Ebraico, arabo e apartheid

Mag 5, 2020 | Riflessioni

di Jonathan Ofir

Mondoweiss, 30 aprile 2020

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Moshe Dayan, ministro della Difesa, e Yitzhak Rabin, Capo di Stato Maggiore (rispettivamente a sx e dx al centro della foto) entrano a Gerusalemme il 7 giugno 1967.

La creazione della moderna lingua ebraica verso la fine del XIX secolo ha cercato di far risorgere una antica lingua, che a malapena veniva parlata in modo colloquiale tra gli Ebrei, per trasformarla nella nuova ‘lingua nazionale’ unificante della ‘nazione ebraica’.

Sforzo costruito sui romantici e messianici concetti del ‘ritorno’ alla ‘terra promessa’, dove il parlare ebraico sarebbe servito quale simbolico ponte con tempi immemori. Sforzo ben lontano dalla scienza esatta; se l’intento fosse realmente stato il ritorno ai tempi di uno stato giudaico pre-70 d.C., la lingua corretta da resuscitare sarebbe stata l’aramaico.

Non di meno il moderno ebraico serviva da simbolico ponte per la Bibbia e si diceva che gli Ebrei fossero il ‘popolo del libro’.

Non faccio alcun omaggio emotivo a questa mitologia. Sono interessato alla funzione che questo stratagemma linguistico ha giocato, e ancora gioca, nella situazione di apartheid in Israele, uno stato di cose che ha interamente a che fare con la natura colonialista dell’avventura sionista e con il suo capolavoro, lo stato di Israele. 

In questo contesto linguistico, metto qui a confronto Israele con il Sudafrica perché c’è una straordinaria somiglianza. Il ‘ritorno’ all’ebraico serve ad accentuare un senso di ‘natività’. È una tipica inversione colonialista, dove i veri nativi che hanno vissuto sul posto da tempo immemorabile sono ridotti ad ‘altri’ senza appartenenza, mentre i colonizzatori nuovi arrivati si sostituiscono a loro come veri ‘nativi’.

In Sudafrica la lingua dei colonizzatori, derivata dall’olandese, era ed è l’afrikaans. L’allusione nel nome ‘afrikaans’ è ovvia: i colonizzatori europei sono i nativi e gli altri non sono che selvaggi che devono fare spazio agli illuminati e servirli. I particolari della mitologia non sono molto importanti. C’è sempre una storia mitica: ad esempio, una Bibbia che cade dal cielo sui coloni assediati nel XVII secolo, o cose simili. Ciò che è veramente importante è come la mitologia viene sfruttata.

Benché il termine apartheid derivi dal modello sudafricano, è oramai il nome di un crimine internazionale contro l’umanità a sé stante, e non si riferisce necessariamente alle note pratiche sudafricane. È definito dallo Statuto di Roma del 2002 della Corte Penale Internazionale come “atti disumani [di carattere simile ad altri crimini contro l’umanità] commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di sistematica oppressione e dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intento di mantenere quel regime”.

L’afrikaans è servito quale simbolo centrale della supremazia bianca nel Sudafrica dell’apartheid.

I coloni bianchi sudafricani erano solo il 10% della popolazione, ma la loro lingua di radice europea doveva distinguerli come classe dominante. Per meno del 14% dei Sudafricani l’afrikaans è la lingua madre. La maggioranza di loro parla zulu (circa il 23%), mentre altre 11 lingue sono parlate nel Paese. Ma l’afrikaans fu presentato come la lingua dei ‘veri’ sudafricani, quelli che possedevano i pieni diritti di cittadinanza, e quindi doveva essere la ‘vera’ lingua nazionale. 

In Israele, il termine ‘ebraico’ ha molteplici connotazioni. In tempi biblici, come quelli della storia di Israele in Egitto, i ‘figli di Israele’ sono anche definiti come Ebrei. Quindi la nozione linguistica di ‘ebraico’ serve anche a un’idea nazionalistica se estrapolata dagli antichi tempi tribali e applicata a un moderno paradigma nazionale.

Effettivamente il termine ‘ebraico’ fu regolarmente usato dai sionisti nei giorni pre-stato per  connotare gli sforzi nazionalisti. Il motto apparentemente socialista dei sionisti nel loro tentativo di dominare e pulire etnicamente il mercato del lavoro fu “lavoro ebraico” (“avoda ivrit”), non “lavoro giudaico”. Fu subito inteso che ebraico volesse di fatto dire giudaico, e che lo significasse in senso razziale. L’uso di “ebraico” anziché “ebreo” servì anche ad allontanare i sionisti dal “vecchio ebreo” della diaspora, e a riconnettersi alle “radici” attraverso la lavorazione della terra e così via.

In tutto questo c’è una miriade di contraddizioni, tra messianismo e laicità, tra vecchio e nuovo, una contraddizione che prevale in tutta la storia del Sionismo sino a oggi. Non si deve essere sorpresi di fronte a questa contraddizione: fa parte dei meccanismi del colonialismo di insediamento e dei suoi miti, dove la ragionevolezza è un argomento accademico. La ragione va bene quando serve allo scopo colonialista, e quando è assente la sua assenza è perdonata, tutto al servizio dello scopo colonialista. Come ha asserito lo storico israeliano Ilan Pappé, i sionisti non credono in Dio, ma credono che Dio abbia promesso loro la terra. Questa è ovviamente una generalizzazione, poiché molti sionisti credono in Dio, ma descrive la capacità sionista di gestire e contenere questa contraddizione e di applicare l’una o l’altra credenza a seconda di come si addice all’occasione.

Quel che è inoltre interessante è che in ebraico la parola per arabo e quella per ebraico (intese come lingue) sono pressoché identiche, rispettivamente ‘aravit’ e ‘ivrit’. Nella lingua ebraica le due parole hanno le stesse lettere, anche se le prime due sono invertite.

Nell’applicazione dei termini come termini nazionali, cioè ‘ebraico’ e ‘arabo’, accade sostanzialmente la stessa cosa, ‘ivri’ e ‘aravi’. Questo mostra ancora una volta la paradossale affinità, i due termini sono pressoché intercambiabili.

Certo, storicamente vi è un’affinità linguistica tra l’arabo e l’ebraico, un’affinità che è oggi nota come ‘semitica’. Eppure lo scopo dei coloni sionisti fu totalmente antitetico alla ‘affinità’. Come impresa colonialista di insediamento, essi seguirono essenzialmente la logica che Patrick Wolfe chiamava “eliminazione dei nativi”. Non erano venuti per interagire semplicemente con gli Arabi locali e giocare ‘alla condivisione della lingua semitica’. Arrivarono per rimpiazzare i Palestinesi e rendere i sionisti ‘ebraici’ i ‘nuovi nativi’ che ritornavano dall’antico passato.

Il modello sionista fu progettato per separare l’Ebreo dall’Arabo, anche quando l’ebreo era arabo, come nel caso dei molti ebrei arabi del Medio Oriente che vennero chiamati ‘Mizrahim’, che letteralmente significa ‘Orientali’. Israele applica una definizione ‘nazionale’ dei due termini, ebreo e arabo, che non possono sovrapporsi.

Questa logica dell’eliminazione si manifesta anche nel rinominare, ‘ebraizzazione’, la distruzione dei villaggi palestinesi, come disse Moshe Dayan nel 1969:

“Villaggi ebraici sono stati edificati al posto di quelli arabi. Voi non conoscete nemmeno i nomi di questi villaggi arabi, e non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più; non solo non esistono i libri ma non ci sono nemmeno i villaggi arabi. Nahlal è sorto al posto di Mahlul; Kibbutz Gvat al posto di Jibta; Kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushu’a al posto di Tal al-Shuman. Non c’è un solo luogo costruito in questo Paese che non abbia avuto in precedenza  una popolazione araba”.

L’idea della falsa ‘affinità’ può essere vista anche nell’esempio dell’afrikaans. Quei coloni non erano lì per condividere la natività africana, erano lì per dominare e sfruttare i nativi.

Questo ci porta nel territorio dell’appropriazione culturale, che è un ben noto e insidioso aspetto del colonialismo. Falafel, pita e hummus diventano ‘cibo israeliano’. Alcune parole sono scherzosamente prese in prestito dall’arabo, come ‘yalla’, e così i coloni pensano di essersi integrati. Il termine “poel aravi” – “lavoratore arabo” – è standard per quei Palestinesi che lavorano nell’edilizia e l’Arabo palestinese è ridotto, nella migliore delle ipotesi, a cittadino di seconda classe.

I cittadini palestinesi di Israele hanno avuto buone ragioni per imparare a parlare l’ebraico, poiché vivono in una società dominata da ebrei parlanti ebraico. Di fatto il 60% di loro parla ebraico. Dall’altra parte, solo il 17% degli Ebrei israeliani parla arabo. Mentre ai Palestinesi serve parlare ebraico per cavarsela in una società dominata dall’ebraico, la necessità di parlare arabo per gli ebrei di lingua ebraica serve spesso al controllo: essere in grado di capire quello che il ‘nemico’ sta facendo, di infiltrarsi e spiarlo.

Meno di due anni fa, in Israele è stata approvata la legge quasi-costituzionale dello ‘Stato Nazione’ che riduce l’arabo da lingua ufficiale a un nebuloso “stato speciale”. Questa è stata un’altra pietra miliare nel progetto sionista di eliminazione, che dimostra ancora una volta come la lingua sia usata come mezzo di identità e dominio.

In alcuni ebrei non-sionisti o antisionisti sembra esserci una speranza che, in futuro, si realizzi una soluzione bi-nazionale di un unico Stato, in cui essi percepiscono una nazione come arabo-palestinese e l’altra come ‘ebraica’, in cui questo termine è scollegato dalla nozione religiosa di ‘ebreo’. Mentre questa idea implica che i parlanti ebraico oggi abbiano un attaccamento al luogo non a causa dei tempi mitologici ma a causa della storia recente, c’è in questo un aspetto problematico. La visione ignora il fatto che l’ebraico è stato applicato come elemento centrale di colonizzazione e di identità coloniale.

Non importa che la componente religiosa del progetto colonialista sia stata ridotta quando viene definito come “ebraico” e non “giudaico”. L’idea mitica e l’attaccamento romantico sono fondamentalmente gli stessi.

Credo che l’idea di una ‘nazione giudaica’ (o una ‘nazione ebraica’, se si preferisce) sia il mito centrale del progetto sionista, e deve essere smantellato per incamminarsi su un moderno e liberale paradigma di nazione nella Palestina storica.

La Palestina deve essere decolonizzata. Parte di questa decolonizzazione deve coinvolgere la lingua. Come questo possa esattamente accadere non lo so. In Sudafrica l’inglese è la lingua usata nei discorsi ufficiali. Questo nonostante il fatto che meno del 10% l’abbia come propria lingua madre.

Israele è oggi dove era il Sudafrica: in attivo apartheid.

Parlo ebraico con i miei amici e familiari israeliani di lingua ebraica. Ma nella mia vita quotidiana mi esprimo prevalentemente in inglese. Probabilmente ogni lingua è collegata ad aspetti storici non felici o assolutamente orribili, anche l’inglese. Quindi cerco di non avere un’idea romantica delle lingue. Non credo che debbano essere condannate a causa della storia politica. Per esempio, so che ci sono Ebrei israeliani che sono disgustati dal tedesco, a causa dell’Olocausto. Cerco di distaccarmi attivamente da tale atteggiamento, perché credo sia settario, e non ho ostilità nei confronti dei Tedeschi di oggi a causa dell’Olocausto.

Mentre l’apartheid colonialista israeliano deve essere distinto dal nazionalismo genocida nazista della Germania, l’apartheid di Israele è comunque una realtà vivente, non appartiene al passato. Quando la lingua è attivamente sfruttata come mezzo di dominazione, è giusto che le persone ne abbiano una lucida consapevolezza. Ciò non significa che io eviti quella lingua, ma sono profondamente consapevole dell’aspetto insidioso e non di certo romantico al riguardo –al contrario, la adopero a volte per ragioni pragmatiche.

Alla fine, non importa in quale lingua si dica apartheid. Se cammina, parla e ha un aspetto simile, è quello che è. Io cerco di scriverne, in inglese.  

Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui tutto questo finirà, qualunque siano le parole e la lingua che devo usare per far sì che ciò avvenga.  

Jonathan Ofir, musicista israeliano, conduttore, scrittore e blogger, vive in Danimarca.

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina.

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