“Huda’s Salon” un nervo scoperto della Palestina – ultimo film di Hany Abu Assad

Apr 4, 2022 | Iniziative

Una recensione di Giuseppina Fioretti – di Cinema senza diritti – Venezia

Il film “Salon Huda” è l’ultimo lavoro cinematografico dell’apprezzato regista palestinese Hany Abu Assad che ha sollevato aspre polemiche non solo perché tratta un argomento molto caro al regista, il tema del collaborazionismo di cui ha già parlato in “Omar” nel 2013 e prima ancora magistralmente in “Paradise Now” nel 2005, ma perché tocca un altro argomento spinoso, la libertà delle donne.

“Salon Huda” narra una storia vera che testimonia il grado di ferocia dell’occupazione israeliana sulla vita dei palestinesi, il grado di invasione e oltraggio delle loro esistenze nei loro segreti più personali. L’intelligence israeliana sin dai primi anni dell’occupazione ha investito milioni di dollari in strutture e unità di spionaggio, la famosa task force 8200 risale al 1952 ed aveva il compito di realizzare una mega raccolta di dati sui movimenti politici e militari palestinesi, oltre che sui singoli individui. Nel tempo la tecnologia si è evoluta fino a produrre software di spionaggio molto sofisticati come Pegasus. Anche durante la prima Intifada, per garantirsi il controllo degli spazi, il servizio segreto israeliano, l’ala militare dello Shin Bet, reclutava con la forza i collaborazionisti e tra essi sceglieva i più fragili. Le donne erano tra questi. Alcuni saloni di parrucchiere divennero i luoghi di reclutamento delle donne: qui venivano drogate, denudate e fotografate in posizioni compromettenti per poi essere ricattate. Alcune di esse si suicidarono, altre furono eliminate dagli israeliani quando non collaboravano. Si tratta di una vicenda scomoda, come scomodo è il tema del collaborazionismo. Il regista Hany Abu Assad nei suoi film ne ha sempre parlato riuscendo a trasmettere agli spettatori l’idea che esso rappresenti una delle conseguenze proprie dell’occupazione, quella più destabilizzante. Ma è proprio questo tema ricorrente che lo espone alle critiche e condanne più aspre sia nel mondo del cinema che in quello politico. In questo suo ultimo lavoro cinematografico il fenomeno del collaborazionismo viene affrontato sul piano psicologico e intimo. Per questo ha scelto di narrare le vicende di donne violate nella loro intimità, nel loro corpo e nella loro volontà. 

La protagonista è l’attrice palestinese Maysa Abdel Hadi, che interpreta la giovane mamma Reem, vittima del un ricatto alla cui base c’è il capillare sistema di controllo e repressione israeliano. A ricattarla è Huda (Manal Awad) che gestisce un salone di bellezza e che è diventata spia perché l’intelligence israeliana aveva scoperto la sua relazione extraconiugale. Ora è una donna sola, non ha più alcun rapporto con i figli e il suo ex marito; questa sua condizione le fa guadagnare la fiducia e l’empatia delle clienti che le raccontano dei loro drammi familiari. Quando la bella Reem si presenta un giorno con la sua bambina per un taglio di capelli e inizia a confidarle i suoi problemi coniugali e le sue disattese aspettative sulla vita di coppia, Huda decide di agire. Dopo averla drogata, con l’aiuto di un complice la denuda e le scatta foto compromettenti. Al risveglio inizia per Reem un incubo drammatico. La scena di nudo, che ha sollevato molte critiche e feroci invettive, è una metafora forte ed efficace, dura pochi istanti, e rappresenta il preambolo di altre nudità, quelle che vanno in scena durante tutto il film: il confronto tra uomini e donne, tra donne e donne, tra vittima e occupante. Un confronto che il regista opera attraverso dialoghi fortemente introspettivi.

In questo film gli uomini non ci fanno una gran bella figura: l’occupante è una voce al telefono, una presenza viscida dietro un cellulare, un chiaro rimando alle unità israeliane di spionaggio tecnologico dello Shin Beth.

Jalal Masarwa è Yousef, il marito di Reem, e interpreta un ruolo molto diffuso nella realtà: il marito geloso, vittima di una madre invadente e di una società spesso maschilista che madre e figlio continuano ad alimentare; un uomo poco attento al dramma della moglie ma soprattutto inutile, l’antitesi di un compagno di vita.

Ali Suliman interpreta Hasan, il capo del controspionaggio palestinese, che ha il compito di interrogare Huda e smantellare la rete di spie. Molto toccante è il dialogo tra i due durante l’interrogatorio in cui lo stesso Hasan mette a nudo i suoi segreti. Huda, paradossalmente, nel ruolo vile della collaborazionista, appare più dignitosa degli uomini con i quali ha avuto a che fare, consapevole dei suoi torti di collaborazionista non opporrà resistenza e vacillerà solo al ricordo dei figli.

Alle donne, ai loro corpi e ai loro visi, il regista affida la denuncia, la rabbia, il coraggio della disperazione. Questo ci trasmette il viso e l’espressione di Maysa Abdel Hadi alla fine del film. Considerando le polemiche che stanno accompagnando questa pellicola, forse il regista ha studiato ad hoc la scena finale che sembra lasciare allo spettatore l’ultima parola, interrogato dallo sguardo di Reem.

Questa storia andava narrata per la sua drammaticità e per denunciare la perfidia dell’occupante, ma forse con qualche flashback in più perché per lo spettatore che non conosce molto bene la vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana diventa difficile comprendere il contesto in cui si sviluppano i fatti. La mancanza di azione è bilanciata dalla tensione crescente per il destino di Reem, che ci accompagna fino alla fine. Il film sta subendo dure critiche che in alcuni casi sono sfociate in minacce all’attrice protagonista. Rischiando le accuse di un femminismo eurocentrico che non mi appartiene, difendo la scena di nudo integrale della bravissima Maysa Abdel Hadi. Non è la prima volta di un nudo in un film palestinese, già in “Nozze in Galilea” di Michel Khleifi, premiato a Cannes dalla critica nel 1987, la giovane sposa protagonista apparve quasi nuda. L’attrice in quel caso però non era araba.

Forse perché Maysa Abdel Hadi, famosa per aver interpretato Layal nel film “3000 nights” diretto da Mai Masri, è una giovane promessa del cinema palestinese ma anche molto attiva politicamente (nel maggio 2021 è stata ferita a un piede da un soldato israeliano mentre partecipava a una manifestazione di solidarietà con gli abitanti di Sheikh Jarrar) certo è che questa scena di nudo a Maysa è costata veramente molto. In realtà il regista e la troupe sono stati bersaglio di critiche sia per questa scena che per il modo in cui il film insiste sul fenomeno del collaborazionismo.

A Maisa Abdel Hadi, indipendentemente dai ruoli che interpreta nella fiction, parte della società araba e palestinese chiede di essere nella vita una donna con “sharaf”, onore. Una donna che può avere molti ruoli, può essere anche ritratta mentre soffre nella realtà per una ferita causata dall’occupante, ma non può e non deve mostrarsi nuda in base al concetto di “sharaf”, concetto di possesso dell’uomo sulla donna, sul suo corpo. Un uomo può giurare sul proprio onore, “bi sherafi”, la donna no. Perché l’onore è prerogativa dell’uomo. 

Naturalmente questo pensiero non appartiene a tutti in Palestina ma rappresenta un ulteriore nemico delle donne palestinesi, oltre all’occupazione israeliana, cioè il patriarcato. Ed è a questo punto che la finzione si mescola alla realtà, perché se è vero che la scena di un nudo femminile in un film palestinese scatena critiche e censure, è anche vero che di questa situazione ne approfitta il sistema di occupazione israeliana. Nel film vediamo come questo ricatto basato sul concetto di “sharaf” porti all’arruolamento di spie, mentre nella realtà di oggi queste critiche alimentano la propaganda neocon che narra di una società integralista. Nonostante la censura, il dibattito nella società palestinese si è acceso e rimane tale tra chi condanna il film in nome di valori tradizionali e chi invita a un confronto democratico anche su temi scottanti come quello del patriarcato e delle questioni di genere rigettando e condannando le minacce alle due protagoniste.

Recentemente sulla pagina FB di Palestine Film Institute (Cinematic Dialogs/ Episode 7) si è svolto un interessante confronto tra le due attrici Lina Soualem e Hiam Abbas. Quest’ultima è l’indimenticabile interprete di Salma in “Il giardino dei limoni” di E. Riklis, che alterna il ruolo di attrice a quello di regista. In questo dialogo tra lei e Soualem, Hiam Abbas ha ribadito che nella vita dei palestinesi non c’è nulla di apolitico e che il cinema palestinese di conseguenza è un cinema politico in cui le donne hanno un ruolo determinante sia come attrici che come registe. Tuttavia, sottolinea che all’inizio della sua carriera cinematografica la società palestinese era più disposta ad accettare nuove idee mentre oggi i comportamenti individuali e artistici subiscono giudizi religiosi che tendono a permeare la società ed in tutto questo la prima vittima è la donna palestinese. A questo punto del confronto-intervista, Hiam Abbas esprime solidarietà alle due protagoniste del film Saloon Huda ricordando che è legittimo criticare un film se non ci piace, ma è importante rispettare il lavoro delle attrici e la loro scelta del modo in cui interpretarli.

Personalmente ritengo che il dibattito scaturito sia molto significativo e che mostri un dinamismo all’interno della società palestinese che fa ben sperare soprattutto se non permettiamo allo sguardo occidentale e neocon di manipolarlo.

Infine auspico che a Maysa Abdel Hadi e a Manal Awad giunga ulteriore solidarietà dal mondo femminile del cinema arabo, non solo palestinese, in cui molte donne hanno diretto ed interpretato film di denuncia contro i delitti di onore e la violenza di genere.

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