Sulla costanza e la sopravvivenza

Dic 4, 2021 | Notizie

di Nadia Yaqub,

Mondoweiss, 2 dicembre 2021. 

Il nuovo film di Ahmed Mansour “L’angelo di Gaza” pone una domanda difficile: cosa significa per la lotta palestinese il fatto che tante famiglie devono lasciare la Palestina per sopravvivere?

Il film del regista palestinese Ahmed Mansour, Angel of Gaza, il suo secondo da quando è arrivato negli Stati Uniti nel 2015, racconta l’esperienza di una famiglia di Gaza di fronte alla guerra, la separazione e la diaspora, vista con gli occhi della giovane figlia della famiglia. Malak, una bambina carismatica e articolata, ha sette anni quando la incontriamo per la prima volta a Gaza dove, con la madre e il fratello minore, ha vissuto l’attacco israeliano del 2014, la partenza di suo padre per gli Stati Uniti quando lei aveva solo due anni, la Grande Marcia del Ritorno, una serie di proteste nonviolente settimanali da parte degli abitanti di Gaza che chiedono il loro diritto a tornare alle loro terre in quella che è oggi Israele, e i controlli del tutto restrittivi e arbitrari al valico con Israele. Il film segue quindi il viaggio della famiglia da Gaza agli Stati Uniti per ricongiungersi con il padre.

Mansour cita i drammatici eventi della vita a Gaza che condizionano la vita di Malak e offre filmati della terribile distruzione che gli spettatori sono abituati ​​ad associare alla Striscia di Gaza, ma sceglie di non farne il tema principale del suo racconto. Non assistiamo quindi all’esperienza della famiglia con la violenza dell’attacco del 2014, le proteste del 2018-19 o il difficile attraversamento del confine. Mansour si concentra invece sulla vita quotidiana della famiglia di Malak, muovendosi in modo contrappuntistico tra le attività ordinarie di Malak, sua madre e suo fratello a Gaza e quelle di suo padre negli Stati Uniti. Malak dipinge, scrive nel suo diario, gioca con suo fratello e aiuta sua madre in cucina. Queste scene si alternano ad altre in cui il padre di Malak stabilisce la residenza permanente negli Stati Uniti e naviga nel processo burocratico per l’immigrazione della sua famiglia.

Il film di Mansour è anche insolito per il suo focus su una famiglia di Gaza relativamente privilegiata. Molti documentari su Gaza si concentrano su coloro che sono più colpiti dalla violenza israeliana e dalle condizioni di tipo carcerario mantenute da Israele e dal blocco egiziano della Striscia di Gaza: i film hanno spesso affrontato gli effetti sulla salute (sia mentale che fisica) delle ripetute esperienze di violenza, povertà e disoccupazione, degrado ambientale e strangolamento economico. I personaggi descritti nei documentari di Gaza hanno spesso perso la casa e l’infanzia. Le loro vite sono condizionate dai soccorsi e dallo stress di arrancare a fatica. In Angel of Gaza, Mansour affronta invece i rapporti familiari, il dolore della separazione e gli sforzi risoluti delle persone per ricongiungersi con le proprie famiglie.

Le esperienze di Malak e della sua famiglia rispecchiano quelle del regista stesso che è stato separato dalla sua famiglia da quando ha lasciato Gaza poco dopo la guerra del 2014. Sia per Malak che per Mansour, l’attacco israeliano a Gaza del maggio 2021 è stato il primo vissuto dall’esilio; entrambi hanno assistito da lontano alla distruzione di luoghi familiari e amati. Questa affinità conferisce al film una certa intimità, anche se Mansour protegge i suoi soggetti dalla rappresentazione voyeuristica delle loro esperienze. C’è una tranquilla dignità nell’amore costante della famiglia l’uno per l’altro in sette anni di separazione e nell’intimo legame con Gaza che essi mantengono dopo essersi stabiliti con successo negli Stati Uniti.

Angel of Gaza solleva preoccupanti questioni politiche sulla determinazione [sumud] che per decenni è stata una pietra angolare della resistenza palestinese. Cosa significa per la lotta palestinese che famiglie come quella di Malak devono lasciare la Palestina per sopravvivere? Tali storie sono relativamente rare nel cinema palestinese: mi viene in mente soltanto il lungometraggio narrativo di Cherien Dabis Amreeka (2009) e il documentario postumo di Yasser Murtaja Between Two Crossings (2018). Molto più comuni sono i film che mettono in risalto il coraggio, la resilienza e la creatività palestinesi di fronte a condizioni di vita insostenibili, per cui alcuni spettatori potrebbero chiedersi se storie come quella di Angel of Gaza non rappresentino un abbandono della Palestina come progetto politico. Ma c’è il pericolo di romanticizzare la resistenza e la sua efficacia di fronte al formidabile potere di Israele. Durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018-19, ad esempio, centinaia di manifestanti pacifici sono stati assassinati e migliaia sono stati mutilati in modo permanente nel corso di un’azione politica che chiedeva un miglioramento delle condizioni di vita nella Striscia di Gaza. Le Nazioni Unite avevano già dichiarato invivibile la regione a causa del collasso infrastrutturale ed economico provocato dal blocco e dalle sanzioni in corso. Quando la vita stessa è insostenibile e la resistenza a condizioni disumane richiede un confronto diretto con la morte violenta, la partenza da Gaza e soprattutto l’evacuazione dei bambini, non è solo una risposta ragionevole, ma prevista. In effetti, l’emigrazione dalla Palestina e dalle comunità palestinesi nel mondo arabo è stata un aspetto significativo dell’esperienza vissuta dai palestinesi. Per molte comunità palestinesi, i legami personali ed economici con i membri della famiglia e della comunità all’estero sono stati cruciali per la sopravvivenza di quelle comunità. I film, quindi, come quello di Mansour che affrontano questo fenomeno con dignità sono una gradita aggiunta al cinema palestinese. Insieme a opere come Like Twenty Impossibles (2003) di Annemarie Jacir, Salt of This Sea (2008) e Wajib (2017), ciascuna delle quali ha per tema il rapporto dei palestinesi della diaspora con la Palestina e la questione palestinese, contribuiscono a una più piena comprensione dell’esperienza palestinese.

Nadia Yaqub è professoressa di Culture Arabe presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sul Medio Oriente dell’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill. È autrice di Pens, Swords, and the Springs of Art: The Oral Poetry Dueling of Weddings in the Galilee (Brill 2006), Palestine Cinema in the Days of Revolution (University of Texas Press, 2018) e numerosi articoli e capitoli di libri sulla letteratura e il cinema araba. Ha anche co-montato Bad Girls of the Arab World (University of Texas Press, 2017) con Rula Quawas.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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