L’imperfetto rapporto di Amnesty sull’apartheid aiuta a trasformare il dibattito corrente, come dimostrato dalla vana difesa dello “Stato ebraico” da parte dell’Anti Defamation League

Feb 18, 2022 | Riflessioni

di David Letwin

Mondoweiss, 14 febbraio 2022. 

L’innovativo rapporto di Amnesty International sull’apartheid israeliano non sarebbe stato possibile senza la resistenza palestinese, inclusa la campagna BDS e la Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Attivisti per la pace locali e internazionali abbattono un blocco di cemento, parte della controversa barriera di separazione di Israele, durante una protesta nel campo profughi di Qalandia, vicino alla città di Ramallah, in Cisgiordania, il 9 novembre 2009 in occasione del 20° anniversario della caduta del muro ​​di Berlino in Germania. Foto di Issam Rimawi (c) Immagini APA

Il 1° febbraio 2022, Amnesty International (AI) ha pubblicato un rapporto di 280 pagine intitolato “L’apartheid israeliano contro i palestinesi: sistema crudele di dominio e crimine contro l’umanità”. Alcuni giorni prima che il rapporto venisse pubblicato ufficialmente, l’Anti-Defamation League (ADL), un eminente difensore del regime israeliano (e sabotatore reazionario dei movimenti interni per la giustizia sociale), ha rilasciato una dichiarazione in cui attacca il documento.

“Questo nuovo rapporto”, afferma la dichiarazione dell’ADL, “va oltre la critica delle politiche e delle azioni israeliane per dipingere la stessa creazione di Israele come illegittima, immorale e colpevole”, cosa che l’ADL dichiara una “caratterizzazione odiosa”.

Ma la caratterizzazione non è affatto odiosa. Al contrario, è del tutto accurata e dovrebbe essere un punto di partenza per qualsiasi discussione onesta sulla Palestina.

I fatti sono chiari. Durante la Nakba del 1948, Israele fu insediato con la forza sulla terra palestinese attraverso una campagna di terrore e pulizia etnica da parte di coloni sionisti che miravano a uno stato basato sul “massimo di terra con un minimo di arabi“. Nei 74 anni successivi, i palestinesi in tutta la Palestina storica, così come nella diaspora, sono stati soggetti a un sistema di discriminazione razzista e di espropriazione continua da parte dello stato israeliano. In effetti, uno dei contributi più importanti del rapporto è quello di chiarire che l’oppressione sistemica israeliana dei palestinesi non è iniziata, come spesso si dice, con l’occupazione del 1967, ma risale alla fondazione del regime israeliano.

La dichiarazione dell’ADL non tenta di confutare sostanzialmente nulla di tutto ciò. In effetti, la dichiarazione è priva di qualsiasi impegno critico significativo.

Non cita né si collega al rapporto stesso. Non ci sono citazioni di alcun tipo. Afferma: “L’ADL è fortemente in disaccordo con molte conclusioni di condanna formulate nel rapporto riguardo alle politiche e alle azioni israeliane, in particolare per la sua mancanza di contesto e per l’inaccurata caratterizzazione del trattamento da parte di Israele dei suoi cittadini arabi [palestinesi]”, ma non spiega mai perché l’ADL non è d’accordo con il rapporto o come le sue caratterizzazioni siano “inaccurate”. La dichiarazione afferma invece un “diritto ebraico all’autodeterminazione nella sua patria storica”, come se tale affermazione rispondesse in qualche modo ai risultati del rapporto –e a oltre 1.500 note a piè di pagina– o potesse comunque giustificare uno stato di apartheid di insediamento coloniale.

“Respingiamo del tutto”, continua la dichiarazione, “la richiesta del rapporto per il diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi, il che significherebbe in effetti la fine dell’esistenza di Israele come stato ebraico”. Sebbene questa affermazione sia chiaramente intesa a suscitare empatia verso Israele, è difficile immaginare una condanna più schiacciante del progetto sionista che ammettere che “l’esistenza di Israele come stato ebraico” dipende interamente dalla negazione del diritto universalmente riconosciuto ai rifugiati palestinesi –rifugiati creati da Israele in primo luogo– di tornare alle loro case e alla loro patria. Inoltre, in quanto diritto umano inalienabile, il diritto al ritorno dei rifugiati non può essere “respinto” specialmente dal regime israeliano. Spetta ai colonizzati rivendicare i propri diritti, non ai colonizzatori accettarli o negarli.

Nel disperato tentativo di distrarre dall’immagine fatiscente delle pubbliche relazioni di Israele, la dichiarazione dell’ADL invoca un cliché fin troppo familiare: chiamare Israele uno stato di apartheid pone “gli ebrei in pericolo” e “probabilmente porterà a un intensificato antisemitismo in tutto il mondo”. Eppure, confondendo falsamente il sionismo con tutti gli ebrei, fungendo da guardiano degli interessi imperialisti statunitensi e occidentali, abbracciando e non rifiutando il dogma antisemita sull'”alterità” ebraica e alleandosi con gli antisemiti suprematisti bianchi in tutto il mondo che vedono nello stato di Israele un riflesso della propria islamofobia e del loro desiderio per un sistema politico “razzialmente puro”, Israele stesso contribuisce allo stesso odio antiebraico da cui afferma di proteggersi.

Il rapporto AI non è al di sopra delle critiche, nonostante l’attacco dell’ADL.

In primo luogo, né il rapporto né molti di coloro che ne celebrano la pubblicazione riconoscono che i palestinesi hanno detto tutto questo e altro per decenni, solo per essere ignorati o messi a tacere non solo dall’establishment politico e mediatico mainstream, ma dall’opposizione “progressista ma non sulla Palestina“.

In secondo luogo, il rapporto non menziona né il sionismo né il colonialismo, sebbene entrambi siano alla base delle implacabili ingiustizie inflitte ai palestinesi dal 1948 (e per decenni prima).

Terzo, non riesce ad affermare che, come la resistenza indigena al colonialismo di insediamento ovunque, la resistenza palestinese a Israele è una risposta prevedibile –e giustificabile– a un regime basato sul furto di terra.

Infine, sul suo sito web AI afferma che “non ritiene che Israele, etichettandosi come uno ‘Stato ebraico’ indichi di per sé l’intenzione di opprimere e dominare”. Come potrebbe la richiesta di uno “Stato ebraico” in Palestina, uno stato in cui, nelle parole dello storico israeliano Ilan Pappe, “il valore della superiorità etnica e della supremazia prevale su qualsiasi altro valore umano e civile”, portare a qualcosa di diverso dall’oppressione e dalla dominazione?

Nonostante queste carenze, il rapporto riflette e contribuisce a un importante cambiamento nella discussione pubblica mainstream sulla Palestina, un cambiamento che sarebbe stato impensabile non molto tempo fa. Una linea è stata varcata e, andando avanti, il tentativo di Israele di imbiancarsi come uno stato “ebraico e democratico” sarà probabilmente accettato solo dai suoi complici. La frase ” Israele dell’apartheid ” probabilmente diventerà comune come lo era “il Sudafrica dell’apartheid ” ​​una generazione fa, anche perché altri saranno incoraggiati dal rapporto AI.

Ma il merito di questo cambiamento alla fine va agli stessi palestinesi, che, con poco supporto materiale esterno –al contrario di Israele, che riceve 3,8 miliardi di dollari all’anno in soli aiuti militari statunitensi– hanno resistito fermamente al tentativo di Israele di cancellarli completamente. E senza la crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) a guida palestinese e i movimenti di resistenza popolare palestinese come la Grande Marcia del Ritorno e l’Intifada dell’Unità, non è chiaro quando o se Amnesty International sarebbe arrivata alla sua posizione attuale..

Inoltre, nel movimento per rovesciare l’apartheid di Israele, la resistenza palestinese di base, non il legalismo delle ONG, deve essere posizionata in primo piano e messa al centro. Come ha recentemente spiegato Soheir Asaad, attivista palestinese ad Haifa e avvocato di Adalah, “Ci aspettiamo che i nostri alleati e sostenitori, le persone libere del mondo, siano attenti ai movimenti sul campo, ai quadri analitici che propongono e li mettano al centro”.

Che l’Anti Defamation League non abbia una risposta credibile al rapporto di Amnesty International è per molti versi significativo quanto il rapporto stesso. Mostra ancora una volta che l’establishment sionista non può difendere moralmente lo “Stato ebraico” e spiega perché fa sempre più affidamento su tattiche di “forza bruta”, come l’incostituzionale legislazione anti-BDS e le furiose accuse di antisemitismo.

Incapace di sostenere la discussione, l’unica opzione rimasta all’ADL è cercare di far tacere i sostenitori della Palestina. Sebbene tali tattiche rappresentino una reale minaccia a breve termine, non possono impedire al movimento globale di liberazione palestinese di piegare l’arco della storia verso la giustizia.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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