Se dobbiamo parlare di Rabin, parliamo del diritto al ritorno

Nov 4, 2022 | Notizie, Riflessioni

di Yaara Benger Alaluf,  

Mondoweiss, 1 novembre 2021.   

Anche se ricordato come un pacificatore, Yitzhak Rabin fu uno dei principali responsabili della politica di pulizia etnica di Israele.

Yitzhak Rabin durante il suo secondo termine come primo ministro israeliano, luglio 1994 (Wikimedia/ Ufficio Stampa del governo)

Questa settimana, nelle scuole israeliane si terranno cerimonie di commemorazione di Yitzhak Rabin, assassinato il 4 novembre 1995 e ricordato come l’artefice del processo di pace con i Palestinesi. Come in ogni settimana di questo tipo – e in ogni settimana della storia di Israele, se è per questo – agli studenti verrà fornita una prospettiva parziale e distorta, invece di una spiegazione chiara dei fatti storici e degli strumenti di pensiero critico necessari per comprenderli e trarne conclusioni. Uno dei fatti tenuti nascosti ai bambini e ai giovani israeliani è che Rabin fu uno dei principali responsabili della politica di pulizia etnica a partire dalla guerra del 1948 e durante la maggior parte della sua carriera militare e politica.

Il trasferimento forzato è uno dei crimini più crudeli che si possano commettere contro individui o gruppi. È un crimine che ha avuto un ruolo formativo nella storia del popolo ebraico, dello Stato di Israele e del popolo palestinese. Sradicamento e rifugio, tuttavia, non sono solo eventi del passato: sono centrali nella realtà vissuta di tutti i Palestinesi. Pertanto, imparare a conoscere come è stato compiuto lo sradicamento dei Palestinesi e come si è impedito il loro ritorno è essenziale anche per gli ebrei israeliani interessati a una comprensione più profonda e critica della nostra realtà.

Ora che tutti parlano di Rabin, esploriamo la storia dello sradicamento dei Palestinesi che è così intrecciata alla sua biografia personale. Invece di una celebrazione di cliché militaristi, dedichiamo questa giornata al riconoscimento e alla compassione, alla responsabilità e al risarcimento.

Espellere le persone dalle loro case e dalle loro terre e impedire il loro ritorno è una pratica estremamente crudele che viola i diritti umani più fondamentali ed è quindi severamente vietata dal diritto internazionale. Tuttavia, e nonostante una storia ebraica ricca di espulsioni ed esili, l’espulsione è stata parte integrante della storia di Israele sin da quando ha ottenuto l’indipendenza – e in realtà molto prima. Yitzhak Rabin fu attivo nelle operazioni di pulizia etnica per tutta la sua vita adulta.

Già nel luglio del 1948, in qualità di vice comandante dell’Operazione Dani, ordinò personalmente che tutti gli abitanti di Lydda “fossero espulsi rapidamente, senza badare all’età” e “fossero diretti verso Beit Nabala [allora sotto il controllo giordano]”. Migliaia di rifugiati, intere famiglie, anziani, donne e bambini marciarono per circa 15 miglia verso est, in piena estate. Decine di loro, tra cui bambini, morirono nel viaggio.

La deportazione degli abitanti di Lydda e della vicina Ramla non fu un evento eccezionale durante la guerra del 1948, anzi faceva parte della sua logica fondamentale. In un’intervista rilasciata allo storico Avi Shlaim nel 1982, Rabin spiegò ciò che da allora gli storici hanno ripetutamente chiarito: la leadership sionista approfittò della guerra per espandere il territorio assegnato allo Stato ebraico nel Piano di Spartizione dell’ONU del 1947, occupando “quelle aree che erano veramente dentro la nostra anima”, tra cui la Galilea Occidentale, Jaffa, Lydda e Ramla – quest’ultima, secondo Rabin, era “un vero osso nella gola dello Stato”.

In pratica, la ricerca di uno Stato con una maggioranza ebraica significativa portò a una pulizia etnica realizzata attraverso l’evacuazione forzata, lo sradicamento obbligato e soprattutto la negazione del diritto al ritorno. Molto è stato scritto a questo proposito, e le fonti storiche primarie sono sufficienti per comprendere l’atmosfera di quel tempo (ad esempio, il piano regolatore Plan Dalet; un rapporto dell’intelligence su “La migrazione degli arabi di Palestina” dal dicembre 1947 al giugno 1948; e le discussioni ufficiali sul trasferimento e sull’impedimento del ritorno, citate ad esempio in Morris 1986 e Masalha 1992).

È vero, anche senza essere espulsi deliberatamente, i civili tendono a fuggire da disastri e guerre; cercano un rifugio temporaneo e pensano di tornare a casa una volta che la tempesta è passata. Tuttavia, non si può spiegare il fatto che il territorio che sarebbe diventato lo Stato di Israele abbia perso l’85% dei suoi abitanti palestinesi, le cui terre sono state prese, le cui case sono state distrutte e il cui ritorno è stato impedito fino ad oggi in violazione del diritto internazionale, borbottando che “nelle guerre succedono cose brutte”. Nemmeno la responsabilità di questa o dell’altra parte per lo scoppio della guerra è in alcun modo rilevante per razionalizzare queste atrocità.

Per quanto riguarda l’espulsione di decine di migliaia di civili dalle città gemelle di Ramla e Lydda, Rabin stesso ha scritto nel suo diario: “Psicologicamente, quella è stata una delle azioni più difficili che abbiamo intrapreso. La popolazione di Lod non se ne andò di buon grado. Non c’era modo di evitare l’uso della forza e degli spari di avvertimento per costringere gli abitanti a percorrere le 10-15 miglia fino al punto di incontro con la legione”. Questa difficoltà psicologica a quanto pare non impedì a Rabin di continuare a supervisionare operazioni simili. Nel 1956, ora capo del comando settentrionale, guidò il trasferimento dei Palestinesi che abitavano le aree smilitarizzate lungo il confine siriano. In quella stessa intervista con Shlaim, disse: “Ho approfittato dell’Operazione Kadesh [la Crisi di Suez] e di fatto ho cacciato tutti gli abitanti arabi… e li ho trasferiti nel territorio siriano”. Per evitare il loro ritorno, i rifugiati dovevano firmare dei moduli in cui dichiaravano di partire di propria volontà: “Naturalmente ci sono state minacce, e hanno firmato che si stavano trasferendo volontariamente”.

Nella guerra del 1967, ora Capo di Stato Maggiore, Rabin fu responsabile dei trasferimenti sistematici nelle Alture del Golan, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. In alcuni casi, i civili furono costretti a salire sugli autobus o a marciare forzatamente verso la Transgiordania, come ad esempio nel caso delle città di Anata, Qalqilia e Tulkarm, nonché dei villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba nell’area di Latrun, che furono anche demoliti dai militari dopo l’espulsione. Anche in questi casi, i rifugiati furono obbligati a dichiarare che se ne stavano andando di loro spontanea volontà. Molti di coloro che cercavano di tornare alle loro case nell’immediato dopoguerra furono colpiti a morte mentre tentavano di attraversare il fiume Giordano. Più di 300.000 persone furono sfollate con la forza durante la guerra sotto il comando di Rabin, più della metà delle quali erano rifugiati del 1948.

Il coinvolgimento di Rabin nella Nakba non terminò con il suo ritiro dal servizio militare. Nel 1976, durante il suo primo governo (lo stesso governo che rinnovò massicce acquisizioni di terra allo scopo dichiarato di “giudaizzare la Galilea”, dando vita alla Giornata della Terra Palestinese), i candidati alla carica di sindaco in diverse città della Cisgiordania furono espulsi per evidenti motivi politici. All’epoca, il capo dell’intelligence militare Shlomo Gazit dichiarò in un’intervista: “Abbiamo usato l’espulsione contro coloro che erano coinvolti, o cercavano di essere coinvolti, in attività politiche. Non volevamo aver a che fare con attivisti politici in tribunale. Questo ci avrebbe messo in imbarazzo. Era scomodo per noi, quindi abbiamo deciso di sbarazzarci di loro, e la cosa si è dimostrata efficace. Dopo alcune deportazioni, il livello dell’attività politica si ridusse” (Haaretz, 17 gennaio 1992, citato in un rapporto di B’Tselem).  

Durante il suo mandato come Ministro della Difesa nei governi di unità nazionale (dal settembre 1984 al marzo 1990), si calcò la mano sulla popolazione palestinese e la politica di deportazione, quasi completamente sospesa a metà degli anni ’70 (durante il suo primo mandato come Primo Ministro), fu ripresa nuovamente. Durante la Prima Intifada, il Ministero della Difesa sotto la sua guida e il Ministero della Giustizia guidato da Dan Meridor erano in disaccordo sulla richiesta di Rabin di consentire le deportazioni istantanee entro 72 ore dall’emissione dell’ordine militare. L’opposizione del Ministero della Giustizia e dell’Alta Corte di Giustizia a questo capriccio non durò a lungo.

Durante l’Intifada, nel dicembre 1992, in seguito al rapimento e all’omicidio dell’ufficiale di polizia Nissim Toledano, Rabin ordinò una deportazione massiccia di oltre 400 palestinesi in Libano. Si trattava di abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza considerati dall’establishment della difesa come “agitatori, quegli abitanti che nelle loro attività mettono in pericolo la vita umana, o che incitano a compiere tali attività” – in altre parole, non si trattava di individui direttamente collegati al rapimento di Toledano, né di persone che rappresentavano un pericolo immediato. In effetti, contrariamente alla sua stessa procedura, lo Shin Bet (Agenzia per la Sicurezza di Israele) non ebbe nemmeno il tempo di preparare e presentare “materiale di intelligence per esaminare le prove amministrative [cioè non giudiziarie] contro le persone designate per l’espulsione”.

L’ordine di espulsione fu eseguito poche ore dopo la decisione del Governo, senza che agli espulsi venisse detto dove erano diretti. Per più di 12 ore, mentre l’ordine veniva discusso presso l’Alta Corte di Giustizia, i prigionieri furono tenuti in autobus, con gli occhi coperti e le mani legate. Si è trattato chiaramente di un atto di vendetta, un atto illegale di punizione collettiva. Anche la Procuratrice Dorit Beinish l’ha vista così: si è rifiutata di difendere lo Stato in tribunale e ha persino sostenuto che la condotta del Governo in questa vicenda “soffriva di tutti i difetti immaginabili”.

Spazio per tutti coloro che sentono che questa è la loro patria

Ventisei anni sono passati dall’assassinio di Rabin. Rabin fu assassinato perché si pensava che avesse fatto delle ‘concessioni’ ai palestinesi. Questo nonostante il suo curriculum, una parte del quale è stata descritta qui, e nonostante il fatto che gli Accordi di Oslo da lui firmati nel 1993 con l’OLP fossero ben lontani dal rappresentare un giusto processo di pace, ma fossero piuttosto una mossa pragmatica volta a perpetuare i rapporti di potere ineguali tra Israele e i Palestinesi. Con il passare degli anni, persino la discussione sulla cosiddetta ‘pace’ con i Palestinesi in occasione degli anniversari di Rabin è stata sostituita da una discussione interna israeliana (ebraica) sulla necessità di mantenere “l’unità del popolo (ebraico)”. Rabin ha dedicato gran parte della sua vita a cancellare i Palestinesi dalla loro terra, e ora il Ministero dell’Istruzione israeliano sta facendo del suo meglio per cancellarli anche dalla coscienza degli studenti.

Uno degli spunti per le lezioni sull’assassinio di Rabin suggeriti dal Ministero si chiama “Spazio per tutti – Dall’ideale alla realtà“. Si rivolge all’anniversario come “un momento di riflessione e un’opportunità di dialogo sulla necessità di sanare le ferite e ricucire le spaccature nella società israeliana… per assicurarsi che lo Stato di Israele, quel sogno transgenerazionale che si sta realizzando, sia in grado di permettere e dare spazio a tutti”. Tutti, tranne i palestinesi. 

Dobbiamo davvero parlare di ‘spazio per tutti’, spazio per tutti coloro che sentono che questa è la loro patria, spazio per tutti coloro che sono stati sradicati, che sono nati in esilio, che non possono nemmeno visitare la terra dove vivevano le loro madri e i loro padri. Come ebrea-israeliana dico: è nostra responsabilità e diritto correggere questo errore ed essere la generazione coraggiosa che aprirà la strada al ritorno dei rifugiati palestinesi. Questo ritorno è essenziale per la riconciliazione e la convivenza. Può avvenire senza ulteriori danni, agli ebrei o ad altri. Inoltre, è la chiave per una pace giusta e duratura. Preferisco trasformare anche questo giorno in un giorno di speranza e di riparazione.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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