Anche stavolta ricostruire Gaza arricchirà Israele ed Egitto

Giu 2, 2021 | Riflessioni

di Stela Xhunga,

Fanpage, 31 maggio 2021.

Anche stavolta ad arricchirsi saranno le imprese egiziane e israeliane. Tutto passa da Israele ed Egitto: merci, cibo, carburante. E per sfuggire al monopolio c’è chi, come la giovane ingegnere Majd Mashharawi, brevetta i mattoni fatti di cenere, che a Gaza, abbonda.

Polvere e macerie. Dopo avere incontrato a Gerusalemme il premier Benyamin Netanyahu e a Ramallah il presidente palestinese Abu Mazen, oggi il capo dell’intelligence egiziana Kamel Abbas è giunto a Gaza dove in un albergo scampato ai raid è atteso da due dirigenti di Hamas, Yihia Sinwar e Halil al-Haya, e dai rappresentanti di diverse fazioni politiche, fra cui la Jihad islamica e forze di liberazione di ispirazione marxista. Al centro dei colloqui, i meccanismi di ricostruzione di Gaza. Business is business dicono gli inglesi, e la ricostruzione di Gaza è un business che si autoalimenta periodicamente.

Stando al capo dell’ufficio informazioni di Hamas, Salameh Maaruf, in soli otto giorni, dall’11 maggio al 18 maggio, gli attacchi israeliani hanno distrutto almeno 1.335 unità abitative, mentre l’Ufficio di Coordinamento degli Affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA) riferisce di oltre 75.000 Palestinesi rimasti senza dimora a causa degli attacchi e più di 47.000 “sfollati interni” e persone che hanno cercato riparo nelle 48 scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite (UNRWA) e aperte alla cittadinanza.

Come nel 2006, nel 2008, nel 2012 e nel 2014, anche stavolta l’operazione militare israeliana ha fatto tabula rasa di case, infrastrutture, pozzi, edifici. Tutto da rifare. Chi ci pensa? Abu Mazen insiste perché i lavori di ricostruzione siano coordinati dall’Autorità Nazionale Palestinese, Hamas non è d’accordo. Quel che è certo è che anche stavolta ad arricchirsi saranno le imprese egiziane e israeliane tramite i rispettivi valichi, quello di Rafah, al confine con l’Egitto, e quello di Karem Shalom, al confine con Israele. Dopo il cessate il fuoco, le autorità egiziane hanno mantenuto aperto il valico di Rafah per il dodicesimo giorno consecutivo al fine di consentire “l’accesso a feriti, malati e aiuti umanitari”, riporta l’agenzia Mena; decisione, questa, che ha rafforzato le simpatie per l’Egitto: oggi le strade di Gaza sono addobbate con bandiere egiziane e fotografie del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Poco importa se Al-Sisi continua a essere amico di Tel Aviv e fa arrestare chi ha l’ardire di far sventolare la bandiera palestinese al Cairo, come successo in piazza Tahrir a Nour al-Huda Zak, giornalista e blogger. Per chi non ha né casa né luce corrente interessa procurarsi un tetto sopra la testa, non sapere cosa fanno gli altri nei loro paesi.

Cibo, carburante, materiali edili: tutto passa da Israele ed Egitto

I valichi di Rafah e Karem Shalom sono anche gli unici canali di importazione per Gaza, lì passano e arrivano cibo e merci, materiali edilizi, e lo stesso carburante che alimenta i generatori di quartiere che forniscono 3-4 ore di elettricità agli abitanti di Gaza. Carburante che i Palestinesi pagano a caro prezzo all’Egitto: cinquecento milioni di litri di carburante hanno attraversato il valico di Rafah nella sola giornata del 18 maggio. E così vale per tutto. Diversamente, si ricorre al mercato nero.

Nel 2007 Israele mise al bando a Gaza i materiali da costruzione, per timore che venissero usati per costruire bunker, tunnel e basi militari. Metalli, cemento, legno, acciaio e persino i mattoni sono considerati materiali a “doppio uso” e non possono entrare liberamente nella Striscia di Gaza. Dopo la guerra del 2014, che distrusse circa 18.000 abitazioni e ne danneggiò oltre 200.000, vennero poi riammessi alcuni materiali, ma da allora a maggio 2021 è stato introdotto solo un terzo del cemento necessario alla ricostruzione di Gaza. E ora di cemento ne servirà ancora di più. Chi controlla il lento afflusso dei materiali? Israele.

Ciò significa che ogni volta che i palestinesi tentano di ricostruire le proprie case, devono dimostrare di essere cittadini regolari e non malintenzionati, chiedere permessi, aspettare, sottoporsi a controlli, e ancora aspettare. Da dove vengono questi materiali? Chi li produce? Chi li vende? Israele ed Egitto.

Ricostruire pozzi, ospedali o scuole a Gaza non è semplice nemmeno per le Ong e le organizzazioni che operano per conto delle Nazioni Unite. Anche per loro l’iter è complesso: si va dal Grm (Gaza reconstruction mechanism), l’ente che gestisce l’ingresso di materiali di ricostruzione a Gaza composto da tre soggetti, il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il Governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale introdotto, poi si presenta il progetto per filo e per segno, si indica la gara d’appalto, si quantificano i materiali necessari e si aspetta. Questo, almeno, fino all’ultima guerra, anzi, fino all’ultimo “massacro a senso unicomassacro a senso unico”.

C’è anche chi inventa mattoni fatti con la cenere

Gaza è come una fenice costretta a rinascere dalle proprie ceneri, con enorme guadagno per tutti, tranne che per i Palestinesi. Dopo l’ultimo scontro israelo-palestinese del 2014 c’è chi ha pensato di ricostruirla davvero con le ceneri, Gaza. L’idea fu di una  donna palestinese, l’ingegnere edile Majd Mashharawi, laureatasi presso l’Università Islamica di Gaza con il sogno di “portare luce” alla sua terra. “Se c’è una cosa che abbonda nella mia terra sono le ceneri –dice Mashhrawi– e bisogna ingegnarsi con ciò che si ha a disposizione”. I mattoni brevettati dal suo team sono composti da geopolimeri fatti di materiali inorganici come l’allumino silicato proveniente dai materiali di scarto, cenere e macerie, appunto.

Green cake, così li ha chiamati per via del loro aspetto spugnoso che li fa sembrare dei prodotti da forno: “Molti mi hanno detto ‘cambia nome’, trovane uno più serio, ma non ho mai voluto, a me interessa che servano”. Nonostante le difficoltà ad accedere a fondi e addirittura a ritirare i premi vinti all’estero, nel 2015 Mashhrawi ha fondato l’omonima azienda, GreenCake, e nel 2017 ha sviluppato SunBox, un sistema solare a prezzi accessibili che produce energia per alleviare gli effetti della crisi energetica a Gaza, dove l’accesso all’elettricità è limitato, a volte a meno di tre ore al giorno. Per quanto all’avanguardia e pluripremiato all’estero, il sogno di Mashharawi oggi sembra lontano dal realizzarsi. I suoi mattoni faticano a inserirsi in un mercato monopolizzato da Israele ed Egitto e molti sono i dubbi sulla gestione dell’ennesima ricostruzione di Gaza.

“Non so come, non so perché, ma so quando nevica” dice un antico detto che sta a indicare l’imponderabilità con cui talvolta si prendono certe decisioni. Anche quando si tratta di vivere in un posto martoriato e cercare di risollevarlo con ciò che si ha a disposizione, ingegno, tempra e cenere. Anche a costo di acquistare materiali e prodotti da chi ti bombarda, anche a costo di arricchire chi è amico sia tuo sia di chi ti bombarda.

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