Il “piano di sottomissione”: Smotrich vuole il “trasferimento volontario” dei palestinesi

Nov 28, 2021 | Riflessioni

diYuval Joyce Shalev,

Palestine Chronicle, 24 novembre 2021. 

Il leader del partito sionista religioso di estrema destra Bezalel Smotrich. (Foto: Atbannett, tramite Wikimedia Commons)

“Non sto parlando con voi, antisionisti, simpatizzanti del terrore, nemici. Siete qui per sbaglio, perché [il primo Primo Ministro israeliano David] Ben-Gurion non ha finito il lavoro e non vi ha buttato fuori nel 1948. Questa è la verità, questa è la verità. Non ho alcun dialogo con voi”

– Bezalel Smotrich, Membro della Knesset e Presidente del Partito Sionista Religioso.

Quando si misura la temperatura morale di una società, vale di solito la pena considerare l’atteggiamento che assumono i politici. Si può ottenere una lettura ancora più accurata misurando la reazione del pubblico di fronte ad essi. Smotrich è fortunato, perché vive in un’epoca in cui essere un politico significa essere evasivi. E, per essere onesti con quel lugubre malvagio, l’unica cosa per cui non possiamo condannarlo è la reticenza o la chiusura.

Ironia della sorte, ci sono alcune cose che possiamo imparare sulla narrativa religiosa sionista, sulla verità, sulla moralità e sulla società israeliana dal suo sproloquio piuttosto illetterato. Per prima, e più ovvia, cosa apprendiamo, o meglio ci viene mostrato abbastanza grossolanamente dal signor Smotrich, che il concetto di “trasferimento” è un elemento essenziale del pensiero e dell’operato sionista. (Per chi non lo conoscesse, suggerisco il magistrale studio sull’argomento di Nur Masalha del 1992, intitolato Espulsione dei Palestinesi).

Si dice che, quando Herzl aveva inviato una delegazione in Palestina a seguito del Primo Congresso Sionista del 1897, i suoi emissari tornarono con la disperata notizia che, sebbene “La sposa [la terra di Palestina] sia bella, […] è sposata ad un altro uomo”. Per quanto apocrifa possa essere questa storia, tradisce una certa verità: è semplicemente impossibile che i primi sionisti non fossero a conoscenza di una presenza indigena nella terra di Palestina.

Non sono il primo a smontare l’evidente falsità contenuta nella massima sionista di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. I coloni sionisti non potevano credere che la terra fosse letteralmente disabitata, sebbene la vedessero come priva di umanità. Come nel caso di ogni gruppo coloniale, soprattutto se ha intenti di insediamento coloniale, la popolazione indigena è considerata scarsamente umana e quindi non le vengono concessi gli stessi diritti o dignità che i colonizzatori concederebbero a sé stessi. I leader sionisti, come mostra lo studio di Masalha, non nascondevano la loro convinzione che il trasferimento degli indigeni fosse necessario per la creazione di uno stato ebraico. Le discussioni sul trasferimento, quando ci sono state, riguardavano la fattibilità dell’impresa e i costi di reputazione che avrebbe potuto rappresentare per il nascente stato ebraico. In altre parole, gli arretrati palestinesi sono stati completamente esclusi dall’equazione.

Non a caso, Smotrich ha ideato un suo piano di ‘trasferimento volontario’. (Lo aveva soprannominato minacciosamente “Piano di sottomissione”). Il trasferimento volontario è, ovviamente, una contraddizione in termini. La matematica di questa equazione deve essere evidente anche all’intelligenza più limitata. Perché il trasferimento sia ‘volontario’, deve essere effettuato, quanto meno, in assenza di incentivi. Questo non è ciò che propone Smotrich. E sebbene il suo piano malato preveda l’opposizione da parte degli indigeni, non lo fa certo con lungimiranza. Chi non vuole ricevere ‘incentivi’ può restare, al prezzo di rinunciare alle proprie aspirazioni nazionali e al proprio diritto di voto. “Secondo la legge ebraica”, dice questo personaggio medievale, “deve esserci sempre una qualche inferiorità”. E per quelli che hanno scelto di combattere… beh, ti risparmio i torvi dettagli.

Passiamo ora alla narrativa religiosa sionista del 1948: ebbene, sembra essersi stranamente spostata fino a convergere con quella palestinese. A parte una differenza cruciale: i palestinesi sono stati espulsi, su questo sembra che entrambi siano d’accordo, ma dove un palestinese vede una Nakba, un disastro, il sionista vede un’occasione mancata. Questa non è una differenza da poco.

Di fronte all’accusa di pulizia etnica, la propaganda israeliana ha tradizionalmente fatto ricorso all’affermazione che i palestinesi sono effettivamente fuggiti, ma sono stati indotti a farlo dalla loro stessa leadership. (Questa sinistra sciocchezza, tra l’altro, è stata ripetuta da innumerevoli diplomatici israeliani davanti alle Nazioni Unite, da organizzazioni sioniste e da partigiani della causa israeliana che possono anche crederci davvero). Ho sempre pensato che questa fosse una questione di poco conto. Considerata da qualsiasi punto di vista morale, la questione se i palestinesi siano stati espulsi o lo abbiano fatto “su ordine” è irrilevante. Qualunque cosa possa aver indotto la loro fuga, che ora sappiamo essere stata la violenza o la minaccia, avevano tutto il diritto di aspettarsi di poter tornare a casa dopo la fine delle ostilità. Pochissimi sionisti lo hanno negato, distruggendo con questa ammissione un’enorme quantità del loro capitale morale.

Per qualsiasi persona pensante, questa antica narrativa sionista è stata intellettualmente sconfitta molto tempo fa. I cosiddetti Nuovi Storici, con il loro accesso a fonti primarie finora inaccessibili, hanno scritto in modo convincente la parola fine al sordido dibattito. Tuttavia, personaggi come Ilan Pappé non sono riusciti in Israele a sgonfiare illusioni come hanno fatto all’estero. Molti israeliani, di fronte ai fatti spiacevoli su come è nato il loro paese, hanno fatto ricorso, e ancora ricorrono, all’auto-contraddizione. “I palestinesi non sono stati espulsi”, così recita la contraddizione, “nonostante i fatti che dimostrano il contrario”, oppure: “sono stati espulsi, ma la loro espulsione forzata in qualche modo non si qualifica come pulizia etnica”. Eppure, credendo che la loro causa sia avallata da Dio e dai testi canonici, i sionisti si sono spesso sottratti al compito di spiegare.

Smotrich tenta di superare queste contraddizioni affermando che l’espulsione è avvenuta, ed è anche una cosa maledettamente buona. Si rammarica dell’apparente impotenza delle milizie Ben-Gurioniste dell’Israele pre-stato e spera di poter finire il lavoro. E in quanto israeliano di origine ebraica, ho imparato a riconoscere i toni della destra sionista e so che queste non sono minacce vane. Smotrich ha un’ossessione come ce l’aveva Menachem Begin per l’idea dell'”ebreo combattente”, che è capace di farla finita con lo stereotipo del suo popolo come una vittima passiva e fatalistica. E anche se è improbabile che svolga da solo la spiacevole faccenda della pulizia etnica, come ha fatto il suo predecessore ideologico Begin prima di lui, sa che lo Stato di Israele ha un esercito brutale e capace di farlo. (Smotrich, per inciso, non è stato un soldato combattente durante il suo servizio militare nell’IDF. Quindi, non proprio il Galahad sionista della leggenda [dei Cavalieri di re Artù] e della canzone che il suo atteggiamento suggerirebbe).

E come ha reagito la società israeliana? Ebbene, pochissimi si sono opposti. Ciò significa che, anche nell’interpretazione più caritatevole, essa è attivamente complice. Suggerisce anche che il marchio pernicioso di Tzionut Datit (il Sionismo Religioso di Smotrich) sta diventando più culturalmente rilevante e accettabile, nonostante il suo successo elettorale relativamente modesto. Il blocco religioso sionista, in altre parole, è la formazione ideologica in pole position per colmare il vuoto lasciato dal sionismo laico di destra e stabilire un’egemonia culturale e politica sulla società ebraica israeliana. Chi ne vuole una prova, basta che guardi alla carica più alta. Naftali Bennett è un sionista religioso e, nonostante la sua apparente svolta moderata da quando ha assunto l’incarico, non è diverso da Smotrich. Bennett, ad esempio, si è vantato di aver ucciso palestinesi in passato e, in una gara con Smotrich quanto a retorica omicida anti-araba, non è del tutto chiaro chi dei due ne uscirebbe vincitore.

E infine, il futuro: cosa ci si può aspettare da questo cambiamento culturale? All’interno di Israele e Palestina, mi aspetterei sempre le solite cose. Bennett ha già espresso il suo desiderio di ‘ridurre’ il conflitto. Si potrebbe dire –come fa molto chiaramente il premier israeliano– che questo stratagemma potrebbe rivelarsi utile per rimuovere Israele dal centro dell’attenzione. Nessuna annessione formale, sebbene gran parte dei territori occupati siano già funzionalmente annessi, crescita naturale degli insediamenti, continua occupazione palestinese, espropriazione e umiliazione, e certamente nessuno stato palestinese. Ma che dire del rapporto di Israele con l’America?

Ebbene, la mia modesta previsione è per una relazione ancora più intima tra i fiorenti egemoni culturali del Sionismo Religioso in Israele e la destra evangelica americana. Questi sono i più strani degli alleati, ma condividono una simile lotta messianica e un obiettivo comune. La tempistica di questo cambiamento è particolarmente opportuna, poiché sembra che Israele stia cominciando a perdere il suo sostegno tra gli ebrei americani. Ma, e lo dico come membro particolarmente eretico della “tribù”, qualsiasi ebreo che si schiera con la destra fondamentalista cristiana nella speranza di abolire l’antisemitismo merita di essere considerato uno sciocco e di esser trattato come tale.

Avendo proposto il sionismo sia come panacea al bigottismo antiebraico sia come mezzo per dichiarare un’orgogliosa indipendenza dell’altalenante buona volontà dei Gentili, Israele è diventato prevedibilmente e completamente dipendente dai sussidi americani e dagli aiuti esteri, e ha reclutato il sostegno di pazzoidi evangelici antisemiti come Mike Evans, Pat Robertson e Jerry Falwell. L’ironia di ciò spero sinceramente che non sfugga a Smotrich, come non è sfuggita a me. 

Yuval Joyce Shalev è un attivista per i diritti palestinesi irlandese/israeliano che lavora come analista presso l’International Centre of Justice for Palestinians con sede a Londra. Yuval ha conseguito un master in Studi sui Conflitti e spera di conseguire un dottorato di ricerca nell’esplorazione di potenziali accordi di condivisione del potere in Israele/Palestina. 

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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1 commento

  1. Francesco

    A volte leggendo di queste notizie viene da pensare:- Se la Russia avesse fatto una cosa simile la stampa di tutto il mondo griderebbe al genocidio, perché non avviene per la Palestina?
    Così nascono i dubbi, ma l’indifferenza li cementa.

    Rispondi

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