Per un nuovo immaginario politico, gli Ebrei di Israele devono dis-imparare il sionismo

Mag 30, 2020 | Riflessioni

di Norma Musih 

+972magazine, 24 maggio 2020

Come Israeliani, il nostro compito non è solo quello di riconoscere l’espulsione dei Palestinesi nel 1948, ma di educare la nostra immaginazione a costruire un luogo condiviso per vivere in libertà e uguaglianza.

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Cerimonia di un kibbutz, luglio 1951 פוטו ארדה

Mi sono trasferita da Gerusalemme a Tel Aviv nel 2001. Fin da allora, avevo capito la storia delle centinaia di villaggi palestinesi spopolati sparsi nell’attuale Israele. Li conoscevo come parchi nazionali, come rovine lungo la strada, come siti di picnic e come città israeliane; alcuni li conoscevo con i nomi arabi originali.

Tel Aviv stessa domina sei località palestinesi esistenti prima del 1948: al-Jamasin al Gharbi, al-Mas’udiyya (Summayl), al-Shaykh Muwanis, Salameh, un villaggio di pescatori e il quartiere settentrionale di Giaffa al-Manshiyya. Tuttavia, quando ho visto i loro resti, mescolati con le strade, le gallerie e le caffetterie di Tel Aviv, non riuscivo a immaginare che questi villaggi o i loro abitanti potessero tornare a far parte della città.

La mia incapacità di immaginare un futuro di questo tipo, parla del potere schiacciante che l’immaginario nazionale sionista ha avuto sul mio pensiero. L’ethos del sionismo ha ridisegnato la terra con gli strumenti della partizione, segregazione e discriminazione, senza lasciare spazio per immaginare qualcosa di diverso da ciò che esiste oggi. Pochissimi ebrei israeliani, ad esempio, riescono politicamente ad immaginarsi come pari ai palestinesi, sia con cittadinanza israeliana che senza.

L ‘”immaginazione” non appartiene semplicemente al regno della fantasia; non è qualcosa di irreale che “accade” quando si chiudono gli occhi. Al contrario, è un’azione che ha luogo quando gli occhi guardano. E abbiamo bisogno dell’immaginazione per comprendere il passato, il presente e il futuro di Israele-Palestina attraverso lenti liberate dai confini dell’immaginario esclusivo del sionismo.

Per la teorica politica Hannah Arendt, l’immaginazione riguarda le relazioni che nascono tra persone che possono vedersi gli uni con gli altri e immaginare le reciproche prospettive. La forza dell’immaginazione, scrive, “rende gli altri presenti e quindi si muove in uno spazio potenzialmente pubblico, aperto da tutti i lati … Pensare con una mentalità aperta significa allenare la propria immaginazione a guardare in giro”.

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Cerimonia di un kibbutz, luglio 1951 פוטו ארדה

Arendt ci insegna che l’immaginazione non è qualcosa che “appare”, come una musa ad un artista o come qualità di cui disponiamo dalla nascita. È invece una capacità che dobbiamo addestrare. L’immaginazione è come un muscolo del corpo o la capacità di scrivere o pensare: un processo continuo che richiede pratica. Attraverso questa nozione, Arendt suggerisce di sviluppare l’immaginazione come strumento per superare i “tempi bui” e produrre cambiamenti politici.

Per Israele-Palestina, voglio suggerire tre pratiche chiave per addestrare la nostra immaginazione a costruire un luogo condiviso per vivere in libertà e uguaglianza: disimparare il sionismo; adottare un approccio attivista alle realtà attuali; e visualizzare future alternative.

Disimparare il Sionismo

Per gli Ebrei israeliani, disimparare il sionismo significa comprendere l’ideologia non solo come movimento nazionale ma come movimento coloniale – in altre parole, è necessario capirlo attraverso le lenti della Nakba. Tra le altre cose, ciò richiede l’apprendimento della storia che non viene insegnata nelle scuole israeliane: il dispossessamento della popolazione palestinese nativa dal 1948, l’espulsione di oltre 700.000 Palestinesi e la distruzione di centinaia di città e villaggi.

Non è un movimento facile per gli Ebrei-Israeliani, ma rimane necessario

Il sionismo è la cornice essenziale attraverso la quale gli Ebrei sono diventati Israeliani: è parte della nostra educazione e parte delle nostre fantasie collettive più arcaiche. Tuttavia, oltre al male che fa ai Palestinesi, il sionismo ha anche influenzato le comunità ebraiche in modo diverso, in particolare i Mizrahim (Ebrei con radici nel mondo arabo o musulmano), che non si sono allineati con i fondamenti dell’ideologia dei bianchi Ashkenazi e hanno affrontato decenni di discriminazione.

Un mito collettivo sionista chiave sta nello slogan “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Lo slogan afferma che non c’erano comunità, agricoltura o cultura sociale in Palestina prima della nascita dello stato ebraico. Cerca di giustificare la rivendicazione ebraica della terra mentre cancella l’idea che un’altra società abbia un’appartenenza ad essa. Questa cecità acquisita è molto potente, e cancella virtualmente un intero popolo dalla carta geografica.

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Ahad Ha’am tra i primi sostenitori di un sionismo culturale e del bi-nazionalismo. (National Library of Israel)

Non tutti coloro che erano coinvolti nel movimento sionista condividevano questa cecità. Ad esempio, il fondatore del “sionismo culturale”, Asher Zvi Hirsch Ginsberg, meglio conosciuto con il suo pseudonimo Ahad Ha’am, si opponeva alle opinioni di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo moderno. Nel 1891, Ahad Ha’am scrisse “La verità sulla Palestina”, un resoconto basato sulla sua visita nel paese, dove descriveva la Palestina non come una terra vuota, ma come un territorio coltivato e abitato da altre persone. Ahad Ha’am divenne uno dei “padri intellettuali” di Brit Shalom (Alleanza di Pace), un gruppo fondato nel 1925 durante il mandato britannico che sosteneva la causa di uno stato binazionale con eguali diritti civili per Ebrei e Arabi.

L’immaginario sionista alla fine ha lavorato per creare il mitico “vuoto” della Palestina attraverso l’espulsione degli abitanti nativi, la cancellazione dei nomi palestinesi dalla mappa e la distruzione dei luoghi palestinesi esistenti. La successiva costruzione di altre località con nomi ebraici continuò il processo di dimenticare il passato. L’immaginario sionista spesso descrive questo percorso di decimazione come l’unica ed inevitabile scelta che poteva essere fatta, anche se c’erano voci precedenti come quelle di Ahad Ha’am e Brit Shalom che mostravano altre possibilità.

Di fronte a questi miti, forse il ruolo più produttivo che l’immaginazione politica può svolgere nella politica israeliana è mettere in discussione la narrativa sionista, educando noi stessi e la prossima generazione di ebrei israeliani ad imparare la storia della Nakba in ebraico e nelle scuole israeliane.

Agire nel presente, prospettare alternative

Per spostare il nostro pensiero sull’immaginazione politica non come un’attività mentale individuale ma come un’azione collettiva, dobbiamo intendere il riconoscimento della Nakba e l’assunzione della responsabilità di questa memoria come azione performativa. Un esempio di questa pratica è il lavoro di Zochrot (ebraico per “ricordiamo”), che promuove il riconoscimento e la responsabilità della Nakba tra gli Ebrei israeliani.

Una delle principali attività di Zochrot è guidare visite alle rovine delle località palestinesi spopolate, che era all’inizio un modo per raccontare agli Ebrei israeliani la storia taciuta della Nakba. Ma mentre i tour proseguivano e si accumulavano più testimonianze di Palestinesi e Israeliani, gli attivisti di Zochrot hanno capito che la Nakba non è una memoria solo palestinese, ma condivisa. È il ricordo di un passato comune che contiene relazioni multiple e intrecciate tra Ebrei e Arabi, che vanno dal vicinato amichevole alle atrocità e alla distruzione.

E tuttavia c’è, ovviamente, una forte distinzione tra memoria e sofferenza. La principale sofferenza era ed è ancora palestinese; sono loro che hanno perso la casa, la terra e la libertà. Ma la memoria appartiene anche agli autori di questa sofferenza. Gli Ebrei israeliani che hanno commesso le atrocità, le hanno osservate o hanno incoraggiato la missione del sionismo. Ancora oggi, Ebrei israeliani, noi godiamo i frutti di quegli eventi. E per questo, sia Israeliani che Palestinesi condividono questa memoria come vittime e autori, non in parti uguali. Quindi questa memoria appartiene ad entrambi i gruppi e fa parte della nostra storia condivisa che non può essere raccontata separando l’una dall’altra.

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Rifugiati palestinesi dal Beach Camp in Gaza salgono a bordo di navi verso il Libano o l’Egitto nel corso della prima guerra Arabo-Israeliana 1949. (UN Archives Photo/Hrant Nakashian)

Una terza pratica per educare l’immaginazione è visualizzare alternative per il futuro. Ciò significa creare alleanze tra diversi gruppi nelle società israeliane e palestinesi, ripensare le politiche e sviluppare piani e strategie dettagliati per sfidare “lo stato delle cose”. Questo tipo di esercizio deliberativo rende scenari apparentemente impossibili una reale possibilità, questione chiave tra essi, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Il diritto al ritorno palestinese, stabilito nella Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, contesta i presupposti fondamentali dell’immaginario nazionale sionista. Di solito, quando il concetto di “ritorno” viene sollevato nelle discussioni in ebraico, si chiude effettivamente la discussione. L’idea stessa evoca una profonda paura politica, mostrando in tal modo i limiti dell’immaginazione ebraica israeliana.

La negazione di Israele del diritto al ritorno palestinese dal 1948 è stata articolata nel discorso pubblico israeliano come una minaccia demografica, foriera di un secondo esilio, o addirittura di un secondo olocausto, del popolo ebraico. Questa nozione trova la sua espressione nel popolare avvertimento israeliano secondo cui “gli Arabi ci getteranno [noi Ebrei] in mare”.

Queste paure politiche si manifestano in mille modi: dai dibattiti accademici israeliani, al sistema legale, alle politiche e alla legislazione del governo. Questa paura è attivamente incentivata per giustificare e continuare la negazione del diritto al ritorno, così come la banalità dei mali quotidiani commessi dagli Israeliani contro i Palestinesi.

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Cittadini palestinesi di Israele ritornano nel villaggio distrutto di al-Ruways, il 30 marzo 2013. L’evento di ritorno è stato organizzato dal gruppo di attivisti Zochrot, che educa gli Ebrei israeliani sulla Nakba. (Ryan Rodrick Beiler / Activestills.org)

Questa paura collettiva, tuttavia, potrebbe essere mitigata se gli Ebrei israeliani pensassero insieme ai Palestinesi su come il ritorno dei rifugiati palestinesi possa essere realizzato in pratica; vale a dire, per pianificare il “day after” dall’inizio. Questo vuol dire la ricostruzione di mappe della Palestina pre-1948, la pianificazione della costruzione di nuove case, villaggi e città, l’integrazione delle lingue araba ed ebraica nella vita pubblica, la riprogettazione dei sistemi di istruzione e la creazione di nuove opportunità di lavoro.

Immaginazione condivisa

Sia il pubblico israeliano che quello palestinese devono esercitare la loro immaginazione politica per collegare la loro storia e memoria al qui e ora. La nostra immaginazione politica deve porre una domanda: cosa sarebbe accaduto se i Palestinesi non fossero stati espulsi dalle loro case e gli fosse stato permesso di tornare?

L’attivismo richiede di imparare da errori del passato, navigare attraverso ostacoli e possibilità e ricercare un terreno comune tra i diversi gruppi. La pandemia da coronavirus è un esempio appropriato di come ciò sia possibile Storicamente, le pandemie hanno spesso costretto le società a rompere con il passato e immaginare il loro mondo sotto una luce diversa; l’attuale pandemia ha lo stesso potenziale in Israele-Palestina. Il coronavirus se ne infischia dei muri o dei posti di blocco che separano le comunità palestinese e israeliana e ha rivelato quanto sia profonda la nostra dipendenza reciproca.

Ci sono barlumi di speranza, nonostante l’aumento delle difficoltà, durante la pandemia. Ad esempio, un piccolo ma crescente numero di cittadini israeliani sta riconoscendo la propria responsabilità per l’impoverimento del sistema sanitario palestinese nei territori occupati; un gruppo ha lanciato una campagna di crowdfunding per acquistare forniture mediche per Gaza, ed ha superato il suo obiettivo del 550 percento.

La diffusione del virus dimostra la nostra capacità di cambiare il modo in cui agiamo e il modo in cui ci relazioniamo l’uno con l’altro, anche ridefinendo la nostra comunità immaginata, il nostro “noi”. Possiamo cambiare le nostre abitudini quotidiane e possiamo cambiare le nostre priorità politiche. Non dobbiamo tornare al “modo in cui le cose erano prima” – una realtà perversa di violenza e spossessamento. Un’immaginazione condivisa può guidarci.

Norma Musih è una ricercatrice di cultura visuale e media digitali. È attualmente nel dipartimento di Sociologia ed Antropologia alla Ben-Gurion University del Negev.

Traduzione Alessandra Mecozzi da https://www.972mag.com/zionism-imagination-nakba-israelis/

1 commento

  1. Lorenzo Maini

    Condivido pienamente le riflessioni esposte anche se credo che purtroppo siano utopiche

    Rispondi

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