Memorie di Palestina

Mag 15, 2020 | Riflessioni

Oggi è il 15 maggio, anniversario dei 72 anni di Nakba, il disastro che ancora oggi continua per il popolo palestinese. Vi offriamo la testimonianza di Hasan Ammami, profugo da Jaffa.

Racconti dai Palestinesi nella Diaspora

Hasan Hammami

Toronto, 16 settembre 2015

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Nessun impero, nessun regime può sopravvivere reprimendo un altro popolo. La storia ce lo ha mostrato. Ciò che si vede all’orizzonte è ispirato da ciò che sta alle radici della Palestina: è stato e sarà un luogo dove popoli di tutte le religioni vivono insieme da uguali

Sono Hasan Hammami, 82 anni, di Jaffa, un sopravvissuto della Nakba. A quei tempi Jaffa era una città ricca sulla via delle spezie. Sì, vivevamo in una grande casa che ora è usata come casa di riposo per anziani. La scuola che ho frequentato era una scuola maschile dei fratelli Cristiani Francesi dove studiavamo in arabo, inglese e francese. Tutti a scuola erano palestinesi, anche se da diversi contesti religiosi: cristiani, musulmani o ebrei. Non era una cosa eccezionale a quei tempi: secoli di occupazione da parte dei crociati, dei turchi ottomani e degli inglesi avevano prodotto una lunga tradizione di convivenza religiosa in Palestina. Questa è la storia della Palestina; io l’ho vissuta in prima persona.

Le mie memorie di Palestina riflettono la mia speranza per il futuro: un unico stato politico, con uno spazio per la religione di ciascuno. Fatemi condividere la mia prima esperienza personale del conflitto israelo-palestinese: per me la cosa è cominciata con la storia di Mohammed Mohrabi. Era uno studente della mia scuola, di due anni più grande di me. Ci conoscevamo dal corso di pronto soccorso che si faceva dopo scuola con i ragazzi di altre scuole. Una sera, nel quartiere nord di Jaffa, Mohammed riconobbe Gabriel Samuel, un Ebreo francese della sua classe, che stava partecipando ad un attacco terroristico. Quando si alzò per salutare Samuel gli spararono in testa e morì. Nessuno sa se è stato Samuel a sparare a Mohammed, ma comunque la mia vita a scuola cambiò da quel momento. Era il mio primo scontro con il conflitto israelo-palestinese. In quegli anni la vita in Palestina fu segnata dalla paura e dall’insicurezza. C’erano massacri in tutto il paese e facemmo quello che la grande maggioranza dei Palestinesi fece in quel periodo: sentendoci completamente indifesi, siamo fuggiti dal nostro paese nativo, lasciandoci dietro tutto. Ricordo come siamo andati fino al porto di Jaffa e siamo stati messi in fila per salire su una nave mercantile. C’erano 3000 persone su quella nave; eravamo stipati come sardine. Durante il viaggio una donna partorì. Un gruppo di uomini si misero in cerchio attorno a lei per lasciarle un po’ di privacy. Il bambino non sopravvisse. Dopo una breve preghiera, fu avvolto in un panno e gettato a mare. Avevo quindici anni e da allora ho portato con me queste immagini per sempre.

Mio padre, Ahmad Hammami, era nel business degli agrumi a Jaffa. Eravamo una

famiglia di classe medio alta. Ma, dopo la Nakba del 1948, abbiamo perso tutto e i miei genitori hanno dovuto ricominciare daccapo. Vivere nella diaspora significa non avere casa. Tra il 1948 e il 1993, mi sono spostato tra 23 diversi paesi in cerca di una educazione e di un sostentamento: ho finito la scuola secondaria in Libano, ho cominciato gli studi di ingegneria all’Università americana di Beirut e sono andato a lavorare come interprete per una compagnia petrolifera in Arabia Saudita per aiutare la mia famiglia. Questo voleva dire vivere in un campo lavoro nel deserto con temperature di 45 gradi e tempeste di sabbia che ti lasciavano a masticarla la sabbia. Ho ottenuto la nazionalità saudita. Questo mi ha cambiato la vita perché non ero più un rifugiato senza stato con scarse possibilità di viaggiare. Nel frattempo, mio padre cercava nuove opportunità in diversi paesi arabi. Alla fine, iniziò un lavoro di costruttore a contratto in Iraq. Mi incoraggiò a portare a termine la mia educazione e ho ottenuto l’ammissione per diverse buone università negli Stati Uniti e in Inghilterra. L’Inghilterra mi ha offerto un visto per studenti, così sono andato a Nottingham dove ho incontrato mia moglie e ho terminato gli studi di ingegneria. Siamo tornati in Arabia Saudita dove ho cominciato una carriera internazionale nel settore del petrolio. Con tre figlie e nessuna buona scuola femminile in Arabia Saudita, stabilirsi là non sembrava un’opzione attraente: le opportunità di studio per loro erano troppo limitate a quel tempo.

Oggi, la mia figlia maggiore, Fawzia, vive in Francia; è stata eletta in un consiglio di villaggio nel Périgord. La figlia di mezzo, Rema, insegna all’Università di Birzeit, vicino a Ramallah nella Palestina occupata. La figlia più piccola, Haifa, si è da poco trasferita da Londra a Austin, nel Texas. È architetto d’interni e urbanista. Da quegli anni e dopo diversi altri paesi, dopo la nostra seconda permanenza negli Stati Uniti, ho ottenuto la cittadinanza qui, dove vivo ora. Sono andato in pensione nel 1993.

Questa diaspora non è solo una mia esperienza. Oggi, noi, i nove fratelli e sorelle Hammami e i loro figli viviamo in ventidue diverse città, in sette paesi diversi su tre continenti.

Ritorno a Jaffa.

Ci sono tanti ricordi di Palestina da condividere, ma la prima volta che sono tornato a Jaffa, la mia città natale, è stata un’ esperienza speciale, emotivamente forte e straziante. Al nostro arrivo all’aeroporto Ben Gurion, pochi mesi dopo la firma degli accordi di Oslo, abbiamo ricevuto il “benvenuto” di un controllo di sicurezza e un interrogatorio umiliante e volgare, la routine standard per i Palestinesi che tornano nella loro patria di un tempo. All’aeroporto Ben Gurion abbiamo visto come la polizia di frontiera umiliava il dottor Haidar Abdel Shafi e sua moglie, lui capo della delegazione palestinese ai negoziati di Oslo. Avevano attorno ai 65 anni, una coppia molto rispettabile, per anni impegnati entrambi a Gaza nel servizio medico e nel sostegno alla società civile. La polizia israeliana prese le loro valige e le rovesciò per terra; calpestando la loro roba con i piedi e con i fucili: trattarono Abdel Shafis come immondizia. I militari israeliani sapevano esattamente chi erano. Hanno voluto dimostrare di poter umiliare Abdel Shafi di fronte a sua moglie. Io sono riuscito a stento a controllare la mia rabbia, ma per la mia povera moglie è stato più difficile. Alla fine, quando avevamo tutti passato il controllo, Abdel ci ha detto che veniva trattato così ogni volta che passava da un controllo di sicurezza israeliano. Faceva parte del gioco, Israele aveva bisogno di dimostrare chi sta sopra. Che benvenuto a casa!

Ritornare a Jaffa è stata un’esperienza importante. Alcuni edifici, che erano punti di riferimento, erano ancora in piedi, ma per il resto quasi tutto era cambiato, le case rase al suolo o abbandonate e lasciate a sgretolarsi senza le risorse o il permesso di ripararle o di fare manutenzione. Qua e là c’erano alcuni edifici moderni. Le rovine del caravan serraglio erano ancora lì. Un edificio storico nel centro di Jaffa costruito durante l’impero ottomano. Nel 1948, fu usato come orfanotrofio. Più o meno una settimana prima della nostra partenza per l’esilio, fu fatto saltare per aria da una bomba messa dall’Irgun Tzvai Leumi, un gruppo terrorista israeliano che è poi diventato il partito del Likud. Quell’attacco terroristico che uccise più di 100 bambini orfani nel centro di Jaffa, produsse il panico in città, tutti si sono sentiti indifesi. La nostra famiglia fuggì dalla Palestina dopo pochi giorni. L’immagine delle rovine era rimasta nella mia memoria; era l’ultima immagine di Jaffa che mi ricordavo poco prima di raggiungere il porto con migliaia di altri Jaffiti in fuga dalla morte per le esplosioni delle bombe israeliane. È stato uno shock tornare nel 1993 e trovarmi ancora di fronte a quelle rovine.

La nostra casa era ancora lì; era stata trasformata in una casa di riposo piena di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est. A prima vista, la casa sembrava la stessa. I nostri occhi sono l’ingresso al cervello. Guardiamo con gli occhi e vediamo con la nostra memoria. La visita alla casa è stata straziante; non solo per il confronto con tante memorie dell’infanzia perduta, ma anche per le condizioni della gente che ci viveva, vecchi, stranieri, sporchi, i più con un inizio di Alzheimer o di demenza senile. Non era la casa che avevamo lasciato, piena di voci di bambini, di giochi, con un giardino pieno di bei fiori e di alberi da frutto, un’atmosfera sempre vivace. I nuovi occupanti erano i guardiani di un business commerciale che non si prendeva cura degli ospiti. Il posto era trascurato, sporco e deprimente. Eppure riuscivo a vedere al di là della scena presente, il possibile futuro di una casa riportata alla vita e alla gioia dei suoi occupanti originari, gli Hammami, e dei nostri figli o nipoti.

Abbiamo anche visitato la casa di mio zio Adel Hammami. Il suo terzo figlio, Said Hammami è stato un rappresentante dell’OLP a Londra dove fu assassinato nel 1978. È stato assassinato dal Mossad, nel quadro della carneficina di leader, rappresentanti e poeti palestinesi in tutta l’Europa. Il Mossad cercò di addossare l’uccisione di Said ad un altro gruppo ribelle palestinese, ma nessuno nella nostra famiglia ci crede. Said è stato ucciso perché credeva che si potesse raggiungere la pace solo negoziando con Israele alla pari. È pericoloso difendere l’idea di una coesistenza pacifica in Israele. Pochi anni dopo, il primo ministro israeliano Rabin è stato assassinato da uno studente universitario israeliano che credeva nella Grande Israele, senza Palestinesi.

Pulizia etnica

Durante lo stesso viaggio, volevo visitare il cimitero dove erano sepolti i miei nonni. Era vicino alla nostra casa. Nonostante il cimitero non fosse stato tenuto bene, sono riuscito a trovare la loro tomba. Uscendo ho riconosciuto la casa di altri vicini, la famiglia Andraos. Ho deciso di suonare il campanello e, come per magia, mi sono trovato riunito con tre donne che conoscevo da ragazzine durante la mia infanzia: Suad, Wedad e Leila Andraos.

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Non ho parole per descrivere i miei sentimenti; era come ritrovare una parte di me stesso, proprio nel nostro quartiere. La loro storia era straziante. Adesso erano più o meno cinquantenni e ho chiesto se potevo conoscere i loro mariti. Mi dissero che non si erano mai sposate, non era rimasto più nessuno da sposare dopo la Nakba. È nella natura umana ed è una cosa normale vivere in una famiglia, ma per queste sorelle non c’era rimasto più nessuno per realizzare questo progetto. In una città di 125.000 persone ne rimasero solo 300. Quel che è successo a Jaffa è stata una pulizia etnica: non c’è altro modo per spiegarla.

Abbiamo molti amici in tutta la Palestina. La famiglia Abul Afieh ha aperto un ristorante vicino al porto di Jaffa, che attirava molti turisti. Ci sono voluti 11 anni per ottenere un permesso dal comune per affiggere una insegna in arabo con il nome della loro famiglia. Perché devono volerci 11 anni per mettere una insegna in arabo su un ristorante? La pulizia etnica si manifesta in molti modi, anche cancellando tutti i segni della cultura originaria, le insegne stradali e i nomi. I cittadini non ebrei di Israele non sono chiamati palestinesi ma arabi israeliani (Aravim) una parola usata con scherno; questo è un altro modo per cancellare il nome, la storia, la memoria della Palestina.

Da quando sono andato in pensione nel 1993, mi sono occupato di educazione e di filantropia facendo un lavoro inter-religioso. Mi sono dedicato all’educazione di giovani e vecchi per far conoscere loro le ingiustizie subite dai Palestinesi e dalla Palestina. Sto difendendo una soluzione che instauri una coesistenza pacifica tra uguali.

Diaspora

Oggi ci sono più Palestinesi che vivono fuori dai confini storici della Palestina di quelli che ci vivono dentro. Grazie ai social media e ad altre tecnologie, noi Palestinesi siamo ora più connessi che mai. Viviamo in tutto il mondo. Qualcuno in condizioni di disperata povertà, altri che si sono costruiti una vita agiata. Nonostante queste differenze e distanze, lo spirito di comunità e di identità palestinese è più forte che mai. Se potessi ritornare a Jaffa, la mia patria, e vivere lì in una coesistenza pacifica e da uguali con i miei vicini di un tempo, ebrei, cristiani e musulmani, lo farei. Senza esitazione. Credo che la maggior parte dei palestinesi della diaspora senta la stessa cosa. È questa la strada da percorrere.

Non c’è mai stato un impero o un regime che potesse sopravvivere opprimendo un altro popolo. La storia lo ha dimostrato. All’orizzonte del futuro c’è quello che stava alle radici della Palestina: è stato e sarà un luogo in cui genti di tutte le religioni vivono insieme nello stesso paese da uguali. Sogno e credo che il futuro sia un unico stato con tutta la sua gente, senza privilegi, senza diritti speciali, con giustizia e uguaglianza e una separazione completa tra lo Stato e la Chiesa, il Tempio e la Moschea, in cui i cittadini sono liberi di credere nel loro creatore, di rispettare i loro vicini e rispettarsi l’un l’altro. Dal momento che questo è successo nelle mie memorie della Palestina, non c’è motivo perché non possa accadere ancora.

Il mio amico Omar Siksek è un Palestinese di Jaffa. È stato eletto membro del consiglio comunale dell’area urbana Tel Aviv-Jaffa alcuni anni fa. Con solo 30.000 Palestinesi, nell’area urbana di Tel Aviv-Jaffa che è una metropoli di 600.000 abitanti, non aveva nessuna possibilità di essere eletto. È stato eletto con il sostegno di Ebrei e Israeliani palestinesi che condividevano le stesse idee, che ritenevano fosse importante avere un rappresentante palestinese nel consiglio comunale. Da quando Omar Siksek è stato eletto per la prima volta, c’è sempre stato un rappresentante palestinese nel consiglio comunale Tel Aviv-Jaffa.

Questa è l’ultima memoria della Palestina che condividerò con voi oggi, una memoria che ispira e dimostra il desiderio umano di vivere insieme.

Non è stato facile, i “Palestinesi del 1948” non sono in nessun modo vicini a godere di uguali diritti o, peraltro, neppure uguali opportunità. Non possono ottenere permessi di costruzione per aggiustare le loro case o aggiungere un piano, non hanno uguali diritti di matrimonio, di proprietà o su molte altre cose. Ma confido che continueranno con il loro spirito di sopravvivenza e di realizzazione anche se hanno le mani legate dietro la schiena.

Per chiudere, naturalmente, ci sono troppe memorie da condividere.

Se potete, ricordate una cosa: sono uno che ha sempre speranza. La violenza sembra essere il linguaggio di questo nuovo secolo, ma la gente capirà che uccidere non porta a unirsi, non risolve nulla. La Palestina è stata la macchia sulla coscienza del mondo per quasi settant’anni. Può anche essere la salvezza della coscienza del mondo. Sto aspettando con ansia quel giorno.

Traduzione di Gabriella Rossetti – Assopace Palestina

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