Il prossimo passo nella lotta antiapartheid della Palestina è il più difficile

Mar 2, 2022 | Riflessioni

diRamzi Baroud,

The Jordan Times, 22 febbraio 2022.

Nelson Mandela liberato


Quando Nelson Mandela fu liberato dalla sua prigione di Robben Island l’11 febbraio 1991, la mia famiglia, i miei amici e vicini di casa seguirono l’evento con vivo interesse, riuniti nel soggiorno della mia vecchia casa nel campo profughi di Nuseirat nella Striscia di Gaza.

Questo evento emozionante ebbe luogo anni prima che Mandela pronunciasse la sua famosa frase “la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”. Per noi palestinesi, Mandela non aveva bisogno di riaffermare la solidarietà del popolo sudafricano con la Palestina usando queste parole o qualsiasi altra combinazione di parole. Noi lo sapevamo già. Le emozioni erano alle stelle quel giorno; si versavano lacrime, si supplicava Allah che anche la Palestina fosse presto liberata. “Inshallah”, a Dio piacendo, mormoravano tutti nella stanza con un ottimismo senza precedenti.

Anche se sono passati tre decenni senza quell’agognata libertà, qualcosa sta finalmente cambiando per quanto riguarda il movimento di liberazione della Palestina. Un’intera generazione di attivisti palestinesi, cresciuti o addirittura nati dopo la liberazione di Mandela, è stata influenzata da quel momento significativo: il rilascio di Mandela e l’inizio dello smantellamento ufficiale del regime razzista e di apartheid del Sud Africa.

Neanche la firma degli accordi di Oslo nel 1993 tra Israele e alcuni membri della leadership palestinese dell’OLP (che rappresentò un grave sconvolgimento del movimento popolare di liberazione in Palestina) riuscì a stroncare la lotta israeliana per l’apartheid in Palestina. Oslo, il cosiddetto “processo di pace”, e il disastroso “coordinamento della sicurezza” tra la leadership palestinese, rappresentata dall’Autorità Palestinese (AP), e Israele, hanno messo su falsa strada le energie palestinesi, sprecato tempo, approfondito le divisioni tra le fazioni esistenti, e confuso i sostenitori palestinesi ovunque. Ma tutto ciò non è riuscito ad occupare –anche se ci ha provato– ogni spazio politico disponibile per la protesta e la mobilitazione palestinese.

Con il tempo e, di fatto, subito dopo la formazione dell’AP nel 1994, i palestinesi cominciarono a rendersi conto che quella non era una piattaforma per la liberazione, ma un ostacolo ad essa. Una nuova generazione di palestinesi sta ora cercando di articolare, o riformulare, un nuovo discorso per la liberazione basato sull’inclusività, l’attivismo di base, incentrato sulla comunità, sostenuto da un crescente movimento di solidarietà globale.

Gli eventi di maggio dello scorso anno –le proteste di massa in tutta la Palestina occupata e la successiva guerra israeliana a Gaza– hanno evidenziato il ruolo dei giovani palestinesi che, attraverso un elaborato coordinamento, una campagna incessante e l’utilizzo di piattaforme di social media, sono riusciti a presentare la lotta palestinese in una nuova luce, priva del linguaggio arcaico dell’AP e dei suoi vecchi leader. Ha anche superato, nel suo pensiero collettivo, l’enfasi soffocante e controproducente delle fazioni e delle ideologie egoistiche.

E il mondo ha risposto nello stesso tono. Nonostante la potente macchina propagandistica israeliana, le costose campagne Hasbara e il supporto quasi totale per Israele da parte dei governi occidentali e dei media mainstream, la simpatia per i palestinesi ha raggiunto un massimo storico. Ad esempio, un importante sondaggio di opinione pubblica diffuso da Gallup il 28 maggio 2021, ha rivelato che “… le percentuali di americani che guardano con favore [alla Palestina] e che simpatizzano più con i palestinesi che con gli israeliani nel conflitto, hanno raggiunto i massimi storici di quest’anno.”

Inoltre, le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui alcune israeliane, hanno cominciato a riconoscere finalmente ciò che i loro colleghi palestinesi hanno sostenuto per decenni:

“Il regime israeliano attua leggi, pratiche e violenza di stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei– su un altro –i palestinesi–”, ha detto B’Tselem nel gennaio 2021.

“Le leggi, le politiche e le dichiarazioni dei principali funzionari israeliani rendono evidente che l’obiettivo di mantenere il controllo israeliano ebraico sulla demografia, il potere politico e la terra ha da tempo guidato la politica del governo”, ha detto Human Rights Watch nell’aprile 2021.

“Questo sistema di apartheid è stato costruito e mantenuto per decenni dai successivi governi israeliani in tutti i territori che hanno controllato, indipendentemente dal partito politico al potere al momento”, ha detto Amnesty International il 1 febbraio 2022.

Ora che i diritti umani e il fondamento giuridico del riconoscimento dell’apartheid israeliano stanno finalmente prendendo piede, è questione di tempo prima che si realizzi una massa critica di sostegno popolare per il movimento antiapartheid della Palestina, spingendo i politici in tutto il mondo, ma soprattutto in Occidente, a fare pressione su Israele affinché ponga fine al suo sistema di discriminazione razziale.

Tuttavia, questo è dove i modelli del Sudafrica e della Palestina cominciano a differire. Sebbene il colonialismo occidentale abbia afflitto il Sudafrica già nel XVII secolo, l’apartheid in quel paese divenne ufficiale solo nel 1948, lo stesso anno in cui Israele fu fondata sulle rovine della Palestina storica.

Anche se la resistenza sudafricana al colonialismo e all’apartheid ha affrontato numerose e pesantissime sfide, c’era un elemento di unità che rendeva quasi impossibile per il regime dell’apartheid conquistare tutte le forze politiche di quel paese, anche dopo la messa al bando, nel 1960, del Congresso Nazionale Africano (ANC) e la successiva carcerazione di Mandela nel 1962. Mentre i sudafricani continuavano a riunirsi nelle file dell’ANC, un altro fronte di resistenza popolare, il Fronte Democratico Unito, emerse nei primi anni 1980, per svolgere diversi ruoli importanti, tra cui la costruzione della solidarietà internazionale intorno alla lotta anti-apartheid del paese.

Il sangue di 176 manifestanti del comune di Soweto e di migliaia di altri era il carburante che rendeva possibile la libertà, lo smantellamento dell’apartheid e la liberazione di Mandela e dei suoi compagni.

Per i palestinesi, tuttavia, la realtà è ben diversa. Mentre i palestinesi si stanno imbarcando in una nuova fase della loro lotta antiapartheid, va detto che l’AP, che ha collaborato apertamente con Israele, non può essere un veicolo di liberazione. I palestinesi, soprattutto i giovani, che non sono stati corrotti dal sistema decennale di nepotismo e favoritismo sancito dall’AP, devono saperlo bene.

A rigor di logica, i palestinesi non possono organizzare una campagna antiapartheid sostenuta se all’AP è permesso di servire il ruolo di rappresentante della Palestina, mentre continua a usufruire dei vantaggi e delle ricompense finanziarie associate all’occupazione israeliana.

Allo stesso tempo, non è nemmeno possibile per i palestinesi organizzare un movimento popolare in completa indipendenza dall’AP, il più grande datore di lavoro della Palestina, le cui forze di sicurezza addestrate dagli Stati Uniti sorvegliano ogni angolo di strada che rientra nelle aree amministrate dall’AP in Cisgiordania.

Mentre vanno avanti, i palestinesi devono veramente studiare l’esperienza sudafricana, non solo in termini di parallelismi storici e di simbolismi, ma per sondarne profondamente i successi, le carenze e le linee di faglia. Soprattutto, i palestinesi devono anche riflettere su una inevitabile verità: che coloro che hanno normalizzato e approfittato dell’occupazione israeliana e dell’apartheid non possono assolutamente essere coloro che porteranno libertà e giustizia in Palestina.

https://www.jordantimes.com/opinion/ramzy-baroud/next-step-palestines-anti-apartheid-struggle-most-difficult

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È l’autore di sei libri. Il suo ultimo libro, co-edito con Ilan Pappé, è “La nostra visione per la liberazione: leader palestinesi impegnati e intellettuali parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centre for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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