Una Gaza messa in gabbia da Israele è la ricetta per il disastro coronavirus

Mar 27, 2020 | Riflessioni

L’arrivo della pandemia minaccia di rendere Gaza ancora più invivibile sotto l’assedio israeliano. Gli aiuti umanitari non sono sufficienti – i Palestinesi hanno bisogno della libertà.

di Jehad Abusalim 22 marzo 2020

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Operatori sanitari palestinesi spruzzano disinfettante come precauzione contro il nuovo coronavirus nella Moschea Al-Omari a Gaza City, 15 marzo 2020. (Ail Ahmed/Flash90)

Il Ministero della Sanità palestinese oggi ha riferito dei primi due casi di coronavirus nella Striscia di Gaza. Per settimane le autorità guidate da Hamas, che governa il territorio in stato di embargo dal 2007, hanno intrapreso serie misure per prevenire l’arrivo del virus nella Striscia. Fino alla decisione di chiudere gli accessi dal valico di Rafah con l’Egitto e dal checkpoint di Erez con Israele, centinaia di Palestinesi entrati nella Striscia sono stati immediatamente messi in quarantena per assicurarsi che non avessero sintomi della malattia.

Queste azioni, tuttavia, sono di scarso conforto.

Non è un’esagerazione dire che la prospettiva di una diffusione di COVID-19 nella Striscia di Gaza è terrificante. Quest’anno, il 2020, è l’anno in cui le Nazione Unite e altre agenzie internazionali prevedevano che Gaza sarebbe diventata “inabitabile”. Avvertivano che se l’embargo e l’isolamento imposti da 13 anni da Israele nella Striscia fossero continuati i più elementari servizi di Gaza e la sua capacità di sostenersi da sola sarebbero collassati.

Mentre lo spettro del coronavirus perseguita i 2 milioni di Palestinesi residenti nella Striscia, metà dei quali bambini, il mondo deve affrontare una verità pressante: Gaza, che nelle sue condizioni attuali è da tempo invivibile, lo sarà ancora di più ora che il virus ha raggiunto la sua popolazione.

Per anni, le ONG internazionali, e persino alcuni funzionari israeliani, hanno avvisato che il sistema sanitario di Gaza è sull’orlo del collasso, paralizzato da decenni di sistematico sottosviluppo, impoverimento e assedio. Tutti i problemi del blocco israeliano si sono aggrovigliati e amplificati nel settore della sanità di Gaza: una grave crisi idrica, un’estrema carenza di energia elettrica, un alto tasso di disoccupazione e infrastrutture fatiscenti.

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Lavoratori palestinesi indossano maschere protettive mentre preparano la zona di quarantena per i test per il coronavirus ai viaggiatori che rientrano dal valico di frontiera di Rafah nella Striscia di Gaza, 16 febbraio 2020. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

Così stando le cose, il sistema sanitario a Gaza non è equipaggiato per un’epidemia di COVID-19. Il numero totale di posti letto è di 2.895, ovvero 1,3 letti ogni mille persone. Ci sono appena 50/60 ventilatori polmonari adatti agli adulti. Secondo il capo della sede periferica dell’OMS a Gaza, Abdelnasser Soboh, Gaza è preparata a gestire solo i primi cento casi di virus; “Dopo di che necessiterà di ulteriore supporto.”

Il sistema sanitario è ulteriormente aggravato dall’emigrazione di molti operatori sanitari palestinesi a causa della crisi economica di Gaza. Solo dal 2018 più di 35.000 Palestinesi hanno lasciato la Striscia, tra questi dozzine di medici e infermieri. Un funzionario del Ministero della Sanità ha dichiarato che servirebbero almeno dai 300 ai 400 medici solo per colmare questo vuoto e soddisfare i bisogni minimi della popolazione.

Un altro aspetto della vita a Gaza potrebbe alimentare una diffusione massiccia del virus: la densità della popolazione. Secondo gli scienziati, “le condizioni di affollamento possono aumentare la probabilità che le persone trasmettano malattie infettive” – e con una media di 6.028 persone per kmq, Gaza ha una delle densità di popolazione più alte al mondo. Il suo sovraffollamento è superato solo da pochi luoghi, come Hong Kong; ma mentre le persone possono muoversi liberamente dentro e fuori Hong Kong, la maggior parte dei Palestinesi di Gaza è ingabbiata lì contro la propria volontà.

Gli otto campi profughi di Gaza hanno una densità abitativa ancora più alta della media territoriale. Prendiamo Jabalia, dove più di 140.000 rifugiati palestinesi vivono in un’area di 1,4 kmq, ovvero circa 82.000 persone per kmq. Il campo ha accesso a tre soli ambulatori medici e a un ospedale pubblico. Nella terra appena al di là della recinzione, all’interno dell’attuale Israele, da dove proviene la maggior parte dei rifugiati palestinesi, la densità media va da zero a 500 persone per kmq.  

Alla luce della pandemia, queste condizioni a Gaza sono la ricetta per il disastro. Eppure non sono il risultato di qualche sfortunato incidente; sono il deliberato prodotto di decenni di politica israeliana, consapevolmente progettata e mantenuta per ottenere la disintegrazione di Gaza.

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Veduta delle case e degli edifici palestinesi a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, 9 febbraio 2020. (Abed Rahim Khatib/Flash90)

La maggior parte dei 2 milioni di Palestinesi che oggi vivono nella minuscola Striscia sono discendenti dei 200.000 rifugiati fuggiti o espulsi durante la guerra del 1948 che ha creato lo Stato di Israele, unitisi ai circa 80.000-100.000 Palestinesi che all’epoca risiedevano nella zona.

Questi rifugiati credevano che il loro soggiorno a Gaza sarebbe stato temporaneo, ma Israele rapidamente costruì recinzioni militarizzate per confinare i Palestinesi e promulgò leggi che rendevano il loro trasferimento permanente. Queste includevano la Legge sulla prevenzione dell’infiltrazione del 1954, che riteneva illegale qualsiasi tentativo dei Palestinesi di ritornare alla loro terra, alle loro case e proprietà. Molti Palestinesi che tentarono di rientrare furono uccisi con le armi dall’esercito israeliano.

Quando Israele nel 1967 conquistò la Striscia, consentì a coloni ebrei di prendere il controllo del 25% del già piccolo territorio, una fetta che comprendeva circa il 40% della terra coltivabile. Sino al “disimpegno” d’Israele nel 2005, quattro decenni di colonie ebraiche hanno peggiorato il sovraffollamento di Gaza e impedito ai Palestinesi di costruire ed espandersi entro la Striscia. Da allora, ripetute offensive militari israeliane hanno decimato le case palestinesi e ulteriormente sfollato decine di migliaia di famiglie.

Per dirla senza mezzi termini, è la logica dell’espansionismo israeliano la causa della condizione attuale della Striscia di Gaza: l’implacabile volontà dello Stato di mantenere una maggioranza ebraica a spese dei Palestinesi. Due milioni di Palestinesi sono intrappolati a Gaza non perché hanno scelto quella vita, ma perché è stata loro imposta.

La minaccia del COVID-19 incombente su Gaza è forse l’ultima opportunità per dire ciò che molti rifiutano di sentire: il problema di Gaza non è la mancanza di aiuti umanitari, per quanto urgenti essi siano. È un problema territoriale, demografico e politico. Si tratta di capire chi, tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, è privilegiato e chi no; chi vive e prospera sulla terra e chi no.

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Studente palestinese davanti a un centro di distribuzione dell’ONU nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia settentrionale di Gaza, 6 aprile 2013. (Wissam Nassar/FLASH90)Ve

In questo momento, mentre i cittadini ebrei di Israele godono della terra e delle sue risorse, ai Palestinesi quello stesso diritto viene negato e viene loro impedito di tornare in patria. E mentre la comunità internazionale si concentra in gran parte sulla minaccia di “annessione” israeliana delle sue colonie illegali in Cisgiordania, molti non si preoccupano della realtà innaturale vissuta dalla popolazione di Gaza.

In questo periodo di pandemia e di preoccupazione per la salute delle comunità di tutto il mondo, è ora di affrontare tutte le conseguenze dell’ingiusta divisione della Palestina storica, inclusa Gaza.

Infatti, Gaza racchiude molti altri problemi del nostro mondo: guerra, povertà, sfollamento e razzismo. Ma offre anche barlumi di speranza, grazie alla sua umanità, resilienza e resistenza.

In questo momento – in cui chi vive in paesi più privilegiati può solo parzialmente capire cos’è una vita in confinamento, separati dai propri cari, incerti rispetto ai bisogni primari e preoccupati per il futuro di tutta la collettività – è imperativo pensare a luoghi come Gaza, dove le persone soffrono da decenni in modo molto peggiore e rischiano una batosta molto più devastante ora che una pandemia ha raggiunto le loro sponde.

Scrivo questo mentre penso alla mia famiglia a Gaza che, come molte altre, potrebbe presto essere alla mercé del COVID-19. Benché questo sia il momento di pensare a sopravvivere, è anche il momento di interrogarci sulle grandi questioni, su come noi in quanto essere umani abbiamo mancato di prepararci a questo momento. Se non è ora il tempo di porre fine al blocco di Gaza e all’occupazione della Palestina, se non è ora il tempo di affrontare le ingiustizie che hanno reso la vita palestinese sofferente e dolorosa, allora quando?

Jehad Abusalimè uno studioso e analista politico di Gaza. Fa parte del Palestine Activism Program presso l’American Friends Service Committee e attualmente studia alla New York University.

https://www.972mag.com/coronavirus-gaza-pandemic-israel-policy/

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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