Persa ogni speranza di cambiamento, attivisti e studiosi di primo piano si lasciano Israele alle spalle

Mag 25, 2020 | Riflessioni

Hanno fondato i movimenti anti occupazione e combattuto per l’anima della società israeliana, ma alla fine hanno deciso di migrare. I nuovi esuli raccontano ad Haaretz come sono stati attaccati e messi a tacere fino a non avere quasi altra scelta che andarsene.

di Shany Littman

Haaretz, 23 maggio 2020

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Lo scorso dicembre, quando nessuno sapeva che il coronavirus era in agguato, Eitan Bronstein Aparicio, 60 anni e la sua compagna, Eleonore Merza, 40 anni, hanno lasciato Israele per un posto migliore. Sono entrambi ben noti negli ambienti degli attivisti di sinistra. Lui ha fondato l’organizzazione Zochrot circa 20 anni fa, lei è un’antropologa politica, e hanno firmato insieme un libro sulla Nakba (in arabo “catastrofe” come i Palestinesi chiamano gli eventi prodotti dalla fondazione di Israele). Ideologicamente, politicamente e professionalmente, Merza, nata francese, figlia di una madre ebrea e di un padre circasso, semplicemente non poteva più sopportare la situazione. Nonostante stesse per ottenere la residenza permanente in Israele, quando ha trovato un impiego a Bruxelles, la coppia si è trasferita lì con nessuna intenzione di tornare.

In una conversazione telefonica con Haaretz dal Belgio chiuso per coronavirus, Bronstein Aparicio dice di non riuscire ancora a credere di essere partito. “Vedo questa vicenda come una specie di esilio, un allontanamento dal centro di Israele” spiega.

Nato in Argentina, Bronstein Aparicio era immigrato in Israele quando aveva 5 anni, ed era cresciuto nel Kibbutz Bahan nel centro di Israele. “Il mio nome fu cambiato da Claudio a Eitan –porto dentro di me la rivoluzione Sionista– “dice ridendo. Si descrive come un “Israeliano regolare” che ha fatto il servizio militare, come tutti. Un percorso personale che chiama “la decolonizzazione della mia identità sionista”, lo ha condotto a creare Zochrot (“Ricordare” in ebraico) nel 2001, una ONG che vuole promuovere nel pubblico ebraico la consapevolezza della Nakba e del diritto al ritorno dei Palestinesi. Ha cinque figli: tre di loro vivono in Israele, uno in Brasile e il più giovane, un bambino di quasi quattro anni, vive con la coppia a Bruxelles.

“C’è un punto su cui sono completamente convinto di questo trasferimento, cioè il bisogno di salvare mio figlio dal sistema educativo nazionalista e militarista israeliano. Sono contento di averlo tirato fuori da quello“, aggiunge. “Persone che condividono la mia posizione politica sentono che siamo stati sconfitti e che non saremo più in grado di esercitare una qualche influenza in Israele. In un senso profondo, non vediamo più un orizzonte di riparazione, di una vera pace o di una vita di una qualche qualità. In molti hanno capito tutto ciò e hanno cercato un altro posto dove vivere. C’è qualcosa di folle in Israele, per questo guardarlo a distanza è almeno un po’ più sano”.

È vero che molti di quelli che appartenevano a quella che si definisce sinistra radicale in Israele, hanno lasciato il paese nell’ultimo decennio. Tra questi c’erano coloro che avevano dedicato la vita all’attivismo, fondato movimenti e guidato alcune delle più importanti organizzazioni di sinistra: non solo Zochrot, ma anche B’Tselem, Breaking the Silence (Rompere il silenzio), la Coalition of Women for Peace (Coalizione delle donne per la pace). 21st Year (Il ventunesimo anno), Matzpen e altri. Tra questi ci sono accademici di alto livello ––alcuni dei quali sono stati espulsi dal ruolo a causa delle attività e delle opinioni politiche– e anche figure di liberi professionisti che sentivano di non poter più esprimere senza paura le loro opinioni in Israele. Molti venivano dal cuore della sinistra sionista, spostati poi più a sinistra sentendo che lo stato aveva abbandonato i principi che per loro erano importanti, fino a scoprire di non avere più un posto nel discorso pubblico israeliano.

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Eitan Bronstein e la sua compagna Elenore Merza sulle alture del Golan

Sono sparsi nel mondo, cercando di costruirsi una nuova vita, con conflitti interni ed esterni, spesso preoccupati per il futuro dei figli. Molti di loro rifuggono dal definirsi esuli politici, ma dicono chiaramente che ciò che li ha indotti ad andarsene, o almeno a non tornare, è stata l’opposizione al governo israeliano. Alcuni hanno rifiutato di farsi intervistare, per il disagio che provano ad andarsene e perché non vogliono che la loro storia privata diventi un modello per altri. Quelli che hanno parlato ad Haaretz sarebbero i primi ad ammettere di godere di privilegi che permettono loro di spostarsi in un altro paese e nessuno si trova di fronte ad un futuro economicamente incerto o alla prospettiva di dover svolgere un lavoro umile. Tuttavia c’è una chiara nota di sofferenza che attraversa tutte le conversazioni.

Tra i nomi noti di persone che non vivono più in Israele ci sono la curatrice e teorica dell’arte Ariella Azoulay e il suo compagno, il filosofo Adi Ophir, che è stato tra i fondatori di 21st Year, un’organizzazione anti occupazione, e ha rifiutato di prestare servizio nei territori occupati; Anat Biletzki, già presidente di B’Tselem, l’Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories (Il Centro di Informazione Israeliano sui Diritti Umani nei Territori Occupati); Dana Golan, già direttrice del gruppo anti occupazione Breaking the Silence; l’architetto e urbanista Haim Yacobi, che aveva fondato Bimkom – Planners for Planning Rights (Urbanisti per i diritti di pianificazione urbana); la studiosa di letteratura Hanna Hever, cofondatrice di 21st Year e attiva in Yesh Gvul; Ilan Pappe, che è stato candidato del partito arabo-ebraico Hadash e membro del gruppo dei “nuovi storici” che hanno lasciato il paese da dieci anni, che vive a Londra; Yonatan Shapira, già pilota delle forze aree israeliane che ha dato vita alla lettera del 2003 dei piloti che rifiutavano di partecipare agli attacchi nei territori occupati e ha partecipato alle proteste delle flottiglie nella Striscia di Gaza.

Tra gli altri ci sono il politologo Neve Gordon, che è stato direttore di “Medici per i Diritti Umani” e attivo nella Ta’ayush Arab Jewish Partnership (Alleanza arabo ebraica), un movimento non violento anti occupazione e per i diritti civili di uguaglianza; Yael Lere, che ha contribuito alla fondazione di Balad, il partito nazionalista arabo ed ha fondato l’ora defunta casa editrice Andalus Publishing, che traduceva letteratura araba in ebraico; Gila Svirsky, una delle fondatrici della Coalition of Women for Peace (Coalizione delle donne per la pace); Jonathan Ben Artzi, un nipote di Sarah Netanyahu, che è stato in prigione per quasi due anni per aver rifiutato di arruolarsi nel servizio militare israeliano; Haim Bereshit, un attivista del BDS che è stato dirigente della Scuola di Cinema e Media del Sapir College a Sderot e ha creato la cineteca della città. Marcelo Svirsky un fondatore del gruppo per la coesistenza arabo-ebraica Kol Aher BaGalil in Galilea; Ilana Bronstein, Niv Gal, Muhammad Jabali, Saar Sakali e Rozeen Bisharat, che avevano cercato di creare un luogo palestinese-ebraico di cultura e tempo libero presso il bar Anna Loulou di Jaffa (chiuso nel gennaio del 2019).

I nuovi “in partenza” si sono uniti a quelli che se ne erano andati molti anni fa per motivi politici, tra loro: Yigal Arens, un attivista di Matzper e figlio del defunto Moshe Arens, a lungo ministro delle difesa; gli attivisti di Matzpen Moshe Machover, Akiva Orr e Shimon Tzabar, che sono partiti negli anni 60; così come i registi Eyal Sivan, Simone Bitton e Udi Aloni che se ne sono andati negli anni 80’ e 90’.

La parola che ricorre di continuo parlando con queste persone è “disperazione”. Una disperazione pervasiva che si perpetua per anni.

“Mi ricordo bene il periodo degli accordi di Oslo, l’euforia che ho condiviso,” dice Bronstein Aparicio. “Ricordo gli anni in cui c’era la sensazione che forse [il conflitto] si sarebbe risolto e forse ci sarebbe stata la pace, ma quella sensazione non è durata a lungo. È una sensazione di costante disperazione che continua a crescere.”

Così, dopo lunghi anni di attivismo tutti gli intervistati hanno affermato di aver perso la speranza in un cambiamento politico in Israele. Molti di loro sono convinti che se avverrà un cambiamento, non verrà dall’interno di Israele. “Penso che possa venire solo dall’esterno”, spiega Bronstein Aparicio. “Spero nel BDS, che è l’unica cosa significativa sul campo. Da quel punto di vista, l’esilio politico può avere un ruolo significativo”.

Sensazione di fallimento

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Il politologo Neve Gordon

Neve Gordon, 54 anni, si è lanciato nell’attivismo politico quando ne aveva 15, partecipando alle manifestazioni di Peace Now. Fu ferito seriamente durante il servizio militare come combattente nei paracadutisti. Durante la prima Intifada (che cominciò nel dicembre del 1987) prestò servizio come primo direttore esecutivo dei Medici per i Diritti Umani di Israele. In seguito è stato attivo in Ta’ayush, che sostiene forme di cooperazione ebraico-palestinese ed è stato fondatore della scuola ebraico-araba di Be’er Sheva. Durante la seconda Intifada ha fatto parte del movimento di coloro che rifiutavano il servizio militare nell’esercito israeliano.

Sebbene la sua attività politica sia stata a largo raggio, Gordon può essere più noto al vasto pubblico israeliano soprattutto per un articolo pubblicato sul Los Angeles Times nel 2009 quando era capo del dipartimento di Scienze Politiche della Ben Gurion University di Be’er Sheva. In quel pezzo, Gordon dichiarò il suo sostegno al movimento del boicottaggio e definì Israele uno stato di aparheid. Si scatenò una furibonda campagna internazionale e l’allora rettore dell’università, Rivka Carmi, dichiarò che “gli accademici che hanno queste opinioni sul loro paese sono invitati a cercarsi altre sistemazioni professionali e personali”.

Negli anni seguenti il dipartimento di Gordon alla BGU divenne oggetto di sistematiche campagne delle organizzazioni di destra, soprattutto Im Tirtzu, che ne chiedevano la chiusura a causa delle opinioni politiche di alcuni membri della facoltà. Nel 2012, il ministro dell’istruzione Gideon Sa’ar (del Likud) chiese il licenziamento di Gordon. Alla fine dell’anno, il Consiglio dell’Istruzione Superiore raccomandò che l’università considerasse l’opportunità di chiudere il dipartimento di Gordon se non si fosse riusciti a far passare certe riforme, ma questa decisione alla fine venne revocata pochi mesi dopo che furono introdotti alcuni cambiamenti.

In quegli anni tumultuosi, dice il professore, ricevette diverse minacce di morte. Tre anni e mezzo fa, lui e la sua compagna, Catherine Rottenberg, che era a capo del programma di studi di genere dell’università, con i loro due figli, si sono trasferiti a Londra avendo ricevuto entrambi una borsa di studio dell’Unione Europea. Gordon è ora professore di diritto internazionale e diritti umani alla Queen Mary University di Londra.

Non sono state le minacce di morte a spingerlo ad andarsene, dice Gordon, e neppure la guerra contro l’istituzione accademica. Alla fine, la motivazione è stata il futuro dei figli. “Non vedo un orizzonte politico, e ho due figli, con tutto quel che significa allevare dei figli in Israele”.

Sei anche approdato a un’ottima sistemazione a Londra

“Vero, ma il mio posto in Israele era di gran lunga migliore. Mi piaceva davvero il dipartimento della Ben Gurion, mi piacevano gli studenti e anche i colleghi. Sentivo di avere una comunità ed è stato molto difficile rinunciare a tutto questo. Anche quando siamo arrivati a Londra, non avevamo in mente di fermarci. Se fossimo stati una giovane coppia senza figli, non sono sicuro che saremmo rimasti”, aggiunge Gordon. “C’è una sensazione di fallimento personale e anche del fallimento di un campo politico”.

C’è stato un momento particolare in cui è diventata chiara l’impossibilità di rimanere in Israele?

“Non c’è stato un momento. Negli anni abbiamo vissuto una crescita dell’estremismo. Ha raggiunto il punto in cui ci sentivamo a disagio nel portare i bambini alle manifestazioni politiche a causa della violenza. Il razzismo quotidiano sta creando un luogo a cui non sento più di appartenere”.

Il colpo finale, dice Gordon, è venuto quando ha cominciato a sentire che non era più possibile parlare liberamente contro il razzismo di cui era testimone. “Il dialogo all’interno di Israele, che di solito era aperto e di cui si andava fieri, era cambiato. Le cause che le persone come me abbracciavano –il sostegno al movimento del boicottaggio o il definire Israele uno stato di apartheid– avevano perso legittimazione”, dice, “e a quel punto non solo sei fuori dal consenso, ma fuori anche dalla discussione pubblica. Diventi una curiosità. E allora dici “A che mi serve tutto ciò?”.

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Una manifestazione del 2004 di membri di Ta’ayush, movimento anti occupazione. La parola che ricorre costantemente nelle conversazioni con gli attivisti che hanno scelto di lasciare Israele è “disperazione”

Era cambiato il paese o eri cambiato tu?

Per essere sincero, il cambiamento è avvenuto sia in me che nel paese. Ho anche fatto un percorso. Quel che ho capito è stato che la soluzione non può stare dentro il Sionismo.”

Haim Yacobi, un collega di Gordon alla BGU (Ben Gurion University), diventato in seguito capo del dipartimento di Scienze Politiche, ha lasciato anche lui Israele. Yacobi, un architetto, uno dei fondatori di Bimkom, che si occupa di questioni di uguaglianza nella pianificazione territoriale e abitativa, oggi ha 55 anni e si è trasferito in Inghilterra tre anni fa con la sua compagna e i loro tre figli, quando ricevette un posto di docenza all’University College di Londra. Come Gordon, dice che non se n’è andato per vessazioni politiche: “Se guardi alla situazione politica di Israele, onestamente, al di là del progetto coloniale in Cisgiordania e del fatto che Israele sta diventando uno stato di apartheid, allora la cosa più importante è: che cosa voglio per me stesso e per i miei bambini”.

E aggiunge: “Per quelli come me –il cui lavoro è critico e politico e che sono anche stati coinvolti nell’attivismo– che la politica ispiri speranza o disperazione ha un grande significato,” dice. “Emigrare alla mia età e nella mia condizione sociale è come dire: sono disperato, non vedo nessuna speranza. Questo è quel che deriva dalla mia analisi politica, basata su quel che io considero una società e uno stato giusti. Non è una decisione che si prende dal giorno alla notte. Non abbiamo lasciato Israele per via del prezzo del formaggio fresco. Ci trovavamo esattamente a quel punto in cui dei bravi borghesi cominciano a vedere i frutti del proprio impegno, e penso di avere avuto successo in quel che ho fatto in Israele. Fa molta paura emigrare in tarda età e doverti reinventare.”

Yacobi dice che molti suoi colleghi in Israele, anche tra la sinistra radicale, vedevano la sua partenza come un tradimento. Questa reazione è stata una sorpresa, ma non gli ha fatto cambiare idea. “La motivazione nel creare Bimkom era la mia convinzione che il cambiamento fosse possibile. Ora sono meno ingenuo”, dice, aggiungendo che la violenza politica in Israele lo ha indotto a rendersi conto che andarsene era per lui “l’unica opzione.”

Nonostante affermi di sentirsi apprezzato nell’ambiente accademico israeliano, concorda con l’opinione che la libertà accademica nel paese è stata degradata. “Penso che sono entrate delle forze politicamente preoccupanti e effettivamente sono diventate la polizia del mondo accademico,” dice.

Da Bar-Ilan a Brown

In realtà una delle cose più disturbanti emerse nelle conversazioni con gli accademici che ora vivono e lavorano all’estero è il decisivo contributo delle istituzioni di istruzione superiore nell’espulsione degli studiosi che avevano una visione di sinistra radicale. Il processo non è stato sempre evidente, e anche quando lo era, alcuni degli intervistati hanno rifiutato decisamente di parlare di cosa avevano passato, per timore che le loro ex sedi universitarie reagissero cercando di danneggiare la loro reputazione professionale.

Un caso eclatante di cui si è molto parlato, è stato il rifiuto della Università di Bar Ilan, agli inizi del 2011, di concedere la cattedra e la promozione ad Ariella Azoulay, che aveva insegnato in quella istituzione per 11 anni. La dottoressa Azoulay, di 58 anni, una studiosa di cultura visuale, curatrice d’arte e regista di documentari e una tra i più influenti intellettuali interdisciplinari, era stata assunta a Bar-Ilan cinque anni dopo l’assassinio di Yitzahak Rabin, quando l’università aveva un problema di immagine. Era stato un gesto con un sapore di pluralismo: assumere una docente con idee notoriamente di sinistra in una sede di orientamento religioso e di destra in cui aveva studiato l’assassino del primo ministro. Un decennio dopo, ben dentro l’era Netanyahu, quando le organizzazioni di destra compilavano liste nere di studiosi che criticavano Israele, l’approccio radicale di Azoulay sembrava non accordarsi più tanto bene con  chi dirigeva l’istituzione.

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Ariella Azoulay curatrice e teorica dell’arte

Alle proteste dei maggiori cattedratici che espressero la loro preoccupazione che Azoulay fosse vittima di persecuzione politica, l’Università di Bar-Ilan rispose di aver seguito criteri strettamente professionali. Tuttavia, il successo di Azoulay era tale da permetterle di ottenere un’offerta dalla Brown University di Providence, Rhode Island, una università prestigiosa nota come una delle migliori istituzioni di formazione superiore.

Un anno e mezzo dopo che le era stata rifiutata la cattedra, Azoulay lasciò il paese con il suo compagno, Adi Ophir, uno studioso di filosofia, docente all’Università di Tel Aviv, una figura di spicco della sinistra in Israele. Il professor Ophir aveva allora 61 anni, Azoulay 51. L’offerta che lei aveva ricevuto dalla Brown, comprendeva anche una posizione di docente per lui. I due hanno vissuto a Providence negli ultimi sette anni, insegnando, facendo ricerca, scrivendo libri e ottenendo un grande successo internazionale.

Ophir è cauto nell’usare il termine “esule politico”. “Decisioni come questa sono la combinazione di molte cose”, dice in una conversazione via Zoom dal Rhode Island. “Il trauma dell’espulsione di Azoulay da Bar-Ilan è stato un fattore importante. Prima di allora non avevamo mai cercato occasioni di lavoro all’estero. Solo quando è stato chiaro che la stavano buttando fuori per ragioni politiche. E anche il modo in cui reagirono i colleghi: c’è stata una lettera di sostegno, ma nient’altro. Altre università non si sono offerte per assumerla”.

“Eppure, se non avesse ricevuto quell’incredibile offerta di lavoro [alla Brown] forse non avremmo avuto la forza di prendere un decisione tanto forte. Il fatto politicamente più significativo è stato che, da quando siamo arrivati qui, non abbiamo più pensato alla possibilità di ritornare. Dal momento in cui è diventata possibile una vita piena in un altro posto, i compromessi politici e morali richiesti dal vivere in Israele sono diventati intollerabili”.

Quel che è successo ad Azoulay è tipico di ciò che succede oggi nelle università israeliane?

Ophir: ”C’è stata una rottura con l’inizio della seconda Intifada [nel 2000]. Ci siamo visti sempre più oggetto di anatemi. Non sono mai stato oggetto di persecuzioni all’Università di Tel Aviv, ma c’è questa sensazione costante di qualcosa che ti cresce attorno, una specie di incrostazione che vuol dire: ”questi sono i confini, non puoi oltrepassarli, quelle idee non possono essere espresse ora, non puoi avere a che fare con quelle cose”. Perché, per chiunque continui a maneggiare quelle idee, non è chiaro se il suo dottorato sarà accettato, se il suo articolo verrà pubblicato, o se i suoi studenti riceveranno una borsa di studio. Nel mio caso, almeno, si trattava di cose molto piccole, ma cresceva la sensazione di non essere più benvoluti in quel posto.”

Dalla sua lontananza, continua: “Ho cominciato a vedere cose che non vedevo da là. In Israele, avevo molti dubbi sul BDS. Ci pensavo dal punto di vista della mia posizione nell’accademia e continuavo a cercare di camminare sul filo del rasoio: riconoscere la legittimità del movimento di boicottaggio senza accettare la sua formulazione radicale. Alla fine ho capito che quel che cercavo di fare era proteggere me stesso e il mio spazio nel mondo accademico.”

Ophir non era sempre stato in questo stato d’animo. Era cresciuto in una famiglia di revisionisti di destra prima di diventare un convinto membro del movimento giovanile socialista sionista Hanahanot Ha’olim. Nel 1987 era stato co-fondatore di 21st Year insieme a Hannan Hever, che divenne docente di letteratura ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme e ora vive negli Stati Uniti. Il loro era un movimento di protesta che incitava a rifiutare di prestare servizio nei territori e a boicottare i prodotti degli insediamenti.

“Hannan e io parlavamo del periodo in cui avevamo rifiutato il servizio militare come di un momento di autorealizzazione”, racconta, “Pensavamo che l’impegno personale verso lo stato di Israele si doveva esprimere nel rifiuto di prestare servizio nei territori. Io ero totalmente sionista. Mi ci è voluto più tempo per capire che cosa volesse dire essere Sionista. “

Ophir non nega che il paese in cui vive, gli Stati Uniti sia responsabile di tremendi torti. “In questo senso, gli Stati Uniti sono un posto terribile, e dall’elezione di Trump è diventato molto più orribile,” dice. “Ma quando ti opponi al regime negli Stati Uniti, non sei solo. Sei parte di una grande massa, attiva e creativa. Posso parlarne con gli studenti in totale libertà. Nei miei ultimi anni in Israele ho sentito che quando parlavo di politica all’università, mi guardavano come un UFO.”

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Il filosofo Adi Ophir

Ti senti anche meno solo nelle tue opinioni su Israele?

“Per la maggior parte dei miei colleghi Israele è una causa persa. E il più delle volte concordo. Un esule politico è uno la cui vita è rimasta nel posto che ha lasciato e la cui vita nel luogo nuovo è ancora plasmata da quel contesto. I non sento così. Provo un grande dolore insieme a un profondo senso d’inutilità. Di tanto in tanto faccio ancora qualcosa all’università, ma piccole cose. È il mio “compito di riserva”. Ma il centro dei miei interessi e della mia attenzione non è più là. Il mondo intero sta andando di male in peggio, forse verso la fine. Il progetto coloniale sionista è un piccolo puntino nel tutto.”

E continua: ”È stato un lungo processo di separazione. Mia madre è morta dopo molti anni di demenza. La separazione da lei è durata 15 anni. La separazione da Israele in qualche modo assomiglia a quella. Israele è qualcosa che sta diventando alieno e remoto. In gran parte ho sostituito il mio interesse per l’Israele politico con un crescente interesse per la storia e il pensiero ebraico. Mi sono trovato un piccolo rattoppo che ha sostituito la casa a Tel Aviv. Mi piace essere un Ebreo della Diaspora.”

C’è stato qualcuno che ha pensato che stavi abbandonando la nave?

“ Sì, molti, penso. Qualcuno l’ha detto esplicitamente. Penso che anche loro dovrebbero andarsene. Ma è facile a dirsi: non tutti possono avere un paracadute dorato per trasferirsi. Ovviamente c’è un elemento egoistico in quel che abbiamo fatto”.

C’è qualcosa che ti manca di Israele?

“Hummus?”, ride Ophir. “Scherzo. Mi mancano i miei figli e i miei nipoti. Molto. A volte mi manca Tel Aviv. A volte mi manca viaggiare nel paese, andare nel deserto d’inverno. Ma non c’è quasi nessun posto laggiù in cui potrei camminare oggi senza pensare che sto calpestando la terra di qualcun altro.”

Ariella Azoulay ha rifiutato di farsi intervistare, ma ha mandato un testo scritto: “Non mi fido della stampa e non voglio farmi rappresentare da essa; sostengo il boicottaggio e non mi interessa essere intervistata da un giornale sionista. Quello che avevo da dire sul fatto di essere nata per essere una “israeliana” –una forma di controllo dello stato sul corpo e sulla mente dei suoi sudditi e cittadini–, l’ho scritto nella introduzione del mio nuovo libro e non ho niente da aggiungere.”

“Inoltre, emigrare perché senti che è impossibile vivere dove sei nata, perché servi per tenere fuori quelli che sono stati espulsi, è doloroso e non ho nessun interesse a condividere quel dolore con un pubblico sionista che nega il dolore e la perdita che lo Stato di Israele ha inflitto e continua a infliggere, prima di tutto ai suoi abitanti palestinesi e, in un modo diverso, ai suoi cittadini ebrei.” (Il più recente libro di Azoulay è “Potential History: Unlearning Imperialism” (Storia potenziale: disimparare l’imperialismo” pubblicato lo scorso anno.)

Una volta basta

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Hagar Kotef. Michal Ruzanksy

Hagar Kotef, 43 anni, si è trovata in una situazione ancor più inquietante rispetto ad una università israeliana. La dottoressa Kotef, che è stata un’attivista di Machson Watch e di altri movimenti di sinistra, ha completato i suoi studi di filosofia alle università di Tel Aviv e di Berkely, California. Nel 2012 ha avuto l’opportunità di tornare in Israele grazie ad un programma di reinserimento di accademici di ritorno dall’estero. Le avevano offerto un posto di docente in un programma prestigioso in una università del paese.

La sera prima che il suo contratto fosse approvato, una ONG di destra ha lanciato una campagna contro la sua assunzione all’università. Come risultato, il rettore rifiutò di firmare il contratto e l’università avanzò nuove condizioni per l’assunzione, in particolare richiedendo che firmasse un impegno sulla sua attività politica: Kotef doveva impegnarsi a non partecipare a manifestazioni, non firmare petizioni e non parlare in pubblico –o in classe– di qualsiasi cosa che non fosse strettamente correlata alla ricerca accademica.

Era l’estate del 2014. Quando scoppiò l’operazione Protective Edge (Margine di Protezione) nella Striscia di Gaza, Kotef firmò una petizione su internet che chiedeva a Israele di negoziare con Hamas. Pochi minuti dopo, ricevette una telefonata dall’Università che la informava che il suo incarico era stato sospeso. La Kotef portò il caso al tribunale del lavoro e fu reintegrata. “Cominciai a lavorare, ma il mio contratto di lavoro non è mai arrivato”.

Kotef e il suo compagno, un medico e neuroscienziato, cominciarono a cercare lavoro in Inghilterra. “Era chiaro che rimanere qui [all’univesità] non era più possibile, e anche che non avrei più trovato un altro lavoro qui in Israele,” dice.

La Kotef in seguito ha trovato lavoro come docente di ruolo in scienze politiche alla SOAS di Londra (School of Oriental and African Studies, Scuola di studi orientali e africani). Dopo avere insegnato lì per un semestre, lei e la sua famiglia lasciarono Israele per sempre: “La combinazione di quello che era successo all’università, la guerra, la violenza nelle strade e la paura di parlare a voce alta, il razzismo e l’odio, mi hanno semplicemente spezzata.”

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Una protesta a Tel Aviv contro la guerra di Gaza. Lo striscione dice: “una manifestazione di speranza” e “Ebrei e Arabi rifiutano di essere nemici”. Tomer Appelbaum

Anche oggi, sei anni dopo, la Kotef è ancora scossa dai ricordi di quel periodo. “L’esilio è un concetto sovraccarico di senso: non mi definisco una esiliata politica, perché dopo tutto ce ne siamo andati per un buon lavoro in un bel posto. Ma, allo stesso tempo, non siamo partiti per scelta e non si è trattato di un ricollocamento.” Ammette sinceramente che non ha trovato un modo per continuare la sua attività politica a Londra.

“Non sono capace di fare l’attivista [su Israele o su altri temi] qui, aggiunge. “Pochi anni fa, il mio compagno mi sgridò perché ero andata a una manifestazione. “Siamo già stati espulsi una volta da un paese per causa tua, non vogliamo essere espulsi un’altra volta.”

Ti senti in colpa per essere partita?

Kotef: “No. Ho perso ogni speranza che sia possibile cambiare le cose dall’interno, così non penso che potrei fare qualcosa se fossi in Israele. Al massimo mi sento in colpa verso la mia famiglia, i miei genitori che sono lontani dalle loro nipoti e verso le mie figlie che ho portato in questo posto. A volte mi guardo intorno e dico che siamo fortunati a non essere in Israele e a volte c’è una sensazione di perdita. Londra è una città cosmopolita, ma c’è ancora odio verso le minoranze qui, una cosa che la Brexit ha mostrato con evidenza, e noi saremo sempre stranieri qui”.

“Ma preferisco vivere e far crescere i miei figli in un posto in cui l’essere stranieri a volte può generare antagonismo, piuttosto che in un posto in cui appartengo alla parte che è razzista verso l’altra. Ci sono momenti in cui mi chiedo che cosa ho fatto, ma non credo che sia stata davvero una nostra scelta.”

Un posto pericoloso

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Yael Lerer

“Non avevo il paracadute dorato di un lavoro nell’accademia come altri,” dice Yael Lerer, 53 anni, traduttrice e editrice che ha guidato i tentativi di avvicinare tra loro Israeliani e Palestinesi da un punto di vista civico e culturale. La Lerer, che si è trasferita a Parigi nel 2008, è stata un’attivista importante nella Equality Alliance, un movimento arabo-ebraico dal quale si è formato Balad (acronimo di National Democratic Alliance) e in seguito portavoce e assistente parlamentare del deputato Azmi Bishara e direttrice della prima campagna elettorale di Balad. Nel 2001 ha fondato le edizioni Andalus Publishing.

Anche se in seguito ha vissuto a Parigi per più di un decennio, dice che sente di non aver mai lasciato Israele. È solo che la mia vita quotidiana è diventata più piacevole. “I miei amici francesi si lamentano del razzismo nel loro paese, ma siamo su una scala totalmente differente rispetto a Israele.”

La persecuzione politica che ha sperimentato in Israele a volte le rende difficile anche trovare lavoro in Francia: per sbarcare il lunario, deve procurarsi entrate supplementari rispetto al suo lavoro come traduttrice ed editrice, lavorando per una agenzia immobiliare (“cosa che odio davvero”). “Ci sono progetti che mi interessano, ma non me li lasciano fare perché quando mi si cerca su Google la prima cosa che si trova è che sono una di quegli israeliani che hanno stretto alleanza con i terroristi”, dice, “Ci sono state istigazioni a uccidermi e sono stata calunniata. Mi hanno offerto un lavoro in televisione, ma qualcuno ha messo il veto perché non volevano avere guai con la comunità ebraica. Gli istituti di ricerca che mi avvicinavano si tiravano indietro all’ultimo momento per la stessa ragione. Così posso lavorare solo in cose che non mi costringono ad espormi (cioè a esporre chi sono)”.

Nel 2013, la Lerer è tornata in Israele per un periodo ed è stata candidata alla Knesset per Balad, come dodicesima (una collocazione irrealistica) della lista. Durante una discussione prima delle elezioni al Netanya Academic College, è stata oggetto di un violento attacco da parte di militanti di destra. Gli altri partecipanti al panel non l’hanno difesa, dice.

“È stato quasi un linciaggio”, ricorda, “È una fortuna che ci fossero le guardie della sicurezza. Avevo sempre pensato che, se anche ricevevo messaggi di odio e minacce, sarebbe stato sempre solo sul web, ma che nella vita reale nessuno mi avrebbe mai fatto del male. Improvvisamente ho capito che non potevo più contare su questa sicurezza. Ho capito che Israele era diventato un posto pericoloso per me.”

Il momento migliore per emigrare

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Saar Székely e Rozeen Bisharat

Rozeen Bisharat e Saar Székely, che sono compagni nella vita, hanno perso ogni speranza in Israele a un’età inferiore a quella degli altri intervistati. Ma anche così hanno sentito di dover partire in fretta. “Il momento migliore per emigrare è nei tuoi primi vent’anni”, dice Székely. “Ma io avevo già 33 anni e Rozeen 32 quando abbiamo avuto la sensazione che entro un altro poco, sarebbe stato troppo tardi.”

Székely, che è ebreo e Bisharat che è palestinese erano tra i proprietari del bar Anna Louou a Jaffa, ed erano, in modi diversi, attivisti politici. Bisharat era nell’orgnizzazione studentesca Hadash e durante le proteste per la giustizia sociale nell’estate del 2011, eresse la “Tent 48” sul Rothshild Boulvard di Tel Aviv, nel tentativo di promuovere consapevolezza della Nakba. Székely era un attivista impegnato in spettacoli artistici di tipo politico. Hanno lasciato Israele due anni e mezzo fa.

Quel che li ha spinti a partire, dicono, è stato chiedersi se fosse possibile produrre un cambiamento. “Quando cerchi di esercitare una influenza o di cambiare l’opinione pubblica, tutto dipende dal fatto che tu creda o no che sia ancora possibile cambiare le cose,” dice Székely. “È una questione di ottimismo, e questo è ciò che abbiamo perduto nel periodo precedente a quello in cui viviamo”.

La speranza è svanita per Bisharat dopo la fine del movimento di protesta ed è stata gravemente logorata con la guerra di Gaza del 2014.

“Per anni pensavo che fosse possibile produrre un cambiamento nella società israeliana e offrire alla gente informazioni da cui erano stati esclusi,” dice. ”Ma avere opinioni diverse cominciò ad essere considerato un tradimento. Automaticamente, se non sei d’accordo con quello che dice lo stato, sei un traditore. E a me, come palestinese, si diceva: ”Non ti piace? Vai a Gaza.” Non c’è nessuno con cui intavolare una discussione. Neppure a Tel Aviv. Parte della mia vita era un tentativo di liberarmi del mio ruolo di ‘Palestinese che vive a Tel Aviv’. A Berlino sono una che viene dal Medio Oriente, oppure che fa parte del mondo arabo. Non sono una stranezza come ero a Tel Aviv, ma una di centinaia di migliaia di altri stranieri. Berlino mi dà accesso al mondo arabo, posso incontrare Siriani, Egiziani e Libanesi e posso essere medio orientale. Tel Aviv oggi è molto più bianca ed europea di Berlino. Il mio vero esilio culturale era in Israele”.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium.MAGAZINE-losing-hope-for-change-top-left-wing-activists-and-scholars-leave-israel-behind-1.8864499

Traduzione di Gabriella Rossetti – AssopacePalestina

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