Distruggere la Gerusalemme palestinese, un’istituzione alla volta

Dic 22, 2020 | Riflessioni

di Yara Hawari

Al Shabaka, 29 ottobre 2020. 

Il 22 luglio 2020 la polizia israeliana ha fatto irruzione e ha saccheggiato l’Edward Said National Conservatory of Music, il Yaboos Cultural Centre e la Shafaq Cultural Network a Gerusalemme Est. I loro uffici sono stati perquisiti, prelevati documenti e schedari, e confiscati computer, portatili e telefoni. I tre direttori, Suhail Khoury, Rania Elias e Daoud Ghoul, sono stati arrestati e prelevati dalle loro case, che sono state anch’esse saccheggiate. Khoury ed Elias sono stati trattenuti un giorno sotto detenzione israeliana, mentre Ghoul è stato recluso e interrogato nel carcere di Moskobiye per due settimane. Molti media locali e internazionali hanno riferito che erano stati arrestati per sospetto finanziamento al terrorismo, un’accusa comunemente rivolta agli attivisti palestinesi dal regime israeliano.

Questo attacco alle istituzioni culturali di Gerusalemme Est non è un fenomeno nuovo. Anzi segue da decenni uno schema di attacchi continui alla presenza palestinese nella città. Nel maggio 2018 il controllo israeliano sulla città è stato ulteriormente rafforzato con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, evidenziando una parabola di continuo peggioramento per i Palestinesi della città. Questo è anche il risultato dei rinnovati sforzi dello Stato israeliano e di attori semi-statali di colpire la società civile palestinese, sia in Cisgiordania e Gaza sia lungo la Linea Verde. Questo testo politico esamina i recenti assalti alle istituzioni palestinesi a Gerusalemme Est entro il più ampio contesto della soppressione della società civile palestinese operata da Israele e offre raccomandazioni per respingere la distruzione della Gerusalemme palestinese.

Distruggere la Gerusalemme palestinese

Gerusalemme ha sempre avuto un ruolo vitale nel plasmare l’identità palestinese nel corso della storia. Benché prima del 1948 non avesse l’importanza strategica ed economica delle città costiere della Palestina, come Giaffa e Haifa, non di meno ha sempre avuto un significato sociale, politico e culturale per i Palestinesi. Come spiega Rashid Khalidi, “Le scuole, i quotidiani, i circoli e le personalità politiche di Gerusalemme avevano un impatto su tutta la Palestina ancor prima che i confini del Mandato britannico fossero stabiliti alla fine della Prima Guerra Mondiale” [Rashid Khalidi, Identità palestinese. La costruzione di una moderna coscienza nazionale, Bollati Boringhieri, Torino 2003].

A seguito dell’occupazione britannica della Palestina nel 1917 e dell’istituzione ufficiale del mandato nel 1922, Gerusalemme divenne un luogo dell’organizzazione politica contro il dominio coloniale britannico e il colonialismo di insediamento sionista. In particolare, la realizzazione britannica della Dichiarazione Balfour del 1917, che prometteva l’assistenza britannica per la creazione di una “casa nazionale” ebraica in Palestina, con appropriazioni di terra e la continua immigrazione ebraica in Palestina, spinse i Palestinesi a protestare in gran numero in tutta Gerusalemme. Durante quei primi anni di dominio britannico, la città divenne anche un centro nevralgico dell’organizzazione politica delle donne. Nel 1929 si riunì a Gerusalemme il primo Congresso delle Donne Arabe, dal quale emerse il primo Comitato Esecutivo delle Donne Arabe, segnando quindi l’inizio di un movimento femminile palestinese organizzato e politico.

Gerusalemme fu la capitale amministrativa e politica del Governo britannico della Palestina durante i tre decenni del suo dominio e mantenne un’unica designazione nel periodo che precedette la guerra arabo-israeliana del 1948. Infatti, il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, che rientrava perfettamente nella tendenza coloniale di dividere le terre, proponeva la divisione della Palestina in uno Stato ebraico e uno Stato arabo, con Gerusalemme che rimaneva (insieme a Betlemme)  un corpus separatum, una città internazionale che non sarebbe caduta sotto la sovranità né ebraica né araba. I Palestinesi respinsero questo tentativo coloniale di dividere la Palestina storica come un modo per affermare il dominio straniero a Gerusalemme.

La pulizia etnica della Palestina era dunque già in corso quando lo Stato israeliano fu creato nel 1948. In quell’anno le forze sioniste conquistarono quel che divenne Gerusalemme Ovest, compresi i prosperi quartieri palestinesi di Talbiyya, Qatamon e Baq’a, dimora di 60.000 Palestinesi. La maggior parte di essi fu espulsa dall’area, mentre alcuni fuggirono nella parte est della città. A nessuno è stato consentito il ritorno. Dopo che le linee dell’armistizio furono tracciate nel 1949, Gerusalemme fu divisa in due parti: Gerusalemme Ovest controllata da Israele e Gerusalemme Est controllata dalla Giordania, oscurando di fatto l’identità palestinese della città.

Dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele ha illegalmente occupato Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan. Come risultato della guerra, Israele ha anche annesso de facto e de jure tutta Gerusalemme. L’Ordinanza sulla Legge e l’Amministrazione del 1967 ha visto l’estensione del diritto e dell’amministrazione di Israele a Gerusalemme Est. Questo status de jure della città è stato inoltre confermato nel 1980, quando il regime israeliano lo ha dichiaratamente affermato come tale approvando la Legge di Gerusalemme. Quasi immediatamente, il regime israeliano ha chiuso il municipio palestinese a Gerusalemme Est, accorpandolo con quello israeliano di Gerusalemme Ovest. Inoltre, regolamenti d’emergenza sono stati imposti su tutte le zone occupate, rendendo illegale la maggior parte delle organizzazioni politiche palestinesi e i loro affiliati.

Ai gerosolimitani palestinesi fu conferito dal governo israeliano lo status di “residenza permanente” anziché la cittadinanza, lasciandoli di fatto privi di nazionalità. Questo ha consentito al regime israeliano di negare loro pieni diritti, incluso il diritto di voto, obbligandoli al contempo a pagare le tasse. Inoltre, il regime israeliano frequentemente revoca il già precario status di “residenza permanente” ai Palestinesi che scelgono di vivere fuori dalla città e, in qualche caso, a quelli impegnati in attività politiche. Dal 1967 il regime israeliano ha revocato circa 14.000 residenze ai Palestinesi, lasciandoli senza stato e senza casa.

Anche la pianificazione urbanistica è stata un meccanismo chiave attraverso il quale le autorità israeliane hanno cancellato i Palestinesi da Gerusalemme, nel loro sforzo esplicito di mantenere una maggioranza demografica ebraica nella città. Questo comporta il confinamento dei Palestinesi in certi quartieri, il rifiuto dei permessi di edificazione, la demolizione delle loro case e la fornitura di risorse e servizi inadeguati nei quartieri palestinesi. Anche la costruzione del muro di separazione nel 2002 fa parte di questo tentativo concreto di rendere insopportabile per i Palestinesi la vita nella città. Il muro è stato costruito con il pretesto della sicurezza israeliana e serpeggia attraverso l’intera Cisgiordania. A Gerusalemme taglia quartieri palestinesi precedentemente contigui e, in alcuni casi, li divide completamente. Separa gran parte di Gerusalemme Est dalla Cisgiordania, costringendo i Palestinesi a compiere difficili viaggi attraverso i posti di blocco se vogliono passare dall’altra parte del muro. Tutto questo, e molto altro, equivale a un’orchestrata e sistematica politica per mandar via da Gerusalemme il maggior numero possibile di Palestinesi e tenere quelli che rimangono in enclave urbane saldamente controllate.

Sconvolgere la vita politica e culturale palestinese a Gerusalemme

Oltre alle sistematiche politiche che rendono incredibilmente difficile la vita per i Palestinesi a Gerusalemme, Israele ha anche sistematicamente sconvolto la vita culturale e politica palestinese nella città. Dopo l’occupazione di Gerusalemme Est nel 1967 e la seguente annessione, le attività culturali e politiche palestinesi hanno subito un’intensa repressione da parte del regime israeliano. L’applicazione del Regolamento di Emergenza per la Difesa, introdotto per la prima volta dal Mandato Britannico nel 1945, ha permesso al regime israeliano di applicare una censura e una repressione diffuse. Ceri libri sono stati proibiti e alcune parole considerate potenti, come filastin (Palestina), sumud (resilienza) e ‘awda (ritorno), cancellate da curricula scolastici, libri, programmi radiofonici e opere teatrali. Sliman Mansour, uno dei fondatori della Lega degli artisti palestinesi, ha osservato che i Palestinesi, negli anni seguenti l’occupazione del 1967, “vivevano in una sorta di ghetto culturale, isolati dagli sviluppi della cultura. Era difficile muoversi. A molti artisti fu proibito viaggiare. Gli artisti venivano spesso arrestati e le loro opere confiscate […] Si è trattato di un tentativo di uccidere qualsiasi spirito creativo e artistico dei Palestinesi”.

Per molti Palestinesi la cultura era inevitabilmente legata alla politica, soprattutto perché la loro stessa esistenza era considerata un atto politico dal regime israeliano. Il risultato fu che molti spazi culturali si duplicavano anche come spazi di organizzazione politica, soprattutto alla luce del divieto imposto militarmente da Israele alle istituzioni politiche palestinesi. La sola eccezione fu l’Orient House nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme, un’istituzione che servì come unica rappresentazione politica palestinese in città e come centro di ricerche e archiviazione della storia palestinese. 

L’Orient House fu costruita nel 1897 come palazzo residenziale dell’importate famiglia Husseini. Dopo il 1948 l’edificio svolse una funzione più pubblica, ospitando sia una foresteria sia degli uffici. Dopo il 1967 i piani superiori furono convertiti in uffici per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA). Nel 1983 l’intero edificio fu preso in affitto dall’Associazione per gli studi arabi, finanziata dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che condusse ricerche e lavori di archivio e vi istituì una biblioteca. Durante questo periodo svolse un ruolo importante nella rinascita della coscienza nazionale palestinese, al punto tale che, durante la Prima Intifada, fu chiusa per tre anni. Alcuni anni dopo, durante la Conferenza di pace di Madrid, la delegazione palestinese fu collocata nell’Orient House e negli anni ’90 del secolo scorso vi furono frequentemente ospitati i diplomatici internazionali. A questo punto, l’edificio era diventato un simbolo del sumud palestinese nella città.

Il 10 agosto 2001 le forze israeliane irruppero e saccheggiarono l’Orient House, rubando documenti e materiali d’archivio, chiudendo anche gli uffici dell’istituzione. Non era una pratica nuova né a Gerusalemme né altrove. Infatti, le forze armate israeliane hanno spesso fatto razzie e saccheggiato istituzioni palestinesi, dalle biblioteche private e pubbliche di Gerusalemme Ovest nel 1948 al Centro palestinese di ricerca di Beirut nel 1982. Tuttavia, la chiusura dell’Orient House nel 2001 è stata particolarmente significativa perché durante gli Accordi di Oslo era stata riconosciuta da tutte le parti come quartier generale dell’OLP, così come Gerusalemme Est quale capitale legittima di un futuro Stato palestinese. Quel saccheggio inaugurò una nuova era di declino della presenza politica palestinese in città. Da allora, il regime israeliano ha continuato a impedire alle istituzioni politiche palestinesi di operare a Gerusalemme.

Anche le istituzioni culturali palestinesi hanno affrontato frequenti attacchi e chiusure. Per esempio, il Teatro Nazionale Palestinese, Al-Hakawati, fondato a Gerusalemme nel 1984, ha costantemente lottato contro la censura e le minacce di chiusura. Le sue attività sono state chiuse non meno di 35 volte dalla sua apertura, tra cui nel 2008 quando il teatro ha tentato di ospitare un festival prima che Gerusalemme fosse scelta come Capitale Araba della Cultura per il 2009. Nel 2015 il teatro ha lanciato un appello pubblico a seguito delle minacce dalla Israeli Law Enforcement and Collection Authority che non solo aveva congelato il conto bancario del teatro ma minacciava di sequestrare l’edificio. Le autorità israeliane usarono il pretesto che il teatro aveva accumulato enormi debiti nei confronti del comune, della compagnia elettrica e dell’agenzia assicurativa nazionale senza menzionare l’illegalità della presenza di queste autorità a Gerusalemme Est. Il teatro ancor oggi continua ad affrontare il rischio di chiusura imminente.

Dal 2000 il regime israeliano ha chiuso più di 42 istituzioni palestinesi a Gerusalemme Est con vari pretesti, che vanno dall’appartenenza politica “illegale” a bollette non pagate. La legge sull'”Antiterrorismo” approvata dalla Knesset nel 2016 ha comportato una più diffusa oppressione delle istituzioni e delle organizzazioni della società civile palestinese. La legge include le disposizioni dei Regolamenti d’Emergenza e, come descritto dall’ONG per i diritti umani Adalah, è “concepita per un’ulteriore repressione della lotta dei cittadini palestinesi di Israele [così come quelli di Gerusalemme Est] e impedir loro di svolgere attività politica a sostegno dei Palestinesi che vivono sotto occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza”. La legge consente l’uso diffuso di “prove segrete” da parte dello Stato nel perseguire i trasgressori, rendendo loro difficile rispondere adeguatamente alle accuse. Inoltre, la legge estende l’ambito delle “attività terroristiche” includendo “espressioni pubbliche di supporto o simpatia per le organizzazioni terroristiche”. In altre parole, una volta che i partiti politici palestinesi sono considerati organizzazioni terroristiche dal regime israeliano, l’espressione politica palestinese viene di fatto censurata.

Un nuovo attacco coordinato

Da un lato, i sopracitati attacchi all’Edward Said National Conservatory of Music, allo Yaboos Cultural Centre e allo Shafaq Cultural Network sono parte integrante della continua perturbazione della vita culturale e politica palestinese a Gerusalemme da parte del regime israeliano. Dall’altro, costituiscono nuovi e coordinati sforzi per diffamare e distruggere la società civile e le organizzazioni dei diritti umani palestinesi, specialmente quelle con finanziamenti internazionali. Questi sforzi sono condotti prevalentemente dall’ONG Monitor, un’organizzazione israeliana che, benché affermi di essere non governativa, è un’organizzazione affiliata al governo che coordina il suo lavoro di diffamazione con il Ministero degli Affari Strategici israeliano. Dal 2015, questo ministero è guidato da Gilad Erdan [NdT, dall’agosto 2020 ambasciatore di Israele presso l’ONU e prossimo ambasciatore negli USA], un politico che ha sempre tentato di limitare la libertà di espressione dei Palestinesi. Inoltre, ha intrapreso una guerra totale contro il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e i suoi sostenitori, per la quale riceve milioni di dollari e il coordinamento con il Mossad, i servizi segreti israeliani.

L’ONG Monitor ha iniziato come un’organizzazione marginale, i cui rapporti inesatti e non documentati non erano presi seriamente. Molti dei suoi sforzi riguardavano la diffamazione dei difensori dei diritti umani, come nel caso di Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch in Palestina, che fu infine espulso dal paese nel 2019 dopo una lunghissima battaglia legale che attirò anche l’attenzione internazionale. Tuttavia, almeno dal 2015, il suo lavoro è diventato più aggressivo e coordinato, con il principale obiettivo di far ritirare i finanziamenti internazionali alle organizzazioni palestinesi, obbligandole così a chiudere. L’ONG Monitor raggiunge questo scopo concentrandosi su due tattiche principali per attaccare le organizzazioni e i singoli palestinesi.

La prima è accusarli di sostenere o lavorare con il BDS. Questo avviene in seguito agli accresciuti sforzi per criminalizzare il BDS sia in Europa sia negli Stati Uniti, malgrado vari organismi giuridici, quali la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riaffermino continuamente la legalità del boicottaggio quale forma di espressione politica. La seconda tattica è quella di accusare organizzazioni o singoli di “affiliazioni terroristiche” o di ” finanziamento del terrorismo”. Eppure, secondo un rapporto del Policy Working Group israeliano [Gruppo di lavoro sulla politica] (un gruppo di accademici, giornalisti ed ex diplomatici israeliani che lavorano per una soluzione a due Stati), malgrado l’ONG Monitor abbia costantemente e ripetutamente denunciato le organizzazioni palestinesi, non ha ancora fornito prove della partecipazione di una qualsiasi organizzazione ad attività terroristiche o violente. Infatti, lo stesso rapporto del Policy Working Group, sottotitolato “Diffamare le organizzazioni dei diritti umani che criticano l’occupazione israeliana,” ha esaminato le pubblicazioni dell’ONG Monitor e ha dichiarato che:

I metodi che impiega sono ben lontani dalle ampie indagini condotte dalle organizzazioni per i diritti umani e della società civile che sono attaccate da questa ONG. Le pubblicazioni appaiono in gran parte basate su indagini selettive su Internet e su affermazioni che riecheggiano le fonti ufficiali israeliane. Inoltre, le sue pubblicazioni si concentrano selettivamente sulla confutazione delle osservazioni e delle conclusioni pubblicate dalle organizzazioni prese a bersaglio.

In altre parole, le accuse mosse dall’ONG Monitor sono infondate, sostenute da limitate e superficiali ricerche e sono soprattutto calunniose. Eppure, piuttosto sorprendentemente, molti nella comunità internazionale stanno ora prestando attenzione alle accuse di questa organizzazione, cosa che ha avuto un effetto negativo sulla società civile palestinese. Infatti il clima creato da questa campagna crescente di diffamazione ha portato a finanziamenti sempre più esigui e, in alcuni casi, a tagli e persino al loro totale ritiro. Per esempio, recentemente, l’UE ha notificato alla rete delle ONG palestinesi (PNGO) che avrebbe messo in atto una clausola che obbliga tutti i suoi partner a non trattare con chi è nell’elenco delle sanzioni UE. Alcuni temono che questo porterà all’obbligo di esaminare il personale, gli appaltatori e i beneficiari degli aiuti come condizione per ricevere i fondi. Questo elenco di sanzioni è composto da coloro che sono stati sanzionati, nonché da organizzazioni e individui considerati terroristi. La maggior parte dei partiti politici palestinesi, compresi Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), sono sulla lista. Anche se non elenca singoli individui palestinesi, ciò potrebbe in futuro cambiare per la crescente pressione di Israele e di organizzazioni come l’ONG Monitor.

La cosa preoccupante è che gran parte della comunità internazionale non solo considera molti partiti politici palestinesi, con l’eccezione di Fatah, come organizzazioni terroristiche, ma che spesso si lascia anche tentare dall’ampia e vaga definizione di “affiliazione” data del regime israeliano. Dal 1967, 800.000 Palestinesi sono stati incarcerati dal regime militare israeliano in Cisgiordania e a Gaza, un numero che rappresenta il 20% della popolazione totale del territorio occupato. Molti di essi sono stati processati e accusati dai tribunali militari israeliani che hanno un tasso di condanna del 99%, basandosi sulla “affiliazione”. Israele è in grado di punire i Palestinesi per qualsiasi attività politica, sfruttando i suoi ordinamenti militari che sarebbero giustificati da ragioni di sicurezza. In base a questi ordinamenti, Israele ha vietato proteste o incontri politici a cui partecipino più di dieci persone, e ha vietato la distribuzione di articoli o immagini politiche. Israele inoltre accusa e punisce i Palestinesi per “affiliazione” con gruppi politici ritenuti organizzazioni terroristiche. Di conseguenza, condividere un post sui social media o anche versare una tazza di caffè a un membro di un’organizzazione dichiarata illegale può essere considerato un segno di “affiliazione”.

L’accusa iniziale contro le tre istituzioni culturali di Gerusalemme Est è stata di “evasione e frode fiscale“, ma in seguito è stato chiaro che anche esse venivano perseguite con l’accusa di finanziamento di organizzazioni terroristiche. Su queste accuse, è evidente che l’ONG Monitor ha avuto un ruolo, a causa dei suoi rapporti e delle continue calunnie su queste organizzazioni. Anche se i tre direttori sono stati rilasciati, devono ancora difendersi da queste accuse. Inoltre, devono anche affrontare lo stigma dell’accusa di sostegno a organizzazioni terroristiche, il che può avere ripercussioni nocive in un contesto di finanziamenti internazionali già in diminuzione e variamente condizionati, mentre vi sono crescenti restrizioni da parte del regime israeliano.

Raccomandazioni politiche

Alla luce di questa situazione difficile e preoccupante, ecco alcuni suggerimenti per respingere la distruzione delle istituzioni culturali e politiche palestinesi a Gerusalemme:

  • I Palestinesi, sia della diaspora sia nella Palestina storica, devono sottolineare l’importanza di mantenere istituzioni e organizzazioni palestinesi nella città. Questo dovrebbe includere sostegno finanziario e sforzi sostanziali e continui di solidarietà.
  • I Palestinesi della Cisgiordania devono opporsi all’indebolimento dell’idea di Gerusalemme quale capitale, messo in atto dall’Autorità Palestinese che ha invece dato priorità agli investimenti a Ramallah come centro amministrativo della Palestina. Devono anzi attivamente rigettare la narrazione di Ramallah come pseudo capitale palestinese.
  • I paesi terzi dovrebbero fornire sostegno pubblico e incondizionato alle istituzioni e organizzazioni palestinesi di Gerusalemme, in special modo a quelle sotto attacco da parte del regime israeliano. Questo dovrebbe essere compiuto come un atto che si contrappone all’impotenza della comunità internazionale, e in alcuni casi alla sua complicità, nei confronti del rafforzamento del controllo israeliano su Gerusalemme.
  • I paesi terzi dovrebbero inoltre riconoscere e sottolineare l’importanza del fatto che ci sia una rappresentanza politica palestinese in città. Al riguardo, dovrebbero sostenere il ripristino dell’Orient House come sede di tale rappresentanza, come fece l’UE nel 2014, e fare pressione politica in tal senso.
  • Gli stati terzi e le organizzazioni internazionali non dovrebbero usare né l’ONG Monitor né il Ministero degli Affari Strategici israeliano come fonti legittime di informazione sui Palestinesi o sulle organizzazioni palestinesi. Inoltre, dovrebbero riconoscere pubblicamente l’ONG Monitor come una emanazione dello stato israeliano, che ha il compito particolare di demonizzare e criminalizzare la società civile palestinese.
  • La comunità internazionale deve rigettare come illegittime e infondate le accuse del regime israeliano che parlano di attività terroristiche e “affiliazione” politica, in special modo perché la definizione di “affiliazione” è lasciata intenzionalmente ampia così da colpire qualsiasi Palestinese.

Yara Hawari è analista senior di Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network. Ha completato il suo dottorato di ricerca in Politica del Medio Oriente all’Università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi universitari e dove continua a essere una ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico, incentrato su studi locali e storia orale, è anche spesso una commentatrice politica che scrive per vari media, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera English.

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina

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