Israele-Palestina: Un glossario del linguaggio problematico dei media

Mag 17, 2021 | Riflessioni

di Alex MacDonald,

Middle East Eye, 10 maggio 2021. 

Gli attivisti segnalano che i termini usati dai politici e dagli organi di stampa distorcono la narrazione sui fatti di Gerusalemme

Il linguaggio usato dai media per riferire gli avvenimenti in Israele e Palestina è stato posto sotto esame (AFP/screengrabs)

Pochi argomenti possono suscitare forti emozioni quanto quello dei rapporti tra Israele e Palestina e l’uso del linguaggio relativo alla situazione attuale è fortemente contestato.

Dall’ultima fiammata nella regione, molti attivisti palestinesi hanno usato i social media per criticare il linguaggio utilizzato da alcuni organi di stampa e da alcuni politici per inquadrare gli eventi in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati.

Spesso, il bersaglio delle critiche è il linguaggio che sembra equivocare tra parti diseguali, in particolare l’uso di parole come “scontri” o riferimenti alla “violenza” in forma passiva che non riferiscono la causa o l’obiettivo della violenza.

Altre volte, il linguaggio usato dai commentatori e dai media può virare verso la cospirazione o nell’uso di termini disumanizzanti.

L’immagine di un titolo del quotidiano New York Timescorretto” da un attivista riassume molte delle preoccupazioni di alcuni osservatori. Di seguito alcuni dei termini e concetti che hanno alimentato la polemica:

1. “Scontri”

Uno dei termini che più di frequente appare nei resoconti dei media sulla violenza in corso a Gerusalemme –e nei precedenti avvenimenti in Israele-Palestina– è “scontri“.

Il termine allude a un conflitto tra due parti. L’Oxford English Dictionary descrive il verbo come “entrare in una violenta e rumorosa collisione “.

Tuttavia, molti attivisti filo-palestinesi hanno criticato il termine perché implica un grado di parità nell’uso della violenza e suggerisce quindi che ambedue le parti siano ugualmente da condannare.

Sebbene ci siano stati casi di attivisti che lanciavano pietre, i servizi di sicurezza israeliani sono pesantemente armati e pesantemente corazzati e sono stati gli istigatori di praticamente tutta la violenza durante i recenti avvenimenti.

L’uso di “scontri” inteso in senso neutrale rimuove inoltre l’operatore della violenza, consentendo che la colpa sia, implicitamente, distribuita in modo uniforme tra tutti i coinvolti.

Anche ignorando che in molti casi non c’è stata violenza da parte degli attivisti palestinesi, l’uso di “scontri” oscura la natura della violenza che ha avuto luogo e la narrazione entra in quel che è stato colloquialmente indicato come “bothsideism” (NdT, potremmo tradurlo come “cerchiobottismo”).

Simili considerazioni possono essere fatte anche su altri termini come “disordini” e “rivolte”.

2. “Conflitto”

In un senso simile a “scontri”, l’uso del termine “conflitto” può di nuovo implicare un’equivalenza della violenza tra i Palestinesi e le forze di sicurezza israeliane. 

In generale, l’uso del termine “conflitto” ha un retaggio travagliato nella regione: per decenni la situazione è stata descritta come il “conflitto arabo-israeliano”.

È un termine ancora popolare tra gli Israeliani di destra, che implica che il mondo arabo nel suo  insieme sia in guerra contro il piccolo stato israeliano, oscurando le traversie dei Palestinesi nei Territori Occupati e ignorando le relazioni di cui Israele gode con molti stati arabi. 

Il “conflitto israelo-palestinese”, pur essendo meno oscuro, implica ancora un certo grado di uguaglianza tra le due parti, anche se storicamente la violenza è stata appannaggio di entrambe le parti.

3. “Disputa sulla proprietà”

Parecchi politici e organi di stampa hanno descritto la controversia nel quartiere Sheikh Jarrah come una “disputa sulla proprietà“. Se nel senso più letterale ciò potrebbe essere vero, tale descrizione minimizza enormemente il contesto sottostante, implicando invece che quel che accade a Sheikh Jarrah non è più significativo o moralmente disdicevole di quanto lo sia, per esempio, una disputa tra un proprietario e un inquilino a Parigi, Londra o Istanbul.

La pianificata espulsione di 40 Palestinesi dal quartiere ha origine nel fatto che le famiglie si sono stabilite lì nel 1956, dopo la loro espulsione da quello che è oggi riconosciuto internazionalmente come Israele. Le case in cui vivono furono costruite con l’aiuto dell’Agenzia dell’ONU per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) mentre Gerusalemme Est era sotto il controllo della Giordania.

Durante gli anni ’60, le famiglie raggiunsero con il governo giordano un accordo che li avrebbe resi proprietari della terra e delle case. L’accordo prevedeva che dopo tre anni avrebbero ricevuto gli atti di proprietà ufficiali, intestati a loro nome. Ma l’accordo fu affossato nel 1967, quando Gerusalemme Est fu occupata da Israele. La legge israeliana favorisce i coloni permettendo solo agli Ebrei di rivendicare le proprietà che dichiarano di aver posseduto prima del 1948, negando però lo stesso diritto ai Palestinesi.

Così, mentre c’è davvero una “disputa” sulla proprietà, discuterne in tali termini implica che si tratti di poco più di una normale questione legale, piuttosto che di una situazione del tutto particolare.

Anche l’uso del termine “sfratti” ha un effetto simile, anche se, di nuovo, è più accurato. 

4. “Estremista” e “terrorista”

Sia “terrorista” sia “estremista” sono termini spesso usati quando si parla di Israele-Palestina. I media israeliani riportano i presunti atti di violenza dei Palestinesi quasi esclusivamente come causati da “terroristi”. Benché il termine sia forse meno frequente nei media stranieri, continua a comparire, in particolare tra i media di destra.

Per quale motivo l’uso del termine “terrorismo” sia controverso nel giornalismo è una questione molto più ampia. Agenzie come Reuters hanno a lungo evitato di usarlo, dicendo che viola “l’approccio neutrale” dell’agenzia. Nel contesto specifico degli avvenimenti di Gerusalemme, il termine normalizza una narrativa messa in giro dai servizi di sicurezza israeliani.

Per la maggior parte del mondo, un terrorista è qualcuno che compie atti di violenza indiscriminata contro i civili: le azioni del gruppo dello Stato Islamico (IS) e di al-Qaeda sono particolarmente importanti nell’immaginario popolare.

Questa equiparazione degli attivisti palestinesi che protestano –o, al massimo, lanciano pietre– contro le forze di sicurezza israeliane, con gli attacchi dell’11 settembre o i massacri dell’IS serve a delegittimare la causa palestinese e sottende un’irrazionale sete di sangue.

Estremista” è forse un termine ancor più rischioso, perché quasi sempre ciò che costituisce un “estremista” è indefinito. Molte ideologie politiche sono considerate estreme perché divergono da quella che è considerata la politica tradizionale, ma il termine è essenzialmente soggettivo.

5. “Sionismo”

Molti commentatori ebrei hanno regolarmente espresso disagio con l’uso del termine “sionismo” o “sionista” associato alle azioni israeliane.

Il termine, nato nel XIX secolo, si riferisce al movimento politico per la creazione di una patria ebraica. Sono esistite diverse incarnazioni del sionismo, che vanno dai sostenitori di sinistra di uno stato binazionale e socialista nella Palestina storica ai fondamentalisti religiosi di estrema destra che sostengono uno stato basato su leggi ebraiche Halakhah [NdT, la tradizione “normativa” religiosa dell’Ebraismo] che escludono i non-ebrei dalla cittadinanza.

Tuttavia, nel secolo scorso il termine sionismo è stato usato anche da gruppi antisemiti di estrema destra nell’ambito delle teorie antiebraiche che parlano di una cospirazione. Queste teorie ipotizzavano che il sionismo non fosse meramente un movimento politico per la colonizzazione della Palestina storica, ma facesse parte di un piano più ampio per il dominio del mondo.

Un popolare mito neonazista si riferisce al “Governo di Occupazione Sionista” o ZOG [Zionist Occupation Government], un termine usato per descrivere una cabala ebraica segreta che si presume gestisca la maggior parte dei governi occidentali.

Una rapida ricerca su Google del termine “antisionista” mostra il problema: i risultati includono il sito web del Jewish anti-Zionist Network, un gruppo di ebrei filopalestinesi di sinistra, ma includono anche l’Anti-Zionist League, che è un’organizzazione neonazista.

Questo ha portato molti a sentirsi a disagio nell’usare il termine “sionista”, specialmente in un contesto che vira verso territori che implicano il controllo di governi stranieri, il controllo dei media o della finanza o una doppia lealtà. 

6. “Islam”

Il fatto che gli eventi di Gerusalemme siano accaduti durante il Ramadan e abbiano coinvolto i fedeli della moschea al-Aqsa non dovrebbe oscurare il fatto che il conflitto non è principalmente religioso. Molti Palestinesi cristiani e laici sono altrettanto coinvolti nella difesa della moschea al-Aqsa e si oppongono all’azione contro i residenti di Sheikh Jarrah.

Lo status di Gerusalemme Est e della moschea al-Aqsa è carico di significato religioso, ma ha anche un’enorme risonanza nazionale per i Palestinesi di tutte le fede e ideologie politiche. La spinta per l’istituzione di Gerusalemme Est come futura capitale di uno Stato palestinese è venuta tanto dai leader politici laici, cristiani e di sinistra dell’ultimo secolo, quanto dai religiosi musulmani e dagli islamisti.

Alcuni organi di stampa, così come i sostenitori e gli oppositori stranieri della causa palestinese, hanno tentato di inquadrare la situazione a Gerusalemme come un conflitto tra Islam ed Ebraismo, tra Musulmani ed Ebrei. Ma è una visione fondamentalmente sbagliata che può contribuire a narrazioni sia antisemitiche sia islamofobiche.

7. “Arabo”

Dal XIX secolo, teorici, leader di comunità, politici e attivisti discutono sulla relazione tra l’identità palestinese e l’identità araba. Ma identità ed etnicità sono in gran parte costrutti sociali e sono spesso fluidi.

Al culmine del movimento nazionalista arabo, dagli anni ’50 ai ’70, molti leader politici palestinesi come Yasser Arafat e George Habash sostennero il movimento panarabista ed equipararono la lotta della Palestina contro Israele come una parte della più ampia lotta per l’unità e l’indipendenza araba.

Tuttavia, negli ultimi decenni, poiché il panarabismo si è affievolito e la campagna per la liberazione palestinese in sé e per sé ha preso il sopravvento nella regione, i Palestinesi della diaspora, dei Territori Occupati e quelli nei confini internazionalmente riconosciuti di Israele si sono identificati prima di tutto come “Palestinesi”.

L’uso del termine “Arabo” per descrivere i Palestinesi si è perciò caricato di connotazioni. Questo è più che mai evidente nei media israeliani, specialmente quelli di destra, che regolarmente si riferiscono a tutti i Palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo come “Arabi”, insinuando l’inesistenza di un’identità palestinese e la temporalità del loro legame con quella terra.

Implica anche –paradossalmente imitando in parte i panarabisti– che i Palestinesi siano semplicemente un’estensione del più ampio mondo arabo e quindi Israele sia la vittima a causa della sua più piccola popolazione e di una posizione unitaria che lo avversa.

Si fa spesso una  distinzione anche tra gli Arabi-israeliani e i Palestinesi, ossia tra quei Palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana e quelli che vivono nei Territori Occupati. Mentre ci sono differenze in termini di diritti e standard di vita, e mentre alcuni Palestinesi in Israele si vantano orgogliosamente della loro identità israeliana, la maggioranza dei cittadini palestinesi di Israele si identifica prima di tutto come palestinese; ad esempio, la più grande città palestinese in Israele, Nazareth, negli ultimi giorni è esplosa in solidarietà con i manifestanti di Sheikh Jarrah e al-Aqsa.

8. “Il Monte del Tempio”, “Haram al-Sharif” e “al-Aqsa”

Come detto sopra, la contrapposizione Israele-Palestina non ha una base religiosa. Ma c’è una parte di Gerusalemme dove la religione gioca un ruolo importante: il complesso della Città Vecchia che ospita la moschea al-Aqsa, la Cupola della Roccia e il Muro del Pianto.

Agli Ebrei, il complesso è noto come il Monte del Tempio, luogo di due antichi templi biblici e il sito dove la “presenza divina” sulla Terra è più forte. Il Muro del Pianto, dove pregano gli Ebrei, è considerato una delle ultime parti restanti della struttura del Secondo Tempio.

Ai Musulmani, il complesso è noto come al-Haram al-Sharif (il Nobile Santuario, noto anche come la Spianata delle Moschee) e ospita la moschea al-Aqsa –uno dei tre maggiori luoghi sacri dell’Islam– che comprende la Cupola della Roccia e altri santuari islamici.

Molti organi di stampa tentano di evitare provocazioni sul come chiamare l’area, riferendosi a essa con entrambi i nomi ed elaborando sulle distinzioni. Ma anche qui è possibile falsare la natura della controversia.

Dalla conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele nel 1967, ci sono stati attivisti religiosi israelo-ebraici che hanno chiesto la costruzione del Terzo Tempio in quel luogo, cosa che secondo loro annuncerebbe la venuta del messia e richiederebbe la demolizione della moschea al-Aqsa. Tuttavia, nessun leader israeliano ha sostenuto pubblicamente questa idea, per timore di una massiccia reazione negativa da parte del mondo musulmano.

Negli ultimi decenni, però, ci sono state campagne da parte di gruppi di coloni ebrei per la rimozione del divieto di preghiera ebraica nel sito. Lo “status quo”, come viene chiamato, è un accordo tra Israele e l’autorità religiosa giordana che controlla il complesso. L’accordo consente agli Ebrei di visitare il sito, ma non di pregarvi. Questa posizione è stata sostenuta, sinora, dal Gran Rabbinato di Gerusalemme.

Gli attivisti che chiedono che la preghiera ebraica sia consentita nel complesso hanno impostato la discussione come un fatto di uguaglianza religiosa: se ai Musulmani è permesso pregarvi, perché non è così anche per gli Ebrei?

È facile rappresentarlo come un problema di sciovinismo musulmano che nega agli Ebrei l’accesso al loro luogo più sacro. Ma così si ignora il contesto della conquista di Gerusalemme Est da parte di Israele e la continua colonizzazione e insediamento della terra palestinese; al-Haram al-Sharif, probabilmente il simbolo più significativo di sovranità palestinese, è visto come una linea rossa.

In un altro mondo, in cui ci fosse uno stato in cui Israeliani e Palestinesi vivono come cittadini pienamente uguali, il dibattito potrebbe essere considerato come una cosa che ha a che fare con i diritti religiosi e la teologia ma, nel contesto attuale, le condizioni materiali impongono una diversa narrazione.

https://www.middleeasteye.net/news/israel-palestine-aqsa-sheikh-jarrah-media-coverage-problematic-glossary?fbclid=IwAR2MTgBVj1AXn8X1T_VVbP6yPvEv1OmcVEnj5eGhOnDQlXfXU9sSYho32To

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina

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