Perché mi sono licenziato dal Museo Ebraico di Berlino.

Giu 23, 2019 | Storie

di Yossi Bartal 

Haaretz, 22 giugno 2019

Il Museo Ebraico di Berlino. Markus Schreiber / ASSOCIATED PR

Lunedì scorso, dopo aver guidato centinaia di gruppi di visitatori dalla Germania e da tutto il mondo per i vari percorsi espositivi, ho presentato le mie dimissioni dall’incarico di guida del Museo Ebraico di Berlino, come atto di protesta contro il grossolano intervento politico del governo tedesco e dello stato d’Israele nel lavoro del museo.

Il vergognoso licenziamento di Peter Schäfer, uno dei più importanti studiosi al mondo di Ebraismo, in seguito a un’aggressiva campagna di “fake news” orchestrata dall’ambasciatore di Israele in Germania, Jeremy Issacharoff, e da Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei di Germania, ha dimostrato chiaramente che il governo tedesco non è più interessato a preservare l’autonomia artistica e accademica del museo. E io non sono interessato a lavorare per una istituzione che rinuncia alla sua indipendenza per servire gli interessi politici di questo o quello stato.

Fin dall’inizio, lavorare come guida ebrea in un museo ebraico dove la maggior parte del personale e dei visitatori non sono ebrei, è stato per me una sfida dal punto di vista personale, politico e pedagogico. Il problema di rappresentare l’altro e di parlare in suo nome hanno accompagnato il lavoro del museo fin dalla sua apertura nel 2003.

È giusto che un museo statale tedesco si chiami museo ebraico, oppure sarebbe meglio che fosse sotto il completo controllo della comunità ebraica ufficiale (che è l’unica a rappresentare una parte dell’ebraismo tedesco)? E un museo ebraico, in mancanza di una istituzione simile rivolta alla comunità musulmana o ad altri gruppi minoritari, deve farsi carico di dare spazio al punto di vista dei figli di immigrati in Germania, molti dei quali vivono nei quartieri vicini, e deve occuparsi di avviare un dialogo tra Ebrei e Musulmani?

Dovrebbe il museo funzionare come uno spazio in cui si possono confrontare varie opinioni sul mondo ebraico, comprese quelle che riguardano Israele? La risposta del capo della comunità ebraica, dell’ambasciatore israeliano e dei giornalisti di destra (che per anni hanno condotto una campagna tossica e bugiarda contro il personale del museo) è un reciso no.

Ecco quindi che buona parte delle critiche fatte al museo suggeriscono, o dichiarano apertamente, che il personale del museo, proprio perché per lo più non è ebreo, non deve impegnarsi in attività sociali che non siano conformi alle preferenze politiche dei rappresentanti della comunità ebraica. Questo tipo di argomentazioni ha toccato l’assurdo quando Schuster, leader di una comunità in cui molti membri non vengono considerati ebrei secondo la halakha [la legge ebraica, NdT], ha dichiarato che il museo non ha il diritto di chiamarsi Ebraico.

Ma non dobbiamo farci confondere dalla legittima lamentela di una scarsa rappresentanza ebraica nelle posizioni di punta in Germania, poiché questa lamentela viene sollevata solo quando i non-ebrei osano, anche nel modo più delicato, criticare le politiche del governo israeliano o protestare contro il razzismo anti-musulmano. Una prova di questo si può vedere nell’approvazione da parte della comunità ebraica della nomina dei 10 funzioni incaricati di combattere l’antisemitismo nel paese. Tutti e 10 sono non-ebrei e tutti e 10 sostengono la tesi che una forte critica dell’occupazione e della discriminazione religiosa operata da Israele debba essere vista come un’espressione di antisemitismo.

Non sorprende che il partito di estrema destra “Alternativa per la Germania” sia quello che, per mezzo di interrogazioni parlamentari, ha condotto la campagna dell’anno scorso contro il museo, come ha riferito con simpatia il quotidiano casalingo di Benjamin Netanyahu. Anche se l’ambasciata israeliana dichiara di non essere in contatto con membri del partito, la sua opposizione alle attività del museo si basa su un deciso rigetto del discorso democratico e sulla sua totale identificazione degli interessi del governo israeliano con quelli dell’Ebraismo mondiale. Già nello scorso anno, nell’ambito di un’esposizione su Gerusalemme e sul suo significato per le tre religioni, il museo fu costretto a cancellare una conferenza sulla condizione dei Palestinesi LGBTQ a Gerusalemme Est, perché l’ambasciatore israeliano sospettava che il conferenziere sostenesse, Dio ce ne scampi, il BDS.

Le accuse di antisemitismo, che hanno un peso enorme in Germania, portano sempre di più alla censura e all’auto-censura. Le istituzioni culturali tedesche, che dovrebbero fornire il terreno per ogni posizione di critica, vengono minacciate sul piano economico e politico se anche osano ospitare artisti e musicisti che abbiano mai espresso simpatia verso la resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana. Questa politica del terrore che Miri Regev conduce in Israele viene importata in Germania dai sostenitori di Israele. Solo in Germania, a causa della sua sensibilità all’antisemitismo e per la sua forte identificazione con Israele all’indomani della Shoah, ci sono personaggi politici, non solo nella destra ma anche a sinistra, che approvano energicamente la messa al bando di chi critica Israele.

L’ascesa al potere dell’estrema destra in varie parti del mondo si basa in gran parte sul restringimento dello spazio democratico e sull’intimidazione e la punizione di chiunque osi opporsi alle politiche oppressive nazionalistiche. L’impegno del ministero per gli Affari Strategici e del ministero degli Esteri, insieme alle organizzazioni ebraiche e di destra in tutto il mondo, a diffamare e a ingiuriare chiunque rifiuti di unirsi alla loro campagna di istigazione contro gli attivisti per i diritti umani, ha così portato al licenziamento di uno stimato studioso, solo perché aveva deciso di difendere il diritto degli accademici israeliani di opporsi alla definizione del movimento BDS come movimento antisemita.

Contro questa spinta paranoide verso le purghe, che ricorda in gran parte gli anni del maccartismo negli Stati Uniti, bisogna prendere una chiara posizione politica. Se il licenziamento di Peter Schäfer insegna qualcosa, non importa quanto lodevolmente una persona si sia schierata contro l’antisemitismo e a favore di Israele: l’opporsi alle politiche anti-democratiche di Netanyahu basta per trasformarlo in un nemico del popolo e della nazione.

Se i governi di Germania e di Israele vogliono che il Museo Ebraico rappresenti solo i loro ristretti interessi politici e neghi al suo personale la libertà di espressione, io non sono interessato a farne parte. Perciò, malgrado il mio profondo rispetto per il personale del museo, ho presentato le mie dimissioni. Come molti altri Ebrei della mia generazione, non voglio e non ho bisogno di un certificato kashrut dallo stato di Israele o dai capi della comunità ebraica istituzionale, né, tantomeno, dal governo tedesco. L’Ebraismo, come cultura pluralistica e democratica mondiale, continuerà ad esistere dopo che le politiche razziste e ultra-nazionaliste che hanno preso il sopravvento in tante istituzioni pubbliche saranno scomparse dalla faccia della terra.

Yossi Bartal 

L’autore è vissuto a Berlino per 13 anni e lavora come guida turistica.

https://www.haaretz.com/opinion/why-i-resigned-from-berlin-s-jewish-museum-1.7398301

Traduzione di Donato Cioli

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