Per capire la violenza dell’occupazione israeliana, leggete queste 30 storie.

Dic 18, 2019 | Riflessioni

La violenza e il whitewashing sono la doppia elica del DNA dell’occupazione. Ecco 30 storie di palestinesi uccisi o feriti dalla sua brutalità, raccolte da B’Tselem nel corso di tre decenni. E sono solo la punta dell’iceberg.

Hagai El-Ad – 10 dicembre 2019

da: INVICTA PALESTINA, 17/12/2019

Un attacco israeliano con il fosforo bianco contro una scuola delle Nazioni Unite a Beit Lahiya, 17 gennaio 2009. (Foto: Muhammad al-Baba)

Aishah Abu Laban ha 70 anni. Ne sono ormai passati 30 da quel fatidico giorno del 1989 in cui un soldato israeliano sparò e uccise sua figlia di 13 anni, Rufaydah, ma non lo dimenticherà mai. Rufaydah, che viveva nel campo profughi di Dheisheh, fu ​​ uccisa mentre tornava a casa dal funerale del sedicenne Naser al-Qassas, che il giorno prima era stato anch’esso ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati. Il portavoce dell’IDF rispose alla morte di Rufaydah dichiarando che “Non c’era alcuna connessione tra la morte della ragazza e l’attività dell’IDF nell’area”. Trenta anni dopo, come afferma Aishah, c’è solo una conclusione: “Quando il giudice è tuo nemico, con chi puoi lamentarti? ”

Dodici anni dopo, ci troviamo in un altro campo profughi in Cisgiordania. Nur a-Shams e le sue due giovani sorelle, Hanan, di 11 anni e Iman di 8 furono ferite nella loro casa da un proiettile di un carro armato israeliano. La loro madre, Najah Abu Sha’ala, come qualsiasi madre aveva paura dei carri armati che circondavano il campo. Quando i bombardamenti si fecero più pesanti, condusse la sua famiglia nel luogo più sicuro della casa: la scala che portava al tetto. Poi cadde il proiettile. Il portavoce dell’IDF dichiarò: “Dopo aver esaminato le circostanze generali dell’incidente, la decisione è che non vi sono motivi per ordinare un’indagine da parte dell’unità investigativa della polizia militare “.

Iman fu portata all’ospedale a Gerusalemme est, ma Najah non potè andare con lei perché non aveva il permesso di entrare in Israele. Diversi mesi dopo, Iman aveva in programma di andare in Giordania con suo padre per rimuovere le schegge del proiettile. Alcune settimane prima del viaggio, i soldati spararono a suo padre al posto di blocco di Anabta, mentre stava andando al lavoro, e lo uccisero.

Nove anni prima, nella città di Khan Yunis nella Striscia di Gaza, i soldati spararono a Na’im Abu Amneh, un bambino di tre anni, uccidendolo (“La decisione non è quella di intraprendere un’azione legale contro i tiratori”, dichiarò il portavoce dell’IDF). Ritorniamo velocemente indietro di 27 anni e la madre di Na’im, Asmahan, ricorda come il suo bambino le avesse sempre detto quanto fosse forte. Non le venne mai in mente che avrebbe dovuto vivere senza di lui: il figlio maggiore, il suo primo orgoglio e la sua gioia.

Maryam Abu Nijem perse suo marito, Bilal, nell’estate del 2014. I bombardamenti sulla loro casa nel campo profughi di Jabalya a Gaza uccisero anche il padre di Bilal, suo nonno e due dei suoi fratelli. Tre vicini furono uccisi, tra cui Raghad di tre anni e Shaymaa di 14 anni. La suocera di Maryam, Fawzeyeh, fu gravemente ferita. Qualche anno prima, nel 2008, in un altro bombardamento su Gaza, la casa dei genitori di Fawzeyeh fu bombardata e undici membri della famiglia rimasero uccisi.

Ritorniamo al 1991, nel villaggio di Beit Rima, in Cisgiordania. Muhammad al-Barghouti, 23 anni, affetto da una disabilità mentale dovuta alla meningite contratta da bambino, era seduto all’ingresso di una casa. Quando arrivarono i soldati israeliani, non si mosse. Così lo picchiarono (portavoce dell’IDF: “In queste circostanze non abbiamo ritenuto opportuno ordinare alcun procedimento legale contro i soldati e il fascicolo di indagine è stato chiuso”). Da allora, ogni volta che Muhammad sente che i soldati sono nel villaggio, fugge.

Hanan e Iman Abu Sha’ala, colpite da un proiettile di carro armato dell’IDF nel 2001 all’interno della loro casa. (Per gentile concessione di B’Tselem)

Sei anni dopo, altro luogo, altro palestinese: gli agenti di polizia di frontiera picchiano Jamal Sukar di Dheisheh (“Abbiamo deciso di chiudere il caso perché purtroppo non siamo stati in grado, nonostante i nostri sforzi, di localizzare il sospettato”). Jamal non ha mai dimenticato quel giorno, né il dolore alla gamba. Ma non ha mai voluto condividere l’esperienza con i suoi figli per risparmiare loro il risentimento e la rabbia che prova.

Diciassette anni dopo l’uccisione del figlio Nidal, Muna Abu Muhsen odia le vacanze e si sente ancora come se il figlio fosse morto ieri. Nel 2002, nella città di Tubas, i soldati usarono suo figlio come scudo umano (“L’indagine ha rivelato che i comandanti delle forze sul campo non hanno stimato che utilizzare come scudo Abu Muhsen avrebbe messo in pericolo la sua vita”). Tre anni dopo, nella stessa città, Shahrzad Abu Muhsen avrebbe perso il figlio più piccolo, Salah a-Din, 14 anni – i soldati gli spararono mentre giocava con un amico con una pistola di plastica (“La denuncia non si trova, ha detto il portavoce dell’IDF). Quando Shahrzad compì il pellegrinaggio alla Mecca, giurò di aver visto suo figlio girare attorno alla Ka’ba, indossando gli abiti festivi che aveva il giorno della sua morte.

Hadil Ghaben di Beit Lahiya, nella Striscia di Gaza, amava i fumetti. Quando aveva sette anni, una bomba israeliana esplose nel suo salotto. L’avvocatura generale non avviò un’indagine. Tredici anni dopo, i membri sopravvissuti della sua famiglia sono ancora spaventati, nel corpo e nell’anima. Inizio del 2009, ancora Beit Lahiya. Questa volta, una bomba al fosforo bianco brucia a morte sei membri della famiglia di Abu Halima, tra cui Shahd, di un anno. I sopravvissuti vengono portati in un vicino ospedale sulla motrice di un trattore. Durante il tragitto, i soldati sparano e uccidono altri due di loro (“Il fascicolo di indagine è stato chiuso”).

Nel 1994, una settimana prima che a ovest della città di Halhul i soldati gli sparassero e lo uccidessero, Imad, il figlio maggiore della famiglia al-Adarbeh, aveva portato alcuni dei suoi fratelli in gita nel Mar Morto. Dopo essere stato ucciso, suo fratello e sua sorella hanno dato il suo nome ai loro figli (il soldato che uccise Al-Adarbeh fu condannato a due mesi con sospensione condizionale di due anni).

Ugualmente, Ramzi Abu Amshah ha chiamato il figlio maggiore con il nome di suo fratello di 19 anni, Yusef. Yusef fu ucciso a colpi d’arma da fuoco nel 1995 da un soldato, mentre setacciava la discarica di un insediamento nella Striscia di Gaza settentrionale alla ricerca di rame e di alluminio da vendere. (“L’avvocatura del comando meridionale ha deciso nel suo rapporto, approvato dall’avvocatura generale militare, di intraprendere azioni disciplinari contro un ufficiale e un soldato collegati all’incidente”). La sofferenza della famiglia Abu Amshah non finì qui: nel 2003, l’esercito demolì la loro casa e nell’estate del 2014 il padre rimase ucciso, insieme alla sua seconda moglie, in un bombardamento israeliano.

Nel 1998, Sabre Abu a-Russ del campo profughi di Qalandiya aveva 21 anni. Allora si vergognò di riferire al ricercatore sul campo di B’Tselem tutti i dettagli delle percosse e degli abusi subiti (“Il caso è stato chiuso dopo le indagini a causa della mancanza di prove”). Oggi, a 40 anni, è più aperto riguardo al dolore psicologico che ha portato con sé per tutta la vita. Ancora oggi, “non riesce a guardare film con violenze o notizie su incidenti con l’esercito israeliano, anche se ogni palestinese dovrebbe essere consapevole di ciò che sta accadendo intorno a sè”.

Soldati israeliani arrestano un palestinese durante un raid nella città di Hebron in Cisgiordania il 20 settembre 2016. (Wisam Hashlamoun / Flash90)

Amin Hamdan ha ancora paura di qualsiasi cosa sia legata ai militari o alla polizia israeliana. Sedici anni fa, i soldati lo picchiarono al checkpoint di Ein Ariq davanti alle telecamere, un incidente che attirò l’attenzione internazionale (“Il caso non è stato individuato”). Il giorno seguente, allo stesso checkpoint, gli stessi soldati gli impedirono di andare in ospedale. Solo tre giorni dopo il pestaggio riuscì a ottenere cure mediche per la frattura della mascella e di alcune costole. Nei mesi successivi alla guarigione delle costole, ad ogni movimento Hamdan sentiva come se un pugnale lo trafiggesse – e sentiva lo stesso ogni volta che il suo bambino gli chiedeva come suo padre si fosse lasciato picchiare in quel modo.

Dodici anni dopo che i soldati avevano ucciso suo padre, il dottor Samir Hijazi, nel 2004 (“L’avvocatura generale militare non ha ritenuto opportuno ordinare un’indagine da parte dell’unità investigativa della polizia militare”), Bayan Hijazi di Rafah decise di onorare in ritardo il desiderio del padre e si iscrisse alla scuola di medicina. Cinque anni prima, nella Striscia di Gaza, i soldati avevano aperto il fuoco contro dei pescatori, ferendo Sa’id al-Bardawil e Mahmoud a-Sharif del campo profughi di Khan Yunis. “Non ci hanno neppure insultato. Hanno aperto il fuoco e basta (“Non troviamo alcun motivo per ordinare un’indagine”).

Medat Shweiki invece fu insultato mentre riceveva i colpi dei soldati. Nel 2000, un soldato affermò che il 23enne stava “cercando di diventare un grande uomo”. Il pestaggio che ne seguì portò Shweiki ad essere ricoverato in ospedale, dove la polizia minacciò di arrestarlo (il dipartimento per le indagini della polizia “ha deciso di non perseguire l’ufficiale a causa della mancanza di prove sufficienti”). Le cicatrici sul corpo di Shweiki sono rimaste, così come la depressione. Diciannove anni dopo quella sera d’estate, ha una sua convinzione: “Non ho fiducia in nessun sistema che dovrebbe ottenere giustizia per le vittime arabe i cui diritti sono stati violati”.

Altre percosse: nel 2010, nella città di Ashkelon, Muhammad Dababseh di Tarqumya viene picchiato da un ufficiale di polizia israeliano. Dopo essere svenuto alla stazione di polizia, si risveglia in ospedale. Ha perso la capacità di parlare e pensava che non l’avrebbe mai recuperata. Ricorda il momento in cui ritrovò la voce (portavoce IDF: “Abbiamo deciso di chiudere il caso per mancanza di prove”).

È il 2012, quartiere di Issawiya a Gerusalemme est. La polizia picchia Amir Darwish di 9 anni. Dopo circa due ore alla stazione di polizia, viene rilasciato. Jihad, la madre di Amir, racconta come da quel giorno l’infanzia di suo figlio cambiò, costellata da altri arresti e altri abusi (in base a precedenti esperienze, la famiglia non ha presentato denuncia al dipartimento investigativo).

Sono passati 29 anni da quando Amneh Fanun, che ora ha 77 anni, fu picchiato dai soldati nel villaggio di Battir (“Abbiamo trasmesso la denuncia per la revisione da parte dell’Ufficio dell’Avvocato del Comando Centrale”). Si ricorda ancora quello che è successo. Le sue parole: “La vita continua nonostante il dolore”. Intanto, ogni giorno, sente parlare di altre uccisioni e di altri assalti militari.

La famiglia di Yazan Safi, del campo profughi di Jalazoun, durante gli anni adolescenziali del figlio dovette richiedere un permesso ogni sei mesi per entrare ripetutamente in Israele. Un candelotto di gas lacrimogeno lanciato da un soldato aveva colpito Yazan in bocca nel 2008, quando aveva 13 anni, così che dovette mettersi una protesi dentale che doveva essere controllata periodicamente (Il caso è stato chiuso dopo un esame da parte dei militari, ha detto l’esercito). A volte la famiglia non otteneva il permesso e il figlio doveva andare da solo per le cure. Quando Yazan compì 18 anni, l’esercito smise di dargli i permessi.


Amir Hamdan, picchiato nel 2003 da soldati dell’IDF davanti alle telecamere di sicurezza.
(Per gentile concessione di B’Tselem)

Salma a-Sawarkah di Juhar a-Dik, nella Striscia di Gaza, aveva 74 anni nel 2011. Fu allora che i soldati le spararono dal lato israeliano della recinzione mentre stava pascolando il suo gregge all’interno della Striscia (“Il caso è stato inoltrato per ulteriori indagini da parte del MPIU”). Dopo il ferimento, aveva paura di avvicinarsi alla recinzione Gaza-Israele.

Tharwat Sha’rawi era di un anno più giovane di Salma quando a Hebron fu uccisa nella sua macchina dai soldati Questo accadde quattro anni fa (“Il caso è stato chiuso dopo un esame del resoconto operativo”). Avrebbe voluto che dopo la sua morte la sua auto fosse venduta e i proventi donati all’ospedale Al-Ahli, ma l’auto venne pignorata.

Sei anni dopo la morte del fratello Samir avvenuta nel 2013, Mahmoud Awad ha compiuto 16 anni – la stessa età di suo fratello quando i soldati gli spararono vicino alla barriera di separazione vicino al villaggio di Budrus, in Cisgiordania. Il padre di Mahmoud Ahmad rimase disoccupato dopo che Israele gli revocò il permesso di lavoro subito dopo che l’esercito aveva ucciso suo figlio (l’accusa contro i due soldati coinvolti nell’incidente, per “atto avventato e negligente con un’arma da fuoco”, fu ritirata due anni e mezzo dopo). Ahmad ha fatto della documentazione e della denuncia dell’occupazione una parte centrale della sua vita — una commemorazione del figlio e di tutte le vittime palestinesi dell’ingiustizia.

Sei anni prima, sempre vicino alla barriera di separazione a est di Deir al-Balah a Gaza, Mahran Abu Nseir, sedicenne, fu ucciso a colpi di arma da fuoco e due suoi amici feriti. I tre volevano sfuggire alla povertà a Gaza e cercare lavoro in Israele (“Il caso è stato chiuso dopo un esame da parte dei militari”). Il padre di Mahran dice che il suo primogenito era un ragazzo tranquillo e benvoluto.

Ata Amira del villaggio di Ni’lin in Cisgiordania è nata orfana. I soldati hanno ucciso il padre Atallah nel 1996 (“Il MAG ha ordinato la chiusura del fascicolo istruttorio”), mentre sua madre Hanaa era incinta di cinque mesi. 23 anni dopo, Hanaa è una vedova di 56 anni. Parla dolorosamente del tempo che ne è seguito e dell’aver dovuto crescere i figli senza il padre.

Lo stesso anno, per un’altra sparatoria, quattro soldati furono condannati a “una multa di un agora (0.01 di un shekel)” per il reato di “non aver rispettato le regole obbligatorie dell’esercito”. Circa tre anni prima, i soldati avevano ucciso Iyad Amleh di Qabalan, che stava viaggiando con i suoi amici mentre tornava al suo villaggio. La condanna dei soldati è stata ribaltata in appello e gli imputati sono stati condannati a un mese di carcere con sospensione condizionale per un anno. I genitori di Iyad non si sono mai ripresi.

2016. Muhammad a-Tabakhi di A-Ram è il padre di Muhyi a-Din, ucciso dagli agenti di polizia di frontiera all’età di 10 anni. Nel primo anno dopo la morte di Muhyi, Muhammad ha continuato a pronunciare il nome del suo defunto figlio ogni volta che cercava di chiamare uno degli altri suoi figli.

2017. Baraa Kan’an, del villaggio di Nabi Saleh, aveva 19 anni quando i soldati lo arrestarono e lo picchiarono per ore. Venne bendato e uno dei soldati minacciò di sparargli. Sentì caricare la pistola e si disse che stava per morire. Kan’an fu rilasciato a notte fonda e trovato da un passante. Il padre racconta che l’arresto e gli abusi spinsero suo figlio a continuare a protestare contro l’occupazione. Un anno dopo fu nuovamente arrestato e condannato a 14 mesi di prigione.

2018: Alaa a-Dali di Rafah aveva 20 anni quando venne ferito dai soldati. Stava andando in bici a una manifestazione del Land Day quando da lontano gli spararono alla gamba destra. Israele gli negò il permesso di accedere all’ospedale di Ramallah, e i medici di Gaza dovettero amputargli la gamba. Membro della squadra ciclistica palestinese, non aveva mai potuto partecipare ad alcuna competizione fuori dalla Striscia di Gaza a causa del blocco. Ora sogna di avere una protesi.

E così, nel 2016, dopo 25 anni di esperienza e centinaia di casi, B’Tselem ha deciso di smettere di cooperare con i meccanismi di whitewashing israeliani. Da allora l’organizzazione non ha più contattato le autorità israeliane per indagare sugli incidenti in cui palestinesi residenti nei Territori Occupati sono stati uccisi o feriti.

Tutti i casi di cui sopra provengono dagli archivi di B’Tselem, ricercati e documentati fin dal 1989 dai ricercatori e dai coordinatori di dati di B’Tselem. Appartengono a un nuovo progetto di B’Tselem che mette in evidenza trenta storie di vittime palestinesi dell’occupazione israeliana, una per ogni anno dalla fondazione dell’organizzazione.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati.

 English version

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

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