Francesca Albanese: il mio impegno per i diritti in Palestina

Giu 17, 2022 | Notizie

di Anna Maria Selini,

Altreconomia, 9 Giugno 2022.   

Intervista alla neo Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Che dice: “L’occupazione si è trasformata in apartheid. Era inevitabile che il dibattito esplodesse prima o poi. Trovo incredibile come in Italia non se ne parli, con la connivenza dei media

 “Non sono una partigiana, anche se mi appassiona quello che faccio. Questa è prima di tutto una questione di giustizia, per i palestinesi, ma anche per gli israeliani: l’apartheid è una forma di corruzione e la violenza genera sempre violenza”. Francesca Albanese, 45 anni, neo Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, dice di non temere il delicato incarico che ricopre da maggio, prima donna in assoluto, anzi: “È il continuum naturale del mio percorso. Ho intenzione di usare la mia posizione per dare spazio, al di fuori delle sedi istituzionali, a chi si batte per il rispetto dei diritti in quella regione, siano palestinesi o israeliani”.

Francesca Albanese

Avvocato, quali esperienze l’hanno portata a ottenere questo incarico?
FA 
Innanzitutto la conoscenza e la passione per la situazione mediorientale. Le immagini dSabra e Shatila sono i primi ricordi di affari esteri di cui ho memoria. Fu la prima volta che sentii parlare di rifugiati palestinesi. Sono cresciuta in una famiglia in cui si discuteva di temi come il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Poi è venuto l’attivismo negli anni universitari. Ma il vero momento che mi ha segnato sono stati gli studi alla School of oriental and african studies (Soas) di Londra: ho capito quanto il diritto fosse centrale nella questione israelo-palestinese. Per anni ho lavorato per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite e per l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi. Ho vissuto in Palestina ed è stata un’esperienza molto forte. Come se il mio corpo, da occidentale cresciuta in pace, non fosse abituato a quella violenza gratuita, umiliante, quasi bullismo, mai vista prima. Ero già stata in zone di conflitto, ma lì non c’era il conflitto: la violenza veniva perpetrata da persone normali, che poi tornavano a vivere una vita normale, per via della demonizzazione dei palestinesi imposta da una cultura militare. Ho provato un senso di impotenza nella mia esperienza personale nelle agenzie delle Nazioni Unite e questo mi ha portato a scrivere il libro Palestinian refugees in international law” (Oxford university press, 1998): volevo dare un senso a ciò che non capivo del mio mandato. Così ho conosciuto Michael Lynk, il mio predecessore, che vista anche la mia esperienza da coordinatrice dei programmi per i rifugiati palestinesi, mi ha incoraggiato a presentare la candidatura.

Le ha suscitato più piacere o timore la nomina?
FA 
Ho un profilo ibrido e sono una preda facilissima per i denigratori del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ma non ho paura. Ho già ricevuto attacchi e visto come hanno tormentato i miei predecessori. È quella che uno di loro, Richard Falk, ha definito the politics of deflection: si attacca chi ti critica, per deviare l’attenzione da quello che dice.

Quali sono i suoi compiti?
FA 
Il mio mandato prevede l’osservazione di ciò che succede nella Palestina occupata. Questo implica condurre visite, stilare rapporti e tutto ciò ritenga utile. L’incarico dura sei anni (è a titolo gratuito, ndr) e annualmente devo presentare una relazione al Consiglio per i diritti umani e una all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Qual è il quadro dal punto di vista del diritto internazionale della situazione dei palestinesi?
FA 
È un popolo che vive sotto occupazione militare da 55 anni. L’occupazione non è illegale di per sé, ma perché non giustificata, proporzionale o temporanea. Viola tre norme fondamentali: la proibizione di acquisizione di nuovi territori, con l’espandersi delle colonie; la proibizione del razzismo e il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.

Recentemente Amnesty International ha parlato di apartheid. È d’accordo con l’uso di questo termine?
FA 
L’occupazione si è trasformata in apartheid. Era inevitabile che il dibattito esplodesse prima o poi. Trovo incredibile come in Italia non se ne parli, con la connivenza dei media.

Chi critica le misure del governo e dell’esercito israeliano si vede spesso rivolgere l’accusa di antisemitismo. Come se ne esce?
FA 
Se ne esce ascoltando i 300 intellettuali ebrei che hanno firmato la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo: criticare Israele non è antisemita. Il BDS, il movimento che propone boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, nemmeno. Antisemita è chi discrimina un ebreo perché tale. Il diritto di pensiero e di critica non possono essere messi in discussione. Il messaggio che passa, così, è che i palestinesi non hanno altro spazio per il dissenso che la violenza. Non è nemmeno corretta l’idea che tutti gli israeliani supportino tale atteggiamento: ci sono accademici, esponenti della società civile e organizzazioni dei diritti israeliane contrarie. Certo, negli ultimi anni il distacco tra i due popoli è aumentato.

In merito all’uccisione della giornalista di Aljazeera, Shireen Abu Akleh, lei ha ipotizzato un crimine di guerra. Compete alla Corte penale internazionale dell’Aja? Non dovrebbe già esserci un’inchiesta sulla Palestina?
FA 
Sì, l’omicidio andrebbe investigato a livello internazionale. Colpisce la rapidità della Corte penale internazionale sull’Ucraina e come sulla questione palestinese, nonostante perdurino violazioni, un’occupazione, e ci siano state quattro guerre contro Gaza, non sia stata ancora aperta un’inchiesta. L’ex procuratore Fatou Bensouda, per evadere dubbi, aveva chiesto una pronuncia della Corte in merito alla sua giurisdizione ed è risultato che rientra tra le sue facoltà. Il fatto che non si sia ancora aperta un’inchiesta è quanto meno sospetto. In alternativa si possono adire le Corti della giurisdizione universale, cosa non fatta, ma interessante.

Cioè?
FA 
Se per esempio un colono è cittadino di un Paese le cui corti nazionali sono competenti per lo Statuto di Roma, può essere processato nel suo Paese.

Quali sono invece le violazioni commesse dai palestinesi?
FA 
Io mi occupo delle violazioni dei diritti dei palestinesi. Israele è il soggetto primario a compierle ma vengono attuate anche dalle autorità palestinesi ai danni dei loro connazionali e io mi sento obbligata a segnalarle. Ho seguito la vicenda di Nizar Banat, critico verso l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e ucciso dalla polizia palestinese. Penso alla repressione molto forte del malcontento in Cisgiordania. Gaza ha una situazione ancora più complessa. Non ci deve essere una doppia cappa sui palestinesi.

Perché secondo lei i palestinesi sono usciti dalle agende internazionali?
FA Lo Stato di Israele è stato molto efficace a far passare l’equazione “resistenza uguale terrorismo”.
 Ma un’occupazione necessita chiaramente violenza e ne genera a sua volta. Quel che conta è la volontà dei palestinesi: il diritto all’autodeterminazione è di realizzazione immediata, non devono dimostrare nulla, ma è incompatibile con un’occupazione.

Perché il diritto internazionale è così debole?
FA 
Non lo è. È la coscienza politica della comunità internazionale a esserlo. Ci sono due pesi e due misure, un chiaro lascito della mentalità coloniale che sopravvive nella maniera di guardare certe aree, subordinandole ai propri interessi. Ma i diritti umani valgono per tutti.

È infattibile pensare allo schieramento di caschi blu sui confini, come tra Libano e Israele?
FA 
Servirebbe una dichiarazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma il veto è probabile, oltre al consenso di chi amministra territorialmente l’area.

Che cosa dovrebbe succedere per cambiare la situazione dei palestinesi?
FA 
Innanzi tutto rispettare il diritto. Israele deve ritirare le truppe dai territori che occupa in maniera illegale almeno dal 1967 e togliere l’assedio di Gaza, che non è giustificato: non si può considerare autodifesa l’oppressione di un popolo. Servirebbe una pressione internazionale come per l’Ucraina. La Carta delle Nazioni Unite è chiara: quando sono in pericolo la pace e la sicurezza, si può ricorrere a diverse misure, incluse le sanzioni.

A maggio un rappresentante del Parlamento europeo non è potuto entrare in Israele per recarsi nei territori occupati. Come un suo predecessore. Andrà a Gaza? Se non la faranno entrare, passerà dall’Egitto?
FA 
Vorrei, ma anche entrare dall’Egitto è problematico. Obiettano questioni di sicurezza e in passato hanno offerto di ospitare incontri da loro. Per fortuna la tecnologia ha aperto nuovi orizzonti.

È ottimista?
FA 
No. Ma ho fede negli esseri umani.

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