“Prego per lui e aspetto la morte”: Le madri dei manifestanti uccisi riflettono sull’Ottobre del 2000

Ott 30, 2020 | Riflessioni

di Suha Arraf

+972magazine, 21 ottobre 2020.

Venti anni dopo, tre madri palestinesi parlano della loro perdita che è diventata un simbolo nazionale, la lotta quotidiana del convivere con il dolore e la paura di un altro Ottobre 2000.

Hadiya Hussein, madre di Ahmad Jabareen. ‘Sono passati venti anni ed è come se fosse ieri. Il dolore non è diminuito’. (Oren Ziv)

Aseel Asleh, 17, di Arrabeh
Alaa Nassar, 18, di Arrabeh
Ahmad Jabareen, 18, di Mu’awiya
Musleh Abu Jarad, 19, di Umm al-Fahm
Muhammad Khamayseh, 19, di Kufr Kanna
Waleed Abu Saleh, 21, di Sakhnin
Rami Ghara, 21, di Jatt
Muhammad Jabareen, 23, di Umm al-Fahm
Ramez Bushnaq, 24, di Kufr Manda
Emad Ghanayim, 25, di Sakhnin
Wissam Yazbak, 25, di Nazareth
Iyad Lawabneh, 26, di Nazareth
Omar Akkawi, 42, di Nazareth

Venti anni sono passati dai fatti dell’Ottobre 2000, durante i quali questi 13 giovani uomini [12 dei quali erano cittadini israeliani di origine palestinese, NdT] lasciarono le loro case per protestare in solidarietà con i Palestinesi dei Territori Occupati e furono uccisi dalla polizia israeliana. Erano ragazzi e uomini che hanno lasciato famiglie e madri in lutto.  Alcune di queste madri non sono più con noi. Quelle che sono ancora vive continuano a soffrire, ogni giorno da vent’anni, per la perdita dei loro figli diventata sempre più dolorosa con il passar del tempo.

Giustizia non è mai stata fatta. La Commissione Or, istituita dal governo israeliano a seguito delle pressioni esercitate dai leader arabi e dalle madri delle vittime per indagare sulle uccisioni, ha presentato le sue conclusioni nel settembre 2003. Nessun agente è stato processato.

Le madri che hanno perso i loro figli continuano a soffrire. Ecco alcune delle loro storie.

Hadiya Hussein, 60 anni, di Umm al-Fahm. Madre di Ahmad Jabareen.

“Ahmad aveva 18 anni quando morì. Era il primogenito. Dopo la sua morte, rimasi con due figli maschi e quattro femmine.

“Quando Ahmad fu ucciso, ero con suo padre in viaggio in Giordania. Dovevamo tornare quel giorno. Prima di tornare, ho anche parlato con [Ahmad] al telefono. Mio marito gli chiese se stesse accadendo qualcosa a Umm al-Fahm. Ahmad rispose che era tutto tranquillo. Spensi il telefono, tutto andava bene, andai a pranzo e improvvisamente mi sentii soffocare. Avevo perso l’appetito, non sapevo perché mi sentivo così angosciata. Lasciai il ristorante.  Sentimmo che c’erano proteste a Umm al-Fahm ma mai mi sarei aspettata quel che accadde.

“Quando lasciammo il ristorante, Abu Ahmad guidava mentre io ero seduta accanto a lui. I nostri vicini erano sul sedile posteriore. A un certo punto il fratello di mio marito telefonò per dirci che Ahmad era stato ferito. Abu Ahmad mi disse subito, ‘Ho la sensazione che nostro figlio è morto’. Lo sentì immediatamente. Volevo calmarlo perché stava guidando e la strada era piena di saliscendi e di curve. Gli dissi, ‘Se è vivo, lo vedremo, se non è vivo: Dio dà e Dio toglie’. Iniziai a piangere. Volevo gridare ma mi sono trattenuta.

“Raggiungemmo il valico di frontiera, pregammo, e cambiammo la targa. Il nostro telefono non smetteva di suonare. Amici, familiari, tutti ci chiedevano di Ahmad. Rispondevamo che eravamo fuori dal paese e che non ne avevamo idea. Ma tutta la città sapeva che era stato ucciso. Solo noi non lo sapevamo. C’era un enorme traffico alla frontiera, così Abu Ahmad ha guidato sul marciapiede e ha sorpassato gli altri. Era sconvolto, ma non c’era nessun altro che sapesse guidare. Quando raggiungemmo l’ospedale Rambam [a Haifa], trovammo molte persone di Umm al-Fahm e di altre città. Ahmad era in una stanza da solo, attaccato a dei tubi per respirare. Ho messo la mia mano sul suo corpo, era freddo come ghiaccio. Ho detto a suo padre, ‘Mio figlio è un shaheed [NdT: martire], perché lo maltrattano collegandolo a una macchina per respirare e gli legano la lingua?’ Piangevo ininterrottamente. Le mie lacrime non si fermavano.

“Il nostro vicino ci condusse a casa. La nostra casa e il vicinato erano pieni di gente. I vicini costruirono una tenda per il lutto e sistemarono tutte le sedie per il funerale. I miei gemelli avevano 7 anni, stavano lì in piedi spaventati e piangevano. Omar aveva nove anni all’epoca, anch’egli piangeva. Mimouna, che ne aveva 16, fu forte, ma Sansabil, di 15 anni, ebbe un crollo nervoso e svenne. Io non avevo idea di dove fossi. Guardavo i volti della gente e mi dicevo, ‘Non può essere che mio figlio è morto’, anche se sapevo che era morto. Mi sforzavo di accettarlo. Mi chiedevo cosa quelle persone stessero facendo nella nostra casa. Davvero mio figlio era morto? Salii le scale e tutti mi guardavano con pietà. Non sapevano cosa dirmi e io non avevo idea di cosa dire loro. È difficile descrivere la situazione. Non ricordo molto di quel giorno, ho dimenticato molte cose a causa del  trauma. Ero come uno zombie. La casa era piena, le persone sedevano scioccate e mi guardavano; non mi consolavano nemmeno. Non c’era nulla da dire, non si poteva dire nulla. Ricordo solo una donna che mi disse che ero fortunata perché mio figlio era uno shaheed. Le lacrime non si fermavano, piangere era la sola cosa che potevo fare.

“Il giorno seguente ricevemmo una telefonata dall’ospedale. Ci dissero di andare perché avrebbero staccato Ahmad dalle apparecchiature mediche. Dissi ad Abu Ahmad che mi rifiutavo di permettere loro di donare i suoi organi a degli Ebrei. Se mio figlio fosse morto di morte naturale non avrei avuto problemi a donare i suoi organi a chiunque ne avesse avuto bisogno. Ma dopo che lo avevano ucciso, non lo potevo permettere. Non andai all’ospedale, non avrei retto emotivamente. Abu Ahmad, così come i miei figli, nipoti e amici di Ahmad andarono. Mio figlio era stato portato all’Abu Kabir Forensic Institute [per l’autopsia] perché la polizia aveva dichiarato che i proiettili erano stati sparati da [Palestinesi] all’interno di Umm a-Fahm. Mio figlio è stato ucciso da un cecchino, il proiettile lo colpì alla schiena. Riavemmo il suo corpo nella notte. Benché [la polizia] avesse chiuso l’ingresso a Umm al-Fahm, non si può immaginare quante persone entrarono in città dalle colline e da altri ingressi. Erano migliaia al suo funerale. Non riuscivo a capire, era come un sogno. Non riuscivo a credere che se ne fosse andato.

“Dopo l’assassinio di Ahmad, siamo andati a ogni udienza in tribunale e a ogni incontro con le famiglie dei martiri. Fummo molto amareggiati quando il caso fu chiuso. Sentimmo che era una grande ingiustizia, che ci avevano mentito, che la democrazia è riservata agli Ebrei e non a noi. È nostro diritto protestare ed esprimere frustrazione. Siamo una famiglia politicizzata e Ahmad partecipava regolarmente alle manifestazioni. Ci identifichiamo con il Movimento Islamico e si sta bene quando si ha un senso di appartenenza.

“Ahmad era molto attivo. Era volontario con l’Associazione israeliana per la lotta contro il cancro, era attivo contro l’esproprio delle terre e prendeva parte alle manifestazioni. Ha ricevuto molti attestati di riconoscimento. Amava il karate e ha ricevuto delle medaglie; amava restituire ciò che aveva avuto. All’improvviso, dopo la sua morte, ho imparato molto su mio figlio dai racconti su di lui. Un ragazzo con disabilità della sua classe mi disse che Ahmad lo aiutava sempre e gli faceva compagnia durante la ricreazione. 

“La camera ardente rimase aperta per 11 giorni, ma per più di sei mesi ricevemmo visitatori ogni giorno. Ci abituammo al fatto che la casa fosse sempre piena. Fu un periodo difficile per la città intera. Era la prima volta che accadeva [a Umm al-Fahm]. Siamo abituati a vedere questo genere di cose in Cisgiordania, ma per noi fu un trauma. Confortavo i vicini; non sapevo da dove mi venisse la forza di farlo. Forse perché sono una donna religiosa e forse perché avevo altri figli piccoli da accudire. Soffrivo in silenzio ma sono riuscita a resistere per sei mesi. Dovevo perseverare. Se io fossi crollata, la nostra casa e la nostra famiglia sarebbero crollate. Per un intero anno avevo problemi a dormire e la notte piangevo in silenzio. Non volevo che Abu Ahmad e i bambini mi vedessero piangere. Fu solo quando la gente smise di venire in visita che io finalmente aprii l’armadio di Ahmad e iniziai a toccare le sue cose e i suoi vestiti. Anche i regali che gli avevo portato dalla Giordania, pantaloni e scarpette da ginnastica e una camicia, li misi insieme ai suoi vestiti. Non li diedi a nessuno. Chiamai mia sorella e le dissi ‘Avevo un uomo in casa’. Mio figlio era alto.

“Sono passati vent’anni ed è come se fosse ieri. Il dolore non è diminuito. Al contrario, aumenta con il tempo, cresce. Mi manca sempre di più. Ho smesso di sognarlo, ma c’è stato un sogno che mi è rimasto dentro. Sognai che fosse un sabato ed egli era in piedi accanto a un grande armadio. Le ragazze della sua classe erano in piedi accanto a lui. Gli ho chiesto, ‘Perché stai in piedi così?’ Mi rispose, ‘Avevamo un esame ed ero nervoso, ma ora non ho più paura, sono felice’. Gli ho chiesto se l’esame era di domenica. Mi ha risposto, ‘No, domenica io sono stato ucciso e sono diventato un martire’, e poi disse che era in paradiso. Lo seppellimmo un lunedì. Mio figlio fu ucciso il 1° ottobre”.

Jamila Asleh, 68 anni, di Arrabeh. Madre di Aseel Asleh.

“Non posso credere che siano passati 20 anni. Mi chiedo come sono riuscita ad andare avanti senza impazzire o suicidarmi. Qualche volta mi sento debole e mi vergogno, soprattutto perché ho visto mio figlio assassinato davanti ai miei occhi. Ero a un chilometro [0,6 miglia] di distanza e non sono stata in grado di fermare la sua uccisione.

“Il giorno dell’omicidio di Aseel c’era uno sciopero generale a seguito dell’assassinio di alcuni giovani il 1° ottobre. Aseel stava dormendo. Io ero andata a casa di mia sorella a bere un caffè nel mio giorno libero. Un ragazzo della sua classe venne a svegliarlo, affinché Aseel lo potesse aiutare con il computer. Il soprannome di Aseel era Spider 17, era un genio con i computer. Poi, arrivò l’altra mia sorella con suo figlio, che era intimo di Aseel. Disse ad Aseel che c’erano agenti di polizia ai margini del villaggio, e a questo punto uscirono di casa.

Jamila Asleh, madre di Aseel Asleh. ‘Sopporti non solo il tuo dolore personale per la perdita della persona amata, ma divieni un simbolo della lotta nazionale’. (Oren Ziv)

“Ero sul portico di mia sorella. Vidi dei giovani passare e chiesi loro di Aseel. Dissero che non l’avevano visto. Lo chiamai e gli chiesi dove fosse. Mi disse che era vicino al mercato, sulla strada per Wadi Salameh. Lasciai casa di mia sorella e iniziai a camminare in direzione della manifestazione mentre chiedevo ai giovani se lo avessero visto. Nessuno l’aveva visto. Avevo un brutto presentimento ed ero preoccupata. Continuai a camminare e arrivai alla collina. Da lì vedevo i poliziotti in piedi sotto gli alberi mentre i ragazzi erano seduti sulla strada. Cercai Aseel. Non avevo un telefono così cominciai a chiedere alle persone [i loro telefoni] e tentai di chiamarlo, ma non c’era campo. Telefonai a mia figlia Nerdin e le dissi, ‘Chiama tuo fratello’.

“I poliziotti si incamminarono verso l’uliveto, lasciando i ragazzi che erano sulla strada. Quando andarono via, vidi Aseel. Lo riconobbi dalla maglia, indossava sempre maglie verdi. Iniziai a correre all’impazzata tra le rocce mentre gridavo il suo nome. C’erano centinaia di persone, arrivai vicino ad Aseel ma [la polizia] arrivò prima. Aseel era seduto da solo vicino a un albero. Un agente lo colpì con la sua arma, poi un altro gli sparò a bruciapelo, puntandogli l’arma alla testa. Lo vidi con i miei occhi.

“Impazzii, iniziai a gridare e piangere e correre e urlare, ‘Hanno ammazzato Aseel!” I ragazzi corsero nella sua direzione e lo misero in una macchina. Uccisero anche Alaa [Alaa Nassar, ucciso lo stesso giorno nello stesso posto]. Non ricordo esattamente cosa accadde perché ero traumatizzata e non ricordo chi si offrì di farmi salire in macchina. Mi portarono a casa, io e il padre di Aseel prendemmo la nostra macchina e ci recammo al centro medico di Sakhnin. Non mi lasciarono entrare, ma lì la gente mi guardava con occhi tristi. Urlavo e mi colpivo e piangevo, avevo un brutto presentimento. Aseel fu messo in un’ambulanza, ma la polizia chiuse l’ingresso dei villaggi e non lasciò passare l’ambulanza. Questa allora guidò su strade in terra battuta sino all’ospedale di Nahariya. La seguimmo ma non ricordo nulla. Ero in stato di shock.

“Quando siamo arrivati all’ospedale, abbiamo chiesto di Aseel, ma nessuno ci ha risposto. L’ospedale era pieno di agenti di polizia e gente di Arrabeh e Sakhnin, Mi sembravano fantasmi. Vidi i vestiti di Aseel su un carrello e iniziai a urlare; pensai che forse era sotto i ferri. Dopo 10 minuti, i componenti della famiglia Asleh vennero chiamati. Il marito di mia sorella andò da solo e parlò con i medici. Gli dissero che Aseel era morto. Venne fuori e ci abbracciava e piangeva, capimmo cosa era successo. Non disse una parola, piangeva solamente.

“Sulla strada del ritorno ad Arrabeh c’erano molti posti di blocco. Ricordo di non aver ascoltato [la polizia ai posti di blocco] e di aver gridato loro, ‘Avete ammazzato mio figlio!’ Il posto di blocco all’ingresso di Sakhnin fu il più difficile. Sapevano cosa stavano facendo e non volevano lasciarmi entrare. Dissi loro, ‘Avete ammazzato mio figlio’; mi risposero, ‘Se passate di là, vi spareremo’. Non ci fecero passare perché volevano che gli mostrassimo il permesso. Andammo alla stazione di polizia dove un ufficiale del villaggio di Rama mi riconobbe. Disse alla polizia di farci passare al posto di blocco. Quanto arrivammo a casa la trovammo piena di gente. Non ricordo come vi entrai, cosa mi dissero o che cosa io dissi loro. Ero come uno zombie.

“Vivi la tua vita in un certo modo e poi tuo figlio diviene un martire e tu non sei più la stessa persona. Benché io non sia cambiata – rimango la stessa donna ostinata, ribelle e femminista e che dice sempre quel che pensa – la società si aspetta che tu ti comporti in un certo modo. Tutti gli occhi sono puntati su di te. Sopporti non solo il tuo personale dolore per la perdita della persona amata, ma divieni un simbolo della lotta nazionale.

“Non sono riuscita a fermare il suo assassinio, ma dopo la sua morte non ho potuto lasciarmi andare. Ho altri tre figli. Non sono debole, non sopporto le ingiustizie. Aseel sapeva che ero una donna forte; anche gli altri figli lo sapevano e non potevo deluderli. Essere forte significa rivendicare i miei diritti e lottare per riscattare mio figlio, non piangere. Allo stesso tempo, però, qualcosa in me si è spezzato. Ho perso un figlio e i miei figli hanno perso un fratello. Ho indossato il nero, non ero nello stato d’animo di indossare qualsiasi altro colore. Ho anche smesso di truccarmi. Non desideravo vestirmi bene. Non andavo ai matrimoni perché la gioia mi ricordava la tristezza. Il mio passato era pieno di gioia, ma l’ho persa. La gioia non tornerà. Al matrimonio di Nardin ero uno zombie; fu come se io fossi incosciente. Tutti gli amici di Aseel sono venuti al matrimonio, io guardavo loro e vedevo lui. La gente ballava, io sedevo e piangevo. Anche al matrimonio ero vestita di nero. Cercavo persone che mi parlassero di Aseel o che mi ascoltassero quando io parlavo di lui.

“Quando le famiglie dei martiri iniziarono a riunirsi, all’inizio solo i padri andavano. Non ho mai creduto che le donne debbano stare a casa o che io non possa avere un’opinione. È una questione importante, ci sono decisioni da prendere e c’è un processo legale. Non posso stare seduta a casa e lasciare che altri decidano. Era mio figlio. Durante il primo incontro dissi ad Abu Aseel che volevo partecipare all’incontro con la leadership politica, l’Arab Higher Monitoring Committee [un corpo extra-parlamentare che rappresenta i cittadini palestinesi di Israele] e le altre famiglie. Mi unii a loro e poi iniziai a trascinare le altre madri agli incontri. Ero da sola alla prima riunione, ma nella seconda si era unita Umm Omar. Lentamente tutte le madri si unirono. Il dolore e la perdita ci hanno unito.

“La maggior parte dei nostri incontri era su come lottare per i nostri ragazzi. Parlavamo del nostro disappunto verso la leadership politica e qualche volta anche verso la nostra gente, poiché solo pochi [oltre ai familiari] vennero alle udienze del tribunale. Non avevamo nemmeno il tempo per parlare del nostro dolore. Queste non erano morti naturali in cui si sta seduti per alcuni giorni e la gente viene a confortati ed è tutto. Noi demmo grande risonanza al processo.

“Provo una rabbia immensa per il fatto che nessuno è stato processato dopo anni di udienze. Volevamo che l’intero mondo sapesse che stavamo vivendo sotto una costante minaccia, una minaccia alle nostre vite, alla nostra continuità. Mi preoccupo per le mie figlie che crescono i loro figli, mi preoccupo per ogni donna che mette al mondo un figlio; non voglio che passino quel che ho passato io. Una volta vivevamo nell’illusione che avevamo il diritto di dimostrare, ma nel 2000 realizzammo che non c’è una linea rossa. Ottobre non è finito; tornerà in una forma diversa. Altri “Ottobre” ci attendono. Abbiamo una responsabilità storica verso le future generazioni. Non dobbiamo allevare una generazione di codardi. Non voglio che la prossima generazione ci accusi di negligenza come noi incolpammo i nostri nonni per ciò che accadde nel 1948.

Ogni giorno ritagliavo articoli che pubblicavano qualcosa su Aseel, anche le email o lettere che ricevevamo. A volte accumulavo pile di ritagli di giornale in ogni tipo di lingua, greca, turca, inglese. Li archiviavo nei fine settimana. Ho un intero archivio dedicato ai miei figli da quando sono nati: ogni disegno, ogni certificato, tutto è archiviato.

“Aseel era un bambino così amato. Era attivo in Seeds of Peace e ha viaggiato con l’organizzazione negli Stati Uniti. Ho preso le cose di Aseel – esami, cose che ha scritto o ricevuto – ho dovuto leggere tutto per poterle documentare. Un giorno, arrivai alla sua pagella del secondo anno delle superiori; dopo di che non c’erano più pagelle. La sua vita si è fermata lì. La sua vita è finita. Il mio cuore è lacerato. La vita si è fermata con Aseel”.

Tarab Yazbak, 62 anni, di Nazareth. Madre di Wissam Yazbak e cugina della parlamentare Heba Yazbak.

“Wissam è stato ucciso nella ricorrenza di Yom Kippur. Era con i suoi zii nel quartiere orientale di Nazareth. Wissam era legato ai suoi zii e andava spesso a trovarli; il più giovane dei miei fratelli aveva quasi la sua età ed erano amici intimi. Io stavo a casa e cominciai a ricevere telefonate da mia nipote che mi chiedeva di lui. Anche mio cugino chiamò e chiese di lui.

“Wissam era uno che chiamava per avvertirmi se fosse tornato a casa tardi. Non capivo perché tutti improvvisamente chiamassero e chiedessero di lui. Mi chiedevano se era tornato a casa e io rispondevo di no. A un certo punto anche i suoi amici vennero a casa nostra e chiesero di lui. Avevano sentito a una radio locale che qualcuno era stato ucciso, che la sua identità era sconosciuta perché non avevano trovato la sua carta d’identità e che era stato portato all’ospedale. Erano preoccupati e sospettavano che fosse Wissam perché lo stavano cercando e lui non c’era. I suoi amici mi hanno portato con loro all’ospedale di Nazareth. Erano le 20:30. All’ospedale ci fu detto che l’uomo ferito era stato trasferito all’ospedale Rambam [a Haifa].

Tarab Yazbak, madre di Wissam Yazbak. ‘Vado sempre a visitare la sua tomba, piango e mi lamento con lui e gli dico quel che sto passando’. (Oren Ziv)

“Io e mia figlia arrivammo al Rambam e Wissam era in sala operatoria. I parenti e alcuni suoi amici erano lì, così come i membri dell’Arab Higher Monitoring Committee e lo zio di Wissam, Mahmoud. La gente si affollava vicino alla sala operatoria. Mio fratello aveva visto Wissam prima dell’operazione. L’ospedale aveva bisogno che qualcuno della famiglia firmasse per rimuovere il proiettile dalla sua testa. Era arrivato morto all’ospedale con due pallottole in testa. Persi conoscenza in ospedale e non ricordo cosa accadde. Quelli che erano lì mi dissero che ero svenuta. Ricordo solo di essere crollata e di aver pianto.

“Tornammo a casa con Wissam, lui era nell’ambulanza e noi al seguito. Era mattina presto, arrivammo a Nazareth e trovammo che la casa e il quartiere erano pieni di gente. Misero Wissam nel cortile della casa paterna, vicino a casa nostra. Nove giorni prima che Wissam fosse ucciso, il minore dei suoi fratelli si era sposato ed era stato allestito un grande palco nel cortile di suo padre. Wissam fu messo sul palco, che non era ancora stato smontato. Suo fratello minore era in viaggio di nozze, arrivò un giorno dopo la sepoltura di Wissam. C’era un numero incredibile di persone al funerale. Era così amato. I vicini iniziarono a chiedere, ‘Come è accaduto? Come è possibile che Wissam non sia più con noi?’ Ero come uno zombie, non vedevo le persone, non riconoscevo i volti. Anni dopo, incontrai persone che mi dissero di essere state a casa mia in quel giorno buio. Non li ricordavo. Non l’ho dimenticato un momento, non posso smettere di piangere e di essere in lutto per lui da 20 anni.

“Mi ero separata dal padre di Wissam un anno e mezzo prima che Wissam fosse ucciso. Wissam era tutto per me. Era l’uomo di casa. Se chiedete di lui, chiunque vi dirà che uomo fosse, sensibile e premuroso. Wissam lavorava con suo padre in lavori di movimenti di terra, era il suo braccio destro. Studiava economia aziendale in un’università di Haifa; ricevemmo il suo diploma di laurea dopo la sua morte. 

“Due anni fa, una scuola di Yafia [una città palestinese adiacente a Nazareth] ha pubblicato un opuscolo su Wissam. Continuo a leggere di Wissam e piango. Era il mio primogenito, ero molto attaccata a lui. Era stato un bambino educato, sensibile e responsabile. Da quando è stato assassinato, non riesco a provare gioia. Ho sposato sua sorella e un altro figlio sette anni fa. Non sono nemmeno andata ai loro matrimoni. C’è un grande buco in me, come se mancasse una parte di me. Sono morta dentro, la gioia è morta. Malgrado abbia nipoti e li ami, non posso provare gioia.

“La sorella più piccola di Wissam ha dato il suo nome a suo figlio. I suoi due fratelli minori erano molto legati a lui, era come un padre per loro. Era lui che li portava al centro commerciale, gli comprava i giocattoli e usciva con loro. Io sono distrutta. Ho affrontato due colpi nell’arco di un anno e mezzo: prima ho divorziato da mio marito e poi ho perso mio figlio.

“È stata una catastrofe. Non dimenticherò o smetterò di piangere neanche tra cento anni. Il giorno in cui fu ucciso, ero andata dalla famiglia di una ragazza per chiedere la sua mano. Volevo che Wissam si sposasse. Aveva costruito una casa e aveva avuto il tempo per ammobiliarla. La sua casa è ancora vuota. Ogni cosa è rimasta com’era; ho anche riparato e lasciato sul suo letto gli abiti che indossava il giorno in cui fu ucciso. Vado sempre a casa sua. Mi siedo di fronte ai suoi vestiti e alle sue cose; parlo con lui, gli racconto quel che sto passando e piango. Il sangue dei nostri ragazzi era a buon mercato. Per anni, le famiglie dei martiri hanno tentato di lottare nei tribunali, è stato tutto inutile. Il sangue arabo è a buon mercato. Tutto è stato invano. Mi sarei sentita sollevata se gli assassini fossero stati puniti. Spero che [i martiri] abbiano giustizia prima che io muoia.

“Ogni volta che ci incontravamo, le famiglie dei martiri e le altre madri mi confortavano. Mi abbracciavano, anche se tutti avevano perso i loro figli e la loro catastrofe era simile alla mia. Forse perché avevo due bambini piccoli a casa e nessun marito. Wissam era quello che ci sosteneva dopo che io e suo padre ci eravamo separati.

“Wissam amava lo sport. Era membro di una palestra vicino a casa di suo nonno; tornava a casa dal lavoro e andava in palestra. Amava anche fotografare, fotografava sempre i suoi fratelli e le sue sorelle. Abbiamo una grande borsa piena delle sue foto. Amava viaggiare all’estero; era andato negli Stati Uniti, in Grecia, a Istanbul e Taba. Era un gran lavoratore, prima risparmiava e poi viaggiava. Sapeva come godersi la vita. Comprò un’auto un mese prima di essere ucciso, ma non ebbe il tempo di godersela. Restituimmo l’auto al suo proprietario. Né io né mio figlio sapevamo guidare.

“Non uscii di casa per quattro mesi. Uscivo solo per le udienze in tribunale, gli incontri con le famiglie dei martiri, le commissioni e gli incontri con Adalah [NdT: Adalah è un’organizzazione per i diritti umani e un centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele] che ci rappresentava in tribunale. In 10 anni non ho nemmeno fatto visita ai miei vicini. Sono sempre in casa, vivo con i ricordi. Non ho la forza e la pazienza per sedermi con la gente, non ce la faccio. Dopo 10 anni fui portata da uno psicologo. Ci andai una volta e non vi ritornai più. Non ho la forza né la capacità di starmene seduta con qualcuno. Sono passati vent’anni e io ancora non so cosa sia la gioia e non partecipo alle cerimonie. Anche quando i miei figli festeggiano il compleanno dei loro figli e suonano canzoni io mi alzo e inizio a piangere. Wissam amava le feste e i matrimoni e sapeva divertirsi. Diceva sempre, ‘La città intera verrà al mio matrimonio. Voglio un matrimonio in grande’. Al suo funerale c’erano migliaia di persone. Molti vennero da tutto il paese, alcuni non riuscirono a entrare perché la polizia impedì loro l’ingresso. 

“Dopo che Wissam fu ucciso, iniziai ad avere più paura per i miei figli. Divenni ossessivamente apprensiva. Continuo a pregare Dio e a supplicarlo di prendersi cura dei miei figli, così che non ne perda un altro. Non sarei in grado di sopportare un altro dolore. Dentro di me sono morta.

“I primi 10 giorni non ho potuto mangiare nulla, l’unica cosa che facevo era dormire. Amavo dormire per un motivo: Wissam appariva sempre nei miei sogni. Sembrava reale. Aspettavo il buio per andare a dormire così che lui venisse a trovarmi nei sogni. Lo sogno anche oggi, anche se non così spesso. Per molto tempo ho vissuto negando che se ne fosse andato, che sarebbe tornato, che non mi avrebbe mai lasciato, era tutto per me. Quando io e suo padre ci separammo e lui mi vedeva piangere, mi diceva, ‘Non mi piace vederti piangere, le tue lacrime sono preziose per me’. Una volta, dopo il divorzio, mia sorella gli disse, ‘Abbi cura di tua madre’, e Wissam rispose, ‘Lei è la mia luce. Lei è i miei occhi’.

“Vado sempre a visitare la sua tomba, piango e mi lamento con lui e gli dico quello che sto passando. Prego per lui e piango e aspetto la morte”.

Suha Arraf è regista, sceneggiatrice e produttrice. Scrive di società araba, cultura palestinese e femminismo.

https://www.972mag.com/october-palestinian-mothers/

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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