tribunale, come la Corte Internazionale di Giustizia o la Corte Penale Internazionale (CPI), osa definire Israele come stato di apartheid, sarà attaccato dai potenti e influenti alleati di Israele. E, cosa forse più importante, il parere di questi tribunali probabilmente non porterà ad alcuna significativa azione punitiva contro Israele da parte dei leader della comunità internazionale, ma ad un annacquamento del significato dei termini utilizzati per definire le azioni violente di Israele.

Oltre a queste limitazioni, c’è anche il fatto che il sistema giuridico internazionale è stato creato dalle potenze imperiali per proteggere la loro egemonia e servire ai loro interessi. In effetti, le strutture legali a cui si dice agli oppressi e agli emarginati di affidarsi per affrontare la violenza imperiale e coloniale sono esse stesse una parte cruciale del sistema politico che ha generato quella violenza. Legittimano, mantengono e giustificano attivamente la violenza imperiale e coloniale, compresa quella di Israele contro i Palestinesi.

Il diritto internazionale, che dovrebbe essere un veicolo neutrale per la giustizia, è in realtà una forma di violenza in sé e per sé. Quando dico che il diritto è una forma di violenza, non mi riferisco al modo in cui lo Stato colonizzatore utilizza il diritto per legittimare ciò che i suoi militari hanno ottenuto con la forza bruta. Mi riferisco piuttosto a come la legge stessa sia un risultato e una continuazione della violenza coloniale e imperiale. La violenza perpetrata dai potenti convalida la legge, le conferisce uno scopo, una legittimità e un potere. Pertanto, la legge è progettata per soffocare, non per rafforzare, la resistenza palestinese.

Tutto questo non significa che il sistema legale non possa essere utilizzato dagli oppressi per avanzare verso la liberazione. Può e deve farlo. Ma le origini coloniali violente e la natura delle strutture legali attualmente in uso ci avvertono che noi palestinesi non dobbiamo concentrare solo sulla legge i nostri sforzi per la liberazione e la giustizia.

Dobbiamo ricordare che la validità della nostra causa non dipende dalle istituzioni legali che definiscono la violenza di Israele contro di noi come apartheid, colonialismo d’insediamento o altro. Le istituzioni giuridiche incaricate di dare queste definizioni sono parte integrante dell’ordine politico che ha spianato la strada all’insediamento della colonia di israeliani. Sono parte integrante del sistema che lavora per proteggere Israele e nascondere la sua vera natura e la brutalità della sua aggressione e della sua violenza.

È improbabile che un qualunque tribunale descriva accuratamente la violenza di Israele e raccomandi in tempi brevi una significativa azione correttiva e punitiva da parte della comunità internazionale. Ma anche se riuscissimo a destreggiarci nel difficile terreno politico e ad ottenere un parere legale che riconosca Israele come uno stato coloniale che pratica l’apartheid, non otterremmo necessariamente giustizia. Certo, un tale risultato porterebbe qualche sollievo a livello socioculturale e aggiungerebbe nuovo impeto alla lotta palestinese. Tuttavia, non produrrebbe i risultati desiderati sul fronte politico e non porterebbe a un cambiamento sistemico. Al contrario, le definizioni di “apartheid” e “colonialismo d’insediamento” verrebbero probabilmente cooptate e diluite per salvare Israele da ogni controllo, nello stesso modo in cui concetti come “decolonizzazione”, “antirazzismo” o “diversità” sono stati diluiti e svuotati negli ultimi anni.

Non dobbiamo mai dimenticare che non si tratta di un sistema legale intrinsecamente neutrale, che sta affrontando qualche pressione da parte di attori potenti. Abbiamo a che fare con un sistema giuridico che è stato progettato per legittimare e mantenere la stessa violenza che stiamo cercando di definire ed eliminare.

Affinché il sistema giuridico internazionale diventi uno strumento veramente utile per promuovere la causa palestinese, tale sistema deve passare attraverso un processo di decolonizzazione radicale. Possiamo e dobbiamo avere un dibattito separato su come dovrebbe essere questo processo e su quali strategie dovremmo perseguire per arrivarci. Ma come palestinesi, non dovremmo mai perdere di vista cosa sia realmente il diritto internazionale e i limiti di ciò che può fare per noi in questo momento.

Se cerchiamo la liberazione, dovremmo concentrarci non sulla legalità, ma sulla giustezza della nostra causa, come definita e determinata dalla nostra vissuta esperienza di oppressione e dalle nostre aspirazioni a una vita libera e decolonizzata. Quello che Israele e i suoi potenti alleati imperiali non riescono a capire è che la stessa violenza che essi infliggono ai Palestinesi è una fonte di resistenza, dalla quale viene continuamente alla luce la giustezza della nostra lotta.

Mark Muhannad Ayyash, è professore di Sociologia presso la Mount Royal University di Calgary, Canada. È autore di Un’ermeneutica della violenza (UTP, 2019), e analista politico presso Al-Shabaka, la Rete Politica Palestinese. È nato e cresciuto a Silwan, Gerusalemme, prima di immigrare in Canada. Attualmente sta scrivendo un libro sulla sovranità del colonialismo d’insediamento.

https://www.aljazeera.com/opinions/2023/2/8/it-will-be-justice-not-law-that-liberates-the-palestinians

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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