I Palestinesi chiedono protezione legale dopo il “delitto d’onore” di Israa Gharib

Set 5, 2019 | Riflessioni

di Megan Giovannetti

Middle East Monitor, 1 settembre 2019.

Ahlam Wahsh (al centro), 57 anni, capo dell’Assemblea Generale delle Donne Palestinesi per il PLO, parla appassionatamente di fronte alla folla di manifestanti nella piazza centrale di Beit Sahour [Megan Giovannetti]

“No alla violenza contro le donne!” Hanno gridato donne e uomini palestinesi di tutte le età, mentre marciavano dalla Piazza della Mangiatoia di Betlemme fino a Beit Sahour.

“Da Beit Sahour diciamo ai leader del Governo: abbiamo bisogno di leggi che proteggano le donne!”

Sabato pomeriggio 31 agosto, un gruppo di circa 100 persone si è riunito nel centro di Beit Sahour (cittadina vicino a Betlemme) per chiedere giustizia in favore della ventunenne Israa Gharib, una nota specialista locale di make up, uccisa dalla famiglia –secondo quanto riportato– per una sorta di delitto d´onore.

Sebbene i dettagli dell`incidente non siano stati ancora confermati, The New Arab scrive che Gharib è stata uccisa nel suo letto d’ospedale, dopo essere stata curata per lesioni riportate alla spina dorsale in seguito a una caduta dal secondo piano della sua casa. Sembra che, quando è saltata giù da un balcone, stesse cercando di sottrarsi all’aggressione degli uomini della sua famiglia.

Dopo la diffusione della notizia sui social media –compreso un video virale in cui si udivano le sue grida strazianti dal letto dell’ospedale con l´hashtag “Siamo tutti Israa”– è nata una pubblica protesta contro i delitti d’onore. Da questa è scaturita una più ampia discussione sul sistema legale dell´Autorità Palestinese (PA), ormai superato per quanto riguarda la violenza di genere.

“Stiamo qui a protestare per porre fine alla violenza contro le donne” ha detto a MEMO (Middle East Monitor), durante la protesta di sabato, Lucy Talgieh, membro del Dipartimento delle donne nel Centro Palestinese per la Risoluzione dei Conflitti. “Vogliamo mandare un messaggio al nostro Presidente: abbiamo bisogno che sia approvata una legge che metta fine alle uccisioni e alle violenze domestiche in Palestina.”

Un sistema superato e disfunzionale

La questione principale riguarda un Codice Penale importato dal sistema legale giordano, quando –prima della guerra del 1967– la Giordania controllava le zone della Cisgiordania e di Gerusalemme Est ora occupate dagli Israeliani. L’articolo 99 del suddetto codice penale “offre ai giudici la possibilità di ridurre drasticamente le pene” quando “siano presenti circostanze attenuanti”.

Secondo un rapporto della commissione diritti umani delle Nazioni Unite del 2014, stilato dal giudice palestinese Ahmad al-Ashqar, “la legislazione vigente contribuisce in larga misura a costruire una coscienza sociale secondo la quale è accettabile uccidere prendendo a pretesto l’onore”. “Da 100 anni a questa parte nulla è veramente cambiato nelle leggi” spiega Amira Khader, avvocato e co-manager del negozio femminista BabyFist a Ramallah. Khader sottolinea come la Palestina sia stata sottoposta ad occupazione, senza soluzione di continuità, da parte dell´Impero Ottomano, della Gran Bretagna e degli Israeliani: un fatto che ha lasciato scarse possibilità di sviluppare un proprio sistema legale.

E sotto l’occupazione –ha aggiunto Khader– il sistema politico non è stabile. “È davvero difficile cambiare qualcosa, mentre gli Israeliani controllano ogni singolo dettaglio della tua vita.”

“E adesso Il Parlamento [palestinese] non lavora dal 2000 e dall’Intifada” ha continuato. “Non c’è stata nessuna reale discussione o nessun vero voto dal 2006”, cioè da quando l`Autorità Palestinese si è divisa tra i partiti politici Hamas, che controlla Gaza e Fatah, che controlla la Cisgiordania.

Senza un Parlamento che funzioni, nessun articolo può essere cambiato se non firmato dal Presidente Mahmoud Abbas. Vari gruppi a sostegno dei Diritti delle Donne gli hanno consegnato anni fa una petizione che raccoglieva circa 12.000 firme, chiedendo di cambiare l´articolo 99, ma Abbas non ne ha ancora fatto nulla.

Secondo Khader “se lo sottoscrive, deve affrontare la società patriarcale. . . e questa non è una cosa che vuol fare.

“Basta con il silenzio, non giova a nessuno”

Mentre richiedevano al Governo cambiamenti strutturali, sabato i manifestanti chiedevano anche giustizia immediata per Israa Gharib, pensando che ciò possa contribuire ad evitare future violenze contro le donne.

“Nel 2019, fino ad oggi, sono state uccise per delitto d´onore, 14 donne in Cisgiordania e 4 a Gaza” ha spiegato Lucy Talgieh. “Alcuni casi sono arrivati in tribunale, ma nessuno è arrivato a sentenza. E, nella maggior parte dei casi, verranno chiusi.”

“Devono continuare” così la diciannovenne Rima Nael di Hebron, ha motivato la sua presenza di sabato a Betlemme. “La polizia non dovrebbe chiudere il caso. . . dovrebbero trovare i criminali e punirli, in modo che altri uomini non facciano la stessa cosa” ha detto con enfasi a MEMO.

Ahlam Wahsh, 57 anni, capo dell’Assemblea Generale delle Donne Palestinesi al PLO, ha parlato con MEMO alla manifestazione, spiegando che, sebbene il senso della tragedia sia ancora presente, c’è un elemento positivo: “Centinaia di incidenti simili a questo sono accaduti e nessuno ha avuto il coraggio di parlarne così apertamente e con tale fermezza.”

La morte di Gharib è stata, per molti versi, l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. “Basta con il silenzio,” ha detto Wahsh, ”non giova a nessuno”.

Lottare per una causa non esclude lottare anche per un’altra causa

La manifestazione è stata ideata e condotta via Facebook dalla diciannovenne Manar Raje, nativa di Betlemme. La sua motivazione principale era una presa di posizione contro tutti i tipi di violenza, soprattutto la violenza esercitata dai Palestinesi, mentre sono sottoposti alla violenza dell`occupazione.

“Oggi siamo tutti uniti e ci vogliamo bene,” ha detto Raje a MEMO. “Stiamo sopportando un’occupazione e siamo tutti contro l`occupazione.”

“Ma dobbiamo cominciare da noi stessi –per renderci migliori, in un modo o nell’altro.”

“Viviamo in una situazione di occupazione e di oppressione” ha spiegato Wahsh, lei stessa prigioniera politica nel 1979. “Le nostre donne vengono uccise [dall’esercito israeliano] durante le demolizioni delle case, ai checkpoint.”

Ma “oggi [è] per Israa, “ha puntualizzato Wahsh. “Vogliamo dirlo a tutti. . . è tempo di fermare lo spargimento di sangue ­–almeno da questa parte, quella di cui siamo responsabili.”

Molte critiche sono state espresse online contro il silenzio sull’uccisione di Gharib, facendo emergere la sensazione che, in Palestina, alcuni aspetti della giustizia sociale vengono troppo spesso nascosti sotto il tappeto, quando ci si deve confrontare con la lotta per la liberazione.

Ieri, l’avvocato Noura Erakat, in un post su Instagram si è espressa così: “Protestiamo contro la tortura, la violenza, l’arrogante senso di superiorità di Israele. . . [ma] queste proteste sono insincere e incomplete quando la lotta entra come un mattone che cade nelle nostre stesse case.” Erakat ha ricordato la recente violenza fatta dalla polizia dell’Autorità Palestinese che ha sobillato contro l´organizzazione LGBTQ Al-Qaws, vedendo in essa un altro esempio del modo in cui le intricate forme del patriarcato permeano la società e inibiscono la capacità di “trasformazione e di crescita anche quando ci si unisce contro l’oppressione del colonialismo di insediamento.”

“Dare giustizia alle donne e alla Palestina, non sono elementi che si escludono a vicenda“ ha scritto in un post sul suo blog Yasmeen Mjalli, fondatrice di BabyFist. “La giustizia per una causa non dovrebbe e non deve compromettere le possibilità di giustizia per le altre”.

In effetti, La Palestina non sarà mai veramente liberata fino a che non saremo TUTTI liberati.”

Traduzione di Anna Maria Torriglia

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