Sovranità alimentare: la colonizzazione dell’agricoltura palestinese

Dic 16, 2022 | Notizie

di Jessica Anderson,  

Mondoweiss, 12 maggio 2022.   

La tavola palestinese è famosa per la sua abbondanza, ma è anche soggetta a un’abbondanza di restrizioni in virtù del sistema di colonialismo e apartheid di Israele.

Un riassunto grafico di Visualizing Palestine evidenzia come queste restrizioni si sommino alla negazione della sovranità alimentare palestinese, definita da La Via Campesina come “il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente sani e sostenibili, e il loro diritto a decidere i propri sistemi alimentari e agricoli”. La sovranità alimentare è un principio importante abbracciato dal movimento per la giustizia ambientale che collega i popoli indigeni, le comunità contadine, i senza terra e i piccoli e medi produttori alimentari di tutto il mondo. Questi gruppi svolgono un ruolo essenziale nella sicurezza alimentare, ma spesso si vedono negare il controllo della terra su cui fanno affidamento per la sopravvivenza fisica, ecologica e culturale.

La sovranità alimentare si fa portavoce dei diritti della terra

Uno dei sette principi della sovranità alimentare definiti da La Via Campesina è la riforma agraria, o riforma che “dà ai senza terra e ai contadini –specialmente alle donne– la proprietà e il controllo della terra che lavorano e restituisce i territori ai popoli indigeni”. La riforma agraria richiede anche che il diritto alla terra sia libero da discriminazioni. L’importanza di questo principio è ben visibile nel contesto della Palestina, dove il colonialismo israeliano ha privato i palestinesi del diritto a gran parte delle loro terre agricole, creando alti tassi di insicurezza alimentare.

I palestinesi hanno una lunga e ricca eredità agricola nella Mezzaluna Fertile. Come agricoltori, hanno coltivato i campi e i frutteti per generazioni; come pescatori, hanno raccolto dal loro mare; e come pastori, hanno vagato per le loro colline rocciose e le zone aride. All’epoca della dominazione coloniale britannica, i palestinesi coltivavano già circa l’85% della terra coltivabile in Palestina, utilizzando tecniche di baal a pioggia e a basso input, in armonia con il clima e l’economia locali.

La negazione della sovranità alimentare palestinese da parte di Israele è radicata nella sua politica fondiaria discriminatoria in tutte le aree controllate. Durante la Nakba del 1948, i profughi palestinesi hanno perso quasi 460.000 ettari di terreni agricoli, di cui lo Stato israeliano si è rapidamente appropriato per la creazione di insediamenti agricoli esclusivamente ebraici. I campi e i frutteti palestinesi conquistati sono stati celebrati come un segno del successo del sionismo e della sua ideologia di supremazia etnica. Nella regione del Naqab, Israele ha rapidamente espropriato l’85% delle terre dei beduini palestinesi per farne terra dello Stato.

L’appropriazione di terreni agricoli da parte di Israele e l’assalto alle comunità rurali continuano nell’odierna Nakba in corso. Nella Gaza occupata e assediata, il 35% dei terreni agricoli è inaccessibile a causa delle misure militari israeliane. Il Centro Al Mezan per i diritti umani ha riferito che la marina israeliana ha attaccato i pescatori nelle acque territoriali palestinesi 2.265 volte dal 2007 al 2021. Nella Cisgiordania occupata, il 63% dei terreni agricoli è sotto il completo controllo israeliano nell’Area C, e le comunità rurali palestinesi dell’Area C sono tra le più vulnerabili alle politiche israeliane di sfollamento forzato. Nella Valle del Giordano, l’esercito israeliano utilizza terreni agricoli e pascoli palestinesi per le esercitazioni, lasciando dietro di sé munizioni inesplose che hanno poi ucciso e ferito i palestinesi. Il muro taglia fuori il 10% della Cisgiordania, costringendo migliaia di agricoltori palestinesi a chiedere alle autorità israeliane il permesso di coltivare la propria terra al di là del muro. Nel 2020, Israele ha negato il 73% delle richieste di permesso degli agricoltori.

Il caso in corso di Masafer Yatta è un esempio di come Israele prenda inesorabilmente di mira le comunità rurali palestinesi dell’Area C per il trasferimento forzato e l’urbanizzazione. Masafer Yatta comprende 20 comunità beduine palestinesi di agricoltori e pastori che vivono sotto l’occupazione militare israeliana nelle Colline a Sud di Hebron. Dopo aver dichiarato l’area zona di tiro negli anni ’80, le autorità israeliane hanno perseguitato queste comunità con esercitazioni militari, demolizioni di case e lunghi procedimenti giudiziari. La Corte Suprema israeliana, che si schiera sempre dalla parte degli insediamenti illegali israeliani, ha recentemente respinto un appello per impedire l’espulsione di oltre 1.000 residenti di Masafer Yatta, aprendo la strada all’ultima puntata di una campagna di pulizia etnica che dura da decenni.

Secondo le leggi fondiarie ottomane, un modo per acquisire la proprietà della terra in Palestina era quello di coltivarla per un periodo continuo di dieci anni senza obiezioni da parte dello Stato. Erano riconosciuti anche diritti fondiari collettivi per il pascolo e altri usi comuni. Israele ha reinterpretato e manipolato queste leggi per giustificare la privazione dei diritti fondiari dei palestinesi che coltivano solo una parte della loro terra o che smettono di coltivarla a causa di restrizioni israeliane, fattori ambientali o altre ragioni. Inoltre, Israele non tiene conto dei diritti fondiari collettivi dei palestinesi.

Se la politica coloniale israeliana sulla terra è alla base dell’insicurezza alimentare dei palestinesi, la volontà di Israele di controllare il massimo della terra con il minimo dei palestinesi ha prodotto una pletora di misure per regolamentare e limitare i produttori agricoli non ebrei. Queste includono la negazione del diritto all’acqua, la negazione della libertà di movimento, gli attacchi dei coloni israeliani (commessi impunemente), il controllo delle importazioni e delle esportazioni, i divieti per i pastori e i raccoglitori e la criminalizzazione dei Comitati dell’Unione per il Lavoro Agricolo

Ecco alcuni dettagli sui vari cibi esaminati da Visualizing Palestine.

ACQUA. Israele ha il controllo dell’acqua in Cisgiordania e distrugge regolarmente le infrastrutture idriche. Il 97% dell’acqua di Gaza è contaminato.

CAPRE NERE. Bandite, confiscate, uccise tra il 1950 e il 2017, riducendo drasticamente la base del sostentamento delle comunità Beduine.

LATTE, UOVA. Il sistema israeliano delle quote restringe il mercato dei produttori palestinesi in Israele (territorio del 1948); in Cisgiordania e a Gaza, i prodotti israeliani dominano il mercato.

PESCE. Dal 2007 al 2021, nella ristretta zona di pesca di Gaza ci sono stati 2.265 attacchi della marina israeliana contro i pescatori.

ZA’ATAR, SALVIA, ‘AKOUB. Proibita la raccolta; pene pecuniarie o periodi di carcerazione per i trasgressori.

UVA, MELANZANE, POMODORI, CIPOLLE. In Cisgiordania, soggette a restrizioni su ordini militari fin dagli anni 1980; le politiche discriminatorie impediscono agli agricoltori di competere con i prodotti delle colonie illegali israeliane.

POMODORI, FRAGOLE. Israele controlla tutte le importazioni e le esportazioni; limita la possibilità che i prodotti di Gaza raggiungano i mercati.

VERDURE. Il 35% della terra coltivabile di Gaza è inaccessibile; 1.300 ettari danneggiati da erbicidi.

OLIVE. Dal 1947, circa 1 milione di ulivi sono stati sradicati dalle forze israeliane; nel 2021 i coloni hanno rubato o vandalizzato il raccolto di 1.600 ulivi.

FUNGHI. Bloccando l’importazione di prodotti essenziali ed imponendo costi di stoccaggio ai porti, nel 2016 Israele ha costretto alla chiusura una impresa di produzione.

GRANO, MIGLIO, ORZO. Le importazioni controllate da Israele stanno soppiantando le varietà adattate al clima locale e riducendo la biodiversità.

Il greenwashing dell’insicurezza alimentare

A causa della soppressione della loro sovranità alimentare, nel 2021 il 69% delle famiglie palestinesi a Gaza e il 33% nei Territori Palestinesi occupati erano in condizioni di insicurezza alimentare. La dipendenza dagli aiuti alimentari è particolarmente elevata a Gaza, dove i settori agricoli e della pesca, un tempo fiorenti, sono stati devastati dal blocco israeliano, che a giugno compirà quindici anni. Il concetto di sovranità alimentare sfida il paradigma dell’insicurezza alimentare, che spesso non affronta le cause strutturali e sistemiche della fame e della povertà, in questo caso le strutture del colonialismo d’insediamento israeliano e dell’apartheid.

Come se non bastasse, Israele ha sfruttato il suo controllo sull’acqua e su altre risorse per costruire un suo settore tecnologico agricolo fiorente e di rilievo mondiale. Tecniche come l’irrigazione a goccia, la desalinizzazione e il riutilizzo delle acque reflue sono decantate come soluzioni all’insicurezza alimentare e idrica in un clima che cambia. Ma le stesse politiche che incoraggiano gli israeliani a innovare contribuiscono a nascondere sotto l’etichetta ecologica l’insicurezza alimentare e il de-sviluppo che i palestinesi sperimentano sotto il dominio israeliano. Agricoltori palestinesi, ambientalisti e difensori dei diritti umani hanno documentato che la gestione dell’acqua da parte di Israele danneggia gli ecosistemi, le agroeconomie e i diritti umani dei palestinesi, lasciando i loro campi e i loro rubinetti a secco e sovvenzionando l’acqua per la produzione intensiva degli insediamenti israeliani.

Il settore delle tecnologie agricole esemplifica una scelta di soluzioni puramente tecnologiche che sono alla base delle politiche sul cambiamento climatico nelle sedi del potere. Si tratta spesso di approcci dettati dalle imprese e approvati dai governi, che si concentrano sull’ottimizzazione dei fattori produttivi, sulla massimizzazione delle rese e sulla spinta dei piccoli agricoltori ad abbandonare i metodi tradizionali a favore di sistemi consolidati che privilegiano il cibo come merce rispetto al cibo come fonte di nutrizione. Il movimento per la sovranità alimentare rifiuta il dominio delle multinazionali e delle organizzazioni multilaterali nella definizione delle politiche agricole, sostenendo invece il controllo democratico sui sistemi alimentari e il riconoscimento dell’importanza delle conoscenze indigene e contadine nel forgiare un futuro sostenibile libero da fame, povertà, sfruttamento dei lavoratori e degrado ambientale.

Questo articolo si basa sul precedente lavoro di Visualizing Palestine sulla giustizia ambientale in Palestina, che esplora concetti quali la vulnerabilità climatica, il colonialismo verde, il razzismo ambientale e il colonialismo estrattivo.

Un ringraziamento speciale a Growing Palestine per la sua collaborazione in questa pubblicazione, e ai molti agricoltori, ambientalisti, ricercatori e collettivi agricoli palestinesi il cui impegno è all’avanguardia nel sollevare questi problemi.

Jessica Anderson è vicedirettrice di Visualizing Impact (VI), un’organizzazione no-profit che crea strumenti visivi basati sui dati per la giustizia sociale.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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1 commento

  1. Sebastiano Comis

    Le torri di Sionne

    In ogni paesino di case bianche e rosse
    in cima alle colline, c’è una torre cilindrica.
    – Di che cosa si tratta? Di un minareto, forse,
    o di un campanile, se arabi cristiani?
    – In quei Lego villaggi non c’è moschea né chiesa
    perché lassù ci vivono ricciuti americani
    ortodossi seguaci di un’altra religione
    arrivati da Brooklyn alla Terra Contesa.
    – Allora sono torri per la loro difesa,
    posti di osservazione per tiratori scelti?
    – Ci sono già a proteggerli i loro militari.
    – E allora cosa sono? – Ma i serbatoi dell’acqua
    rubata alle sorgenti dei contadini arabi:
    che quando i loro campi saranno secchi e aridi
    e le greggi stremate e gli olivi divelti
    dovranno andare profughi, come già i loro padri.
    E la terra rimasta davvero senza popolo
    passerà nelle mani dei nuovi proprietari
    che ne faranno un Eden di kiwi e frutti vari,
    senza pensare al prima né prevedere il dopo.

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