Netanyahu ha sconfitto i Palestinesi?

Set 4, 2017 | Riflessioni

Daniel Levy

The National Interest, 24 agosto 2017.

Israele ha certamente registrato alcune vittorie, mentre la leadership palestinese ha sofferto per le sue divisioni e la sua incapacità strategica.

Un soldato israeliano cammina puntando la sua arma contro dimostranti palestinesi nel corso di scontri nel villaggio di Kofr Qadom, vicino a Nablus, Cisgiordania, 11 agosto 2017. REUTERS/Mohamad Torokman

Le ormai lunghe indagini di polizia sugli affari del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu pare che abbiano varcato il Rubicone all’inizio di questo mese. Netanyahu è indagato in vari casi che hanno a che fare, tra l’altro, con accuse di corruzione, frode e abuso di ufficio. Si è ora raggiunto un patteggiamento tra l’ufficio del pubblico ministero e Ari Harrow, l’ex-capo di gabinetto di Netanyahu, che ha accettato di fare da testimone della pubblica accusa, un accordo raramente messo in atto se non in presenza di solide prove contro un più autorevole e più importante imputato.

Mentre crescevano ai massimi livelli le probabilità di una sua incriminazione e le speculazioni sulla sua permanenza in carica, Netanyahu è passato al contrattacco. Nel corso di una manifestazione di sostegno organizzata dal suo partito Likud, Netanyahu ha accusato “la psicopolizia dei media,” che insieme alla sinistra e col sostegno dei Palestinesi, porta avanti “una caccia alle streghe ossessiva e senza precedenti” contro di lui e la sua famiglia. Il loro obiettivo, ha detto, è quello di mettere in atto “un colpo di stato” per rovesciare “il fronte nazionale.” Sia lo stile che la sostanza della sua focosa retorica saranno apparsi del tutto familiari a qualunque americano che non sia rimasto addormentato negli ultimi sette mesi.

Questa parte del discorso era rivolta alla sua base elettorale. Ma la lunga permanenza in carica di Netanyahu, i suoi molteplici successi elettorali e la sua abilità nel tenere insieme una coalizione di governo nel turbolento sistema politico israeliano sono dovuti anche al fatto che il suo messaggio raggiunge un più vasto pubblico. Lo slogan promozionale che Netanyahu ha ripetuto in quella manifestazione è di “aver portato lo stato di Israele nella migliore situazione in tutta la sua storia, come una potenza globale in crescita … lo stato di Israele è in piena fioritura diplomatica.” Netanyahu ha respinto quella che ha definito “un’affermazione da fake-news” cioè che senza un accordo con i Palestinesi “Israele finirà isolato, indebolito e abbandonato” e andrà incontro a “uno tsunami diplomatico.”

Anche se i suoi avversari politici non lo vogliono ammettere, le affermazioni di Netanyahu fanno breccia nel pubblico perché riflettono qualcosa che è reale e che ha spostato sempre più a destra il centro di gravità della politica israeliana. Si tratta di affermazioni che, se corrette e verificate nel tempo, lasceranno un’eredità che andrà ben oltre la presidenza di Netanyahu e qualunque condanna egli possa subire.

Quello che Netanyahu ha detto è che lui non sta semplicemente temporeggiando nel conflitto di Israele con i Palestinesi, nell’intento di migliorare le condizioni di un eventuale e inevitabile compromesso. Netanyahu rivendica un’altra cosa: la possibilità di una vittoria finale, la sconfitta permanente e definitiva dei Palestinesi e delle loro mire nazionali e collettive.

In più di dieci anni come primo ministro, Netanyahu ha ripetutamente e inequivocabilmente respinto qualunque progetto o provvedimento concreto che appena accennasse a prendere in considerazione le aspirazioni palestinesi. Netanyahu è per perpetuare ed esacerbare il conflitto, non per affrontarlo e tanto meno per risolverlo. Va a cercare le cicatrici ormai dimenticate per trafiggerle di nuovo e si concentra su tutto quello che appare più angosciante per l’esistenza. È stato lasciato ad altri –ministri, parlamentari, leader locali del suo partito Likud e dei suoi alleati di coalizione– il compito di articolare più apertamente l’obiettivo finale. Il loro messaggio è chiaro: non ci sarà nessuno stato palestinese perché la Cisgiordania e Gerusalemme Est fanno semplicemente parte del Grande Israele.

Questo approccio rovescia tutte le premesse che hanno guidato i tentativi di pace e la politica americana per più di un quarto di secolo, e cioè che alla fine Israele non avesse altra scelta che ritirarsi dai territori ed accettare qualcosa sufficientemente simile ad uno stato palestinese indipendente e sovrano, più o meno secondo i confini del 1967. Si sfida così anche l’idea che il permanente rifiuto di una simile soluzione sia incompatibile con il fatto che Israele e gli Israeliani pensano di far parte di una democrazia. Si sfida inoltre la supposizione di coloro che si sforzano per la pace che questo rifiuto sia comunque inaccettabile per i principali alleati da cui dipende Israele –dalle comunità della diaspora ebrea con il loro sostegno politico, all’America con le sue garanzie militari, all’Europa che è il maggior partner commerciale di Israele– ed è perciò incompatibile con la pretesa di Israele di presentarsi come una nazione integrata, aperta e che ha rapporti col mondo intero.

Dopo anni di fallimenti, quelle supposizioni del processo di pace hanno cominciato comunque ad apparire usurate. Così, Bibi ha puntato direttamente alla giugulare. All’inizio della sua presidenza, Netanyahu ha rosicchiato ai margini di questo paradigma di Oslo, sentendo che il successo avuto sul piano internazionale non si replicava in casa, in Israele. Col passare del tempo, Netanyahu si è convinto che avrebbe potuto dare una nuova forma al paradigma. Gli sviluppi successivi hanno giocato in suo favore –sia quelli che erano opera sua e per i quali poteva rivendicare il merito, sia quelli che non dipendevano da lui ma erano in sintonia con il nuovo zeitgeist [spirito dei tempi] che stava proponendo. Siamo ora entrati, o così sembra, nella fase in cui Netanyahu vuole appropriarsi del nuovo paradigma e cantar vittoria.

Il modo in cui la causa palestinese continua ad essere formulata, cioè come liberazione nazionale e come lotta anti-coloniale, sembra avere meno presa di quanta ne avesse nel passato, per le nuove generazioni mondiali di leader e di pubblico. Sul piano pratico, il Movimento dei Non-Allineati (con il suo impegno per l’auto-determinazione) comprende la maggior parte degli stati sovrani del mondo, ma non è più quell’importante strumento di organizzazione politica che era una volta per quegli stati. Queste dinamiche storiche globali non sono opera di Netanyahu, ma il primo ministro israeliano ha colto il momento per promuovere le relazioni internazionali di Israele (specialmente in Africa e in Asia), sviluppando efficacemente le potenzialità di Israele nel campo della sicurezza, dell’intelligence, dell’informatica e della tecnologia, grazie anche alla capacità di ottener favori per i suoi stretti rapporti con gli USA e a volte anche alimentando in modo spericolato la percezione di un potere ebraico mondiale.

Ora Netanyahu mette sul tavolo anche un suo vantaggio personale. La sua lunga esperienza, la sua perspicacia e le sue relazioni personali sono tutte cose che gli altri leader apprezzano e considerano utili. Ad esempio, anche se Netanyahu non ha avuto direttamente un ruolo nell’elezione di Narendra Modi del Partito nazionalista hindu del Popolo Indiano, i suoi rapporti personali si sono intrecciati con la politica. Questo ha dato un’inedita vivacità alle relazioni indo-israeliane ed ha portato in luglio alla visita in Israele del primo ministro Modi, che non ha visitato i Palestinesi. Un viaggio di questo tipo sarebbe stato inimmaginabile per un leader indiano di ieri. Allo stesso modo, il rapporto tra Israele e Russia ha un carattere istituzionale che è però indistinguibile dai legami personali che si sono formati tra Putin e Netanyahu. Questa connessione esiste anche per certe parti dell’Africa, dove Israele ha fatto i più significativi progressi diplomatici degli ultimi anni. Netanyahu era presente a giugno al summit della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale a Monrovia, in Liberia. Alla fine dell’anno, sarà ospitato in Togo per un Summit Africa-Israele che comprenderà un buon numero di leader africani. Il Summit Africa-Israele segue un ampio tour fatto l’anno scorso da Netanyahu in Africa Orientale. Se a tutto questo si aggiungono i legami che stanno sbocciando tra Israele e Cina e l’importanza di Israele nell’export mondiale di armi (è attualmente al settimo posto, secondo l’Istituto svedese SIPRI) con esportazioni militari stimate a 6,5 miliardi di dollari nell’ultimo anno, si comincia allora a capire l’abilità di Netanyahu nel vendere questo nuovo paradigma al pubblico israeliano.

Quanto ai bastioni più tradizionali che sostengono Israele, Netanyahu ha scelto un rischio calcolato: continuerà a reggersi a livelli sufficienti il sostegno degli Ebrei americani anche se Israele diventa sempre più illiberale ed etno-nazionalista, permettendo così il perpetuarsi dell’asimmetrico rapporto USA-Israele? Netanyahu ha scommesso di sì, ed ha avuto ragione. Ed è poco probabile che la scommessa vincente di Netanyahu venga capovolta dalle recenti controversie con le correnti ebraiche non-ortodosse degli Stati Uniti (riformati e conservatori, che sono la maggioranza degli Ebrei americani) sulla questione delle preghiere al Muro del Pianto di Gerusalemme e sui diritti di conversione. Il fatto stesso che queste comunità ebraiche che dovrebbero essere tra le più liberali siano andate allo scontro su piccoli problemi parrocchiali, mentre non si pronunciano sulla continua negazione dei più elementari diritti dei Palestinesi, è un’altra tacca nel registro delle vittorie di Netanyahu.

Gli eventi, poi, hanno preso ancora una svolta a favore di Netanyahu con l’arrivo al potere in USA e in parti dell’Europa centro-orientale (o con l’aumentato rilievo in altre parti d’Europa e dell’Occidente) di quelle stesse tendenze etno-nazionaliste così care a Netanyahu, che cercano di sostituire la democrazia liberale con una democrazia illiberale. Non si può sottovalutare l’importanza di Israele e di Netanyahu come avanguardie ideologiche e pratiche di queste tendenze.

Venendo più vicino a casa, proprio in Medio Oriente, il disordine attuale ha relegato la questione palestinese agli ultimi posti nella graduatoria di importanza, mentre ha incoraggiato un silenzioso aumento di cooperazione tra Israele e certi stati arabi, tra cui una piattaforma unitaria anti-Iran. Netanyahu non ha avuto un ruolo nelle rivolte arabe, ma può almeno vantare un assist nel momento cruciale che ha portato la regione al disordine, l’invasione americana dell’Iraq nel 2003.

Intanto, in questo quadro e con l’incoraggiamento di Israele, insieme a tanti suoi passi falsi, la leadership palestinese è stata disperatamente divisa e incapace di adattare la sua strategia ai cambiamenti in atto.

Ma non bisogna neanche esagerare sui successi di Netanyahu. I progressi diplomatici e il miglioramento delle relazioni si sono finora tradotti in ben poco in termini di votazioni alle Nazioni Unite e nelle altre agenzie, tutte cose che –seppure non devastanti per Israele– possono essere fastidiose. Proprio perché questo momento favorevole è dovuto in parte alla lunga esperienza di Netanyahu e ai suoi rapporti personali, il momento della verità arriverà al momento del dopo-Bibi. Anche se il paradigma della liberazione nazionale può essere in declino, la rivendicazione di eguaglianza e diritti civili resta un potente grido di richiamo, se i Palestinesi vorranno intraprendere quella strada.

Anche la scommessa sulla continua fedeltà degli Ebrei americani alla causa di Israele potrebbe venir meno se Netanyahu e la destra israeliana si spingessero troppo oltre. Il primo ministro israeliano è rimasto decisamente alla retroguardia nel protestare contro le manifestazioni di neo-nazismo di Charlottesville in Virginia. Il leader della destra alternativa Richard Spencer descrive il suo movimento come “Sionismo Bianco” e il sito web della Breitbart sostiene continuamente di non poter essere etichettato come antisemita perché è pro-Israele. Intanto, la voce ufficiale di Israele si concentra soprattutto nell’attaccare sia la destra liberale estera per le sue critiche alle pratiche disumane di Israele nei confronti dei Palestinesi, sia i gruppi israeliani di protesta progressista e per i diritti umani. In sostanza, Israele sta mettendo molti Ebrei liberali americani in una posizione sempre più scomoda e insostenibile.

Ogni appello a investimenti socialmente responsabili, all’approvvigionamento da fonti etiche e alla non-discriminazione, confrontato con le azioni illegali e immorali di Israele nei territori palestinesi occupati, pone serie sfide alla zona di sicurezza di Israele. Anche se questi appelli hanno piuttosto l’aria di strumenti per le campagne politiche del futuro, ivi compresa l’attenzione pubblica (anche se finora con limitati successi) del movimento BDS.

Anche la divisione della leadership palestinese e la sua inettitudine strategica, così come l’indifferenza della regione e i suoi disordini, non sono probabilmente qualcosa che è stato decretato per l’eternità.

Tutti questi fattori potrebbero cambiare, ma Netanyahu ha certamente registrato alcune vittorie. I costi dell’occupazione, nella colonna delle uscite del registro di Israele, sono per il momento contenuti.

La questione cruciale per Israele, e anche per il suo alleato americano, è la sostenibilità di questo sforzo a somma zero per sconfiggere i Palestinesi.

Ripulire le ragnatele che restano del fallito paradigma di Oslo potrebbe essere una buona cosa, ma Netanyahu non ha l’esclusiva su cosa mettere al loro posto. Se la conclusione logica del paradigma di Netanyahu è l’espulsione, l’alternativa logica alla divisione dovrà essere l’uguaglianza. La liberazione nazionale può essere difficile da vendere nel ventunesimo secolo. L’uguaglianza al posto dell’espulsione forse un po’ meno.

Israele si è dimostrato capace di fare alcune mosse geostrategiche abili, ma ci sono fattori radicati profondamente in questo conflitto per i quali Israele non ha soluzioni. Finché i Palestinesi rimangono risolutamente sulla loro terra, Israele ha un problema di controllo e di governo, problema ancor più impegnativo per l’esistenza di un entroterra arabo e musulmano che è numericamente schiacciante. E Israele non può contare sulle riserve di colonizzatori bianchi che in America o in Australia hanno facilitato la pacificazione di popolazioni indigene numericamente limitate e isolate. Questo rende la strategia a somma zero così rischiosa e imprudente, anche senza entrare nella dimensione etica, morale o valoriale.

L’amministrazione Trump riceverà presto un promemoria su quanto sia difficile sostenere le mire di vittoria di Netanyahu. Una delegazione USA per il processo di pace, composta da Jared Kushner, Dina Powell e Jason Greenblatt, si trova ora nella regione per un tour di sette tappe. Una parte dei loro sforzi sarà diretta ad esplorare come l’involucro esterno dei rapporti Israele-Stati arabi possa aiutare a migliorare l’involucro interno dei rapporti Israele-Palestina.

Ma la teoria che si possa agire dall’esterno verso l’interno è fallace. Netanyahu non ha alcun interesse a fare qualcosa di significativo verso l’interno, e qualunque iniziativa araba all’esterno avrà breve durata quando si scontrerà col massimalismo israeliano. Il promemoria più recente è venuto dalla crisi da Al Aqsa del mese scorso e dal modo in cui Israele ha trattato le sensibilità arabe e musulmane.

A meno che non emerga una leadership o un movimento palestinese capace di imporre un intervento strategico, Israele continuerà ad accumulare punti di vittoria. Netanyahu non ha sconfitto i Palestinesi, ma ha alzato la posta.

Il danno che Netanyahu ha fatto al paradigma della spartizione è sempre più irreversibile, mentre i miglioramenti che ha prodotto per gli interessi regionali e internazionali di Israele sono in buona parte reversibili. Che sia incriminato o no, le “vittorie” che Netanyahu lascia in eredità ai suoi successori non avranno un sapore dolce.

Daniel Levy

Daniel Levy è Senior Research Fellow e Co-Direttore della Middle East Task Force alla New America Foundation e Senior Fellow e Direttore dell’Iniziativa Prospects for Peace alla Century Foundation.

http://nationalinterest.org/profile/daniel-levy

Traduzione di Donato Cioli

A cura di AssopacePalestina

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