“Lasciamoli annegare” – di Naomi Klein

Set 9, 2016 | Riflessioni

Naomi Klein

Naomi Klein

di Naomi Klein – 29 maggio 2016

Edward Said non era un ambientalista sfegatato [letteralmente “un abbracciatore di alberi” – n.d.t.]. Discendeva da commercianti, artigiani e professionisti; una volta si descrisse come un “caso estremo di palestinese urbano il cui rapporto con la terra è fondamentalmente metaforico”. In ‘After the Last Sky’[Dopo l’ultimo cielo], la sua meditazione sulle fotografie di Jean Mohr, egli ha esplorato gli aspetti più intimi delle vite palestinesi, dall’ospitalità agli sport all’arredamento domestico. Il minimo dettaglio – la posizione di una cornice, l’atteggiamento ribelle di un bambino – provocava un torrente di idee da Said. Tuttavia quando si trovava di fronte a immagini di contadini palestinesi – che si prendevano cura delle loro greggi, che lavoravano nei campi – la specificità improvvisamente svaniva. Quali raccolti erano coltivati? Qual era la condizione del suolo? La disponibilità di acqua? Nulla gli si presentava. “Continuo a percepire una popolazione di contadini poveri, sofferenti, occasionalmente coloriti, immutabili e collettivi”, confessava Said. Tale percezione era “mitica”, egli riconosceva, e tuttavia permaneva.

Se per Said l’agricoltura era un altro mondo, quelli che dedicavano le loro vite a questioni quali l’inquinamento dell’aria e dell’acqua sembrano aver abitato un altro pianeta. Parlando con il collega Rob Nixon, una volta descrisse l’ambientalismo come “l’indulgenza di abbracciatori viziati di alberi privi di una causa giusta”. Ma le sfide ambientali del Medio Oriente sono impossibili da ignorare per chiunque sia immerso, com’era Said, nella sua geopolitica. Questa è una regione intensamente vulnerabile a problemi idrici o di temperatura, all’aumento del livello del mare e alla desertificazione. Un documento recente suNature Climate Change prevede che, se non ridurremo radicalmente le emissioni e non le ridurremo in fretta, vaste aree del Medio Oriente probabilmente “sperimenteranno livelli di temperatura intollerabili per gli umani” entro la fine di questo secolo. E questo è il massimo di schiettezza che si può avere dagli scienziati del clima. Tuttavia i problemi ambientali nella regione continuano a tendere a essere trattati come riflessioni secondarie, o cause di lusso. Il motivo non è l’ignoranza o l’indifferenza. E’ semplicemente larghezza di banda. Il cambiamento climatico è una minaccia grave ma gli impatti più spaventosi sono nel medio termine. E nel breve termine ci sono sempre minacce molto più pressanti da affrontare: l’occupazione militare, gli attacchi aerei, la discriminazione sistemica, l’embargo. Nulla può competere con questo, né dovrebbe tentare di farlo.

Ci sono altri motivi per cui l’ambientalismo poteva essere sembrato a Said un parco giochi borghese. Lo stato israeliano ha a lungo verniciato di una vena verde il suo progetto di costruzione della nazione; era una parte chiave dell’ethos pionieristico sionista del “ritorno alla terra”. E in tale contesto gli alberi, specificamente, sono stati tra le armi più potenti di accaparramento e occupazione della terra. Non si tratta soltanto degli innumerevoli olivi e alberi di pistacchio che sono stati sradicati per lasciare spazio agli insediamenti e a strade per soli ebrei. Sono anche le pinete e le foreste di eucalipti che sono state piantate in quegli orti e anche sui villaggi palestinesi, in modo più notorio dal Jewish National Fund [JNF – Fondo Nazionale Ebraico – n.d.t.] che, sotto lo slogan “Rendere verde il deserto”, vanta di aver piantato 250 milioni di alberi in Israele a partire dal 1901, molti di essi non nativi della regione. In materiale pubblicitario il JNF si promuove come ONG, interessata alla gestione delle foreste e dell’acqua, dei parchi e degli spazi ricreativi. Capita anche che sia il più grande proprietario terriero dello stato d’Israele e nonostante numerose vertenze legali complicate continua a rifiutarsi di affittare o vendere terre a non ebrei.

Sono cresciuta in una comunità ebrea in cui ogni occasione – nascite e morti, giornate della mamma, bar mitzvah – era segnata dall’orgoglioso acquisto di un albero del JNF in onore della persona. Non è stato che da adulta che ho cominciato a capire quelle conifere lontane che mettevano la coscienza a posto, i cui certificati rivestivano le pareti della mia scuola elementare del Maryland, non erano benigne, non semplicemente qualcosa da piantare e poi abbracciare. In realtà quegli alberi sono tra i simboli più appariscenti del sistema israeliano di discriminazione ufficiale, quello che va smantellato se deve diventare possibile una coesistenza pacifica.

Il JNF è un esempio estremo e recente di quello che alcuni chiamano “colonialismo verde”. Ma il fenomeno non è certo nuovo, né è unico di Israele. C’è una storia lunga e dolorosa nelle Americhe di splendide aree naturali trasformate in parchi di tutela con tale designazione poi usata per impedire ai popoli indigeni di avere accesso ai loro territori ancestrali per cacciare e pescare, o semplicemente vivere. E’ accaduto in continuazione. Una versione contemporanea di questo fenomeno è la compensazione delle emissioni di carbonio. Popoli indigeni dal Brasile all’Uganda stanno scoprendo che alcuni degli accaparramenti di terre più aggressivi sono attuati da organizzazioni di tutela. Una foresta è improvvisamente ridefinita una compensazione carbonica e ne è interdetto l’accesso ai suoi abitanti tradizionali. In conseguenza il mercato delle compensazioni delle emissioni ha creato un’intera nuova classe di violazioni “verdi” dei diritti umani, con agricoltori e indigeni aggrediti fisicamente da guardie dei parchi o da poliziotti privati quando cercano di accedere a tali terre. Il commento di Said a proposito degli abbracciatori di alberi andrebbe visto in questo contesto.

E c’è dell’altro. Nell’ultimo anno della vita di Said stava crescendo la cosiddetta “barriera di separazione” israeliana, sequestrando vaste aree della West Bank, tagliando fuori lavoratori palestinesi dal loro lavoro, contadini dai loro campi, pazienti dagli ospedali e dividendo brutalmente famiglie. Non c’era carenza di motivi per opporsi al muro sulla base dei diritti umani. Tuttavia all’epoca alcune delle voci dissenzienti più forti tra gli ebrei israeliani non erano concentrate su nulla di ciò. Yehudit Naot, allora ministro israeliano dell’ambiente, era più preoccupata per un rapporto che la informava che “La barriera di separazione … è dannosa per il paesaggio, la flora e la fauna, i corridoi ecologici e il drenaggio dei torrenti”. “Io certamente non voglio fermare o ritardare la costruzione della barriera”, disse lei, ma “sono turbata per il danno ambientale che essa comporta”. Come ha successivamente osservato l’attivista palestinese Omar Barghouti, “il ministero [della Naot] e l’Autorità Nazionale di Protezione dei Parchi ha montato diligenti sforzi di soccorso per salvare una riserva colpita di iris trasferendola in una riserva alternativa. Hanno anche creato minuscoli passaggi [attraverso il muro] per gli animali”.

Forse questo contestualizza il cinismo riguardo al movimento verde. Le persone tendono a diventare ciniche quando le loro vite sono trattate come meno importanti di quelle dei fiori e dei rettili. E tuttavia nell’eredità intellettuale di Said c’è moltissimo che sia illumina sia chiarisce le cause sottostanti la crisi ecologica globale, tantissimo che indica modi in cui potremmo reagire che sono molto più inclusivi dei modelli attualmente propagandati: modi che non chiedono a chi soffre di accantonare le sue preoccupazioni riguardo a guerra, povertà e razzismo sistemico e per prima cosa “salvare il mondo”, ma invece dimostrano come tutte queste crisi siano interconnesse e come potrebbero esserlo anche le soluzioni. In breve, Said può non aver avuto tempo per gli abbracciatori di alberi, ma gli abbracciatori di alberi devono trovare il tempo per Said – e per molti altri pensatori anti-imperialisti postcoloniali – perché senza quel sapere non c’è modo di capire come siamo finiti in questo posto pericoloso o di afferrare le trasformazioni necessarie per uscirne. Così quelli che seguono sono alcuni pensieri – assolutamente non completi – riguardo a che cosa possiamo imparare leggendo Said in un mondo in via di riscaldamento.

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Era e resta tra i più dolorosamente eloquenti teorici dell’esilio e della nostalgia, ma la nostalgia di Said, egli ha sempre chiarito, era per una casa che era stata così radicalmente alterata che in realtà non esisteva più. La sua posizione era complessa: egli difendeva fieramente il diritto ritorno ma non ha mai affermato che la casa era fissa. Quello che contava era il principio del rispetto ugualmente per tutti i diritti umani e la necessità che le nostre azioni e politiche fossero informate a una giustizia restaurativa. Questa ottica è profondamente rilevante nel nostro tempo di coste che si erodono, di nazioni che scompaiono sotto il crescente livello del mare, di barriere coralline che sostengono intere culture che finiscono sbiancate, di un Artico temperato. Questo è dovuto al fatto che la nostalgia per una patria radicalmente modificata – una casa che può non esistere più – è qualcosa che è rapidamente, e tragicamente, globalizzato. A marzo due importanti studi a revisione paritaria hanno avvertito che l’aumento del livello del mare potrebbe aver luogo in tempi considerevolmente più rapidi di quanto si pensasse in precedenza. Uno degli autori del primo studio è James Hansen, forse il più rispettato scienziato del clima del mondo. Ha avvertito che, proseguendo nell’attuale traiettoria delle emissioni, rischiamo la “perdita di tutte le città costiere, della maggior parte delle grandi città del mondo e di tutta la loro storia”, e non in migliaia di anni da oggi, bensì già entro questo secolo. Se non pretendiamo un cambiamento radicale siamo diretti a un intero mondo in cerca di una casa che non esiste più.

Said ci aiuta anche a immaginare come ciò potrebbe apparire. Ha contribuito a rendere popolare il termine arabo sumud (‘rimanere fermi, tenere duro’): quel risoluto rifiuto di lasciare la propria terra nonostante i più disperati tentativi di cacciata e persino quando circondati da un pericolo continuo. E’ una parola prevalentemente associata a luoghi come Hebron e Gaza, ma potrebbe essere ugualmente applicata oggi a residenti della Louisiana costiera che hanno eretto le loro case su palafitte in modo da non dover evacuare, o agli isolani del Pacifico il cui slogan è “Non stiamo annegando. Stiamo lottando”. In paesi come le Isole Marshall e Fiji e Tuvalu sanno che sarà inevitabile un aumento del livello del mare tale che i loro paesi probabilmente non hanno futuro. Ma si rifiutano di interessarsi della logistica del reinsediamento e non lo farebbero nemmeno se ci fossero paesi più sicuri che aprissero loro i confini, un grosso ‘se’, visto che i profughi climatici attualmente non sono riconosciuti dalla legge internazionale. Invece stanno resistendo attivamente: bloccando le navi carboniere australiane con tradizionali canoe a bilanciere, disturbando i negoziati internazionali sul clima con la loro scomoda presenza, pretendendo interventi sul clima molto più aggressivi. Se c’è qualcosa che merita di essere festeggiato nell’Accordo di Parigi firmato ad aprile – e, tristemente, non ce n’è abbastanza – è il risultato di questa azione di principio: sumudclimatico.

Ma questo sfiora appena la superficie di quello che possiamo imparare leggendo Said in un mondo che si sta riscaldando. Egli è stato, naturalmente, un gigante dello studio dell’”alterizzazione” [‘othering’ nell’originale, ‘rendere altri’ – n.d.t.], ciò che è descritto in Orientalism come ‘ignorare, minimizzare, denudare l’umanità di un’altra cultura, popolazione o regione geografica”. E una volta che l’altro è fermamente consolidato [come tale, come estraneo – n.d.t.] è preparato il terreno per qualsiasi trasgressione: espulsione violenta, rapina della terra, occupazione, invasione. Poiché tutta la questione dell’alienizzazione è che l’altro non ha gli stessi diritti, la stessa umanità, di quelli che operano la distinzione. Che cosa ha a che fare questo con il cambiamento climatico? Forse tutto.

Abbiamo già riscaldato pericolosamente il nostro mondo e i nostri governi continuano a rifiutarsi di assumere le iniziative necessarie per fermare la tendenza. C’è stato un tempo in cui molti avevano il diritto di rivendicare l’ignoranza. Ma negli ultimi tre decenni, da quando è stato creato il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico e sono iniziati i negoziati, questo rifiuto di ridurre le emissioni si è accompagnato alla piena consapevolezza dei pericoli. E questo genere di avventatezza sarebbe stato funzionalmente impossibile senza il razzismo istituzionale, anche se solo latente. Sarebbe stato impossibile senza l’Orientalismo, senza gli strumenti potenti in offerta che consentono ai potenti di ignorare le vite dei meno potenti. Questi strumenti – di classificazione del valore relativo degli esseri umani – sono ciò che consente di cancellare intere nazioni e antiche culture. E, tanto per cominciare, sono ciò che ha consentito di scavar fuori tutto quel carbonio.

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I combustibili fossili non sono la sola causa del cambiamento climatico – ci sono anche l’agricoltura industriale e la deforestazione – ma sono quella maggiore. E la questione a proposito dei combustibili fossili è che sono così intrinsecamente sporchi e tossici che necessitano di persone e luoghi sacrificali: persone i cui polmoni e corpi possono essere sacrificati al lavoro nelle miniere di carbone, persone le cui terre e acqua possono essere sacrificate a miniere a cielo aperto e a fuoruscite di petrolio. Già negli anni ’70 gli scienziati che consigliavano il governo statunitense si riferivano a certe parti del paese designate come “aree nazionali di sacrificio”. Si pensi alle montagne degli Appalachi, fatte saltare in aria per l’estrazione di carbone, perché l’estrazione del carbone mediante la cosiddetta “rimozione delle vette montane” è meno costosa che scavare buche sottoterra. Devono esserci teorie di alterizzazione per giustificare il sacrificio di un’intera geografia, teorie riguardo al fatto che la gente che ci vive è così povera e arretrata che la sua vita e cultura non merita protezione. Dopotutto, se si è un ‘montanaro’ chi si cura delle tue alture? Anche trasformare tutto quel carbone in elettricità ha richiesto un altro livello di alterizzazione: questa volta dei quartieri urbani prossimi alle centrali elettriche e alle raffinerie. Nell’America del Nord si tratta prevalentemente di comunità di colore, nere e latinoamericane, costrette a sopportare il fardello tossico della nostra dipendenza collettiva di combustibili fossili, con percentuali marcatamente più elevate di malattie polmonari e di tumori. E’ stato in lotte contro questo genere di “razzismo ambientale” che è nato il movimento per la giustizia climatica.

Le zone sacrificate ai combustibili fossili punteggiano il globo. Si prenda il delta del Niger, avvelenato ogni anno da fuoruscite di petrolio pari a una Exxon Valdez, un processo che Ken Saro-Wiwa, prima di essere assassinato dal suo governo, chiamava ‘genocidio ecologico’. Le esecuzioni di leader comunitari, affermava, erano ‘tutte per la Shell’. Nel mio paese, il Canada, la decisione di scavare le sabbie bituminose dell’Alberta – una forma di petrolio particolarmente pesante – ha reso necessario stracciare trattati con le Prime Nazioni, trattati firmati con la Corona Britannica che garantivano ai popoli indigeni il diritto di continuare a cacciare, pescare e vivere in modo tradizionale nelle loro terre ancestrali. E’ stato necessario perché questi diritti sono privi di significato quando la terra è dissacrata, quando i fiumi sono inquinati e quando gli alci e i pesci sono devastati da tumori. E le cose peggiorano: Fort McMurray – la cittadina al centro del boom delle sabbie bituminose, in cui vivono molti dei lavoratori e dove si spende gran parte del denaro – è attualmente in una fornace infernale. E’ così calda e così asciutta. E questo ha qualcosa a che fare con ciò che viene estratto lì.

Anche senza simili eventi drammatici questo tipo di estrazione di risorse è una forma di violenza perché procura così tanti danni alla terra e all’acqua che determina la fine di un modo di vivere, la morte di culture che sono inseparabili dalla terra. Tagliare il rapporto dei popoli indigeni con la loro cultura era politica statale in Canada, imposta mediante l’allontanamento dei bambini indigeni dalle loro famiglie in collegi dove erano vietate la loro lingua e le loro pratiche culturali e dove erano rampanti le violenze fisiche e sessuali. Un recente rapporto per la verità e la riconciliazione l’ha definito ‘genocidio culturale’. Il trauma associato a questi livelli di separazione forzata – dalla terra, dalla cultura, dalla famiglia – è direttamente collegato all’epidemia di disperazione che devasta oggi così tante comunità delle Prime Nazioni. In un solo sabato sera di aprile, nella comunità di Attawapiskat – popolazione 2.000 abitanti – 11 persone hanno tentato di togliersi la vita. Nel frattempo la DeBeers gestisce una miniera di diamanti nel territorio tradizionale della comunità; come tutti i progetti estrattivi, aveva promesso speranza e opportunità: ‘Perché questa gente semplicemente non se ne va?’ si chiedono politici e guru. Ma molti lo fanno. E la partenza è collegata, in parte, alle migliaia di donne indigene in Canada che sono state assassinate o sono scomparse, spesso in grandi città. La stampa raramente opera il collegamento tra la violenza contro le donne e la violenza contro la terra – spesso per estrarre combustibili fossili – ma esso esiste. Ogni nuovo governo sale al potere promettendo una nuova era di rispetto per i diritti degli indigeni. Promesse non mantenute, perché i diritti degli indigeni, come definiti dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, includono il diritto di rifiutare progetti di estrazione, anche quando tali progetti alimentano l’economia nazionale. E questo è un problema perché la crescita è la nostra religione, il nostro modo di vivere. Così persino l’aitante e seducente nuovo primo ministro del Canada è vincolato e deciso a costruire nuovi oleodotti delle sabbie bituminose, contro i desideri manifesti delle comunità indigene che non vogliono mettere a rischio la loro acqua o partecipare all’ulteriore destabilizzazione del clima.

I combustibili fossili richiedono zone sacrificali; l’hanno sempre fatto. E non si può avere un sistema costruito su zone sacrificali e persone sacrificali a meno che esistano e persistano teorie intellettuali che giustificano il loro sacrificio: dal Destino Manifesto alla Terra Nullius all’Orientalismo, da montanari arretrati agli arretrati indiani. Spesso sentiamo dire che del cambiamento climatico è colpevole la ‘natura umana’, l’intrinseca avidità e miopia della nostra specie. O ci è detto che abbiamo modificato così tanto la terra e su scala talmente planetaria che oggi stiamo vivendo nell’Antropocene, l’età degli umani. Questi modi di spiegare la nostra situazione attuale hanno un significato molto specifico, anche se non dichiarato: che gli esseri umani sono di un tipo unico, che la natura umana può essere ridotta ai tratti che hanno creato questa crisi. In questo modo i sistemi che certi umani hanno creato e cui altri umani si oppongono con forza sono completamente scagionati. Capitalismo, colonialismo, patriarcato, questi tipi di sistema. Diagnosi come questa cancellano l’esistenza stessa di sistemi umani che hanno organizzato la vita in modo differente: sistemi che insistono che gli umani devono pensare guardando a sette generazioni nel futuro; devono essere non solo buoni cittadini ma anche buoni antenati; devono prendere non più di quanto hanno bisogno e restituire alla terra al fine di proteggere ad accrescere i cicli di rigenerazione. Questi sistemi sono esistiti ed esistono tuttora, ma sono cancellati ogni volta che diciamo che la crisi climatica è una crisi di “natura umana” e che stiamo vivendo nell’”era dell’uomo”. E finiscono sotto un attacco molto reale quando si costruiscono megaprogetti, come le dighe idroelettriche di Gualcarque in Honduras, un progetto che, tra l’altro, ha tolto la vita alla paladina della terra Berta Càceres, assassinata a marzo.

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Alcuni insistono che le cose non devono essere necessariamente così brutte. Possiamo rendere pulita l’estrazione di risorse, non occorre che la pratichiamo nel modo in cui è stata praticata in Honduras e nel delta del Niger e nelle sabbie bituminose di Alberta. Salvo che siamo a corto di modi economici e facili per ottenere combustibili fossili il che, tanto per cominciare, è il motivo per cui abbiamo visto l’ascesa della fratturazione idraulica e dell’estrazione dalle sabbie bituminose. Ciò, a sua volta, sta cominciando a contestare l’originale patto faustiano dell’era industriale: che i maggiori rischi sarebbero esternalizzati, scaricati sull’altro, sulla periferia estera e all’interno delle nostre stesse nazioni. E’ qualcosa che sta diventando sempre meno possibile. La fratturazione idraulica sta minacciando alcune delle parti più pittoresche della Gran Bretagna con l’espandersi delle zone sacrificate, ingoiando ogni sorta di luoghi che si immaginavano sicuri. Dunque non si tratta semplicemente di sussultare per quanto cattive sono le sabbie bituminose. Si tratta di riconoscere che non esiste un modo pulito, sicuro, non tossico di gestire un’economia alimentata da combustibili fossili. Non c’è mai stato.

C’è una valanga di prove che non esiste neppure un modo pacifico. Il problema è strutturale. I combustibili fossili, diversamente da forme rinnovabili di energia quali quella eolica e quella solare, non sono distribuiti diffusamente ma sono fortemente concentrati in luoghi molto specifici e tali luoghi hanno la cattiva abitudine di trovarsi in paesi altrui. Particolarmente il più potente e prezioso dei combustibili fossili: il petrolio. Questo è anche il motivo per cui il progetto dell’Orientalismo, di alterizzare popoli arabi e mussulmani, è stato dall’inizio il socio silente della nostra dipendenza dal petrolio, e inestricabile, perciò, da quel contraccolpo che è il cambiamento climatico. Se nazioni e popoli sono considerati come altri – esotici, primitivi, assetati di sangue, come documentò Said negli anni ’70 – è molto più facile scatenare guerre e attuare colpi di stato quando si fanno prendere dalla matta idea che dovrebbero controllare il proprio petrolio nel proprio interesse. Nel 1953 fu la collaborazione anglo-statunitense che rovesciò il governo democraticamente eletto di Muhammad Mossadeq dopo che aveva nazionalizzato la Anglo-Iranian Oil Company (oggi BP). Nel 2003, esattamente cinquant’anni dopo, c’è stata una nuova coproduzione USA-UK: l’invasione e l’occupazione illegali dell’Iraq. Le ripercussioni di ciascun intervento continuano a turbare il nostro mondo, così come le ripercussioni del consumo riuscito di tutto quel petrolio. Il Medio Oriente è oggi schiacciato tra le chele della violenza causata dai combustibili fossili, da un lato, e dall’impatto del consumo di tali combustibili fossili, dall’altro.

Nel suo libro più recente ‘The Conflict Shoreline’ [La costa del conflitto], l’architetto israeliano Eyal Weizman ha un punto di vista pionieristico su come queste forze s’intersecano. Il modo principale in cui abbiamo interpretato il confine del deserto nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord, spiega, è la cosiddetta ‘linea dell’aridità’, aree in cui ci sono in media 200 millimetri di precipitazioni l’anno, che sono stati considerati il minimo per coltivare raccolti di cereali su larga scala senza irrigazione. Questi confini metereologici non sono fissi: sono fluttuati per vari motivi, che siano stati i tentativi israeliani di ‘rendere verde il deserto’ spingendoli in una direzione o siccità cicliche che hanno ampliato il deserto nell’altra. E oggi, con il cambiamento climatico, l’intensificazione delle siccità può avere ogni sorta di impatti lungo questa linea. Weizman indica che la città siriana di confine di Daraa ricade direttamente sulla linea dell’aridità. Daraa è dove la più grave siccità siriana della storia ha portato enormi numeri di agricoltori messi in fuga negli anni che hanno portato allo scoppio della guerra civile siriana, ed è dove è scoppiata la rivolta siriana nel 2011. La siccità non è stata il solo fattore che ha portato le tensioni al limite. Ma il fatto che 1,5 milioni di persone erano sfollate internamente in Siria in conseguenza della siccità ha chiaramente avuto un ruolo. Il collegamento tra tensioni idriche e metereologiche e conflitti è uno schema ricorrente in intensificazione lungo l’intera linea dell’aridità: lungo essa si vedono luoghi contrassegnati da siccità, scarsità d’acqua, temperature torride e conflitti militari, dalla Libia alla Palestina, ad alcuni dei più sanguinari campi di battaglia in Afghanistan e in Pakistan.

Ma Weizman ha anche scoperto quella che chiama una ‘sorprendente coincidenza’. Quando si traccia una mappa degli attacchi occidentali di droni nella regione si vede che ‘molti di questi attacchi – dal Waziristan meridionale allo Yemen del nord, alla Somalia, al Mali, all’Iraq, a Gaza e alla Libia – sono direttamente sulla linea dell’aridità dei 200 millimetri o in prossimità di essa.’ I punti rossi sulla mappa di seguito rappresentano alcune delle aree in cui gli attacchi sono stati concentrati. Per me questo è il tentativo più impressionante di visualizzare il brutale paesaggio della crisi climatica. Tutto questo era stato presagito un decennio fa in un rapporto dell’esercito statunitense. ‘Il Medio Oriente’, osservava, ‘è sempre stato associato a due risorse naturali: il petrolio (a causa della sua abbondanza) e l’acqua (a causa della sua scarsità)’. Decisamente vero. E ora certi schemi sono diventati molto chiari: prima i caccia bombardieri occidentali seguivano quell’abbondanza di petrolio; ora i droni occidentali stanno seguendo da vicino la mancanza di acqua, con la siccità che esacerba i conflitti.

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Proprio come le bombe seguono il petrolio e i droni seguono la siccità, così le imbarcazioni seguono entrambi; imbarcazioni piene di profughi che abbandonano le loro case nella linea dell’aridità devastata da guerre e siccità. E la stessa capacità di de-umanizzare l’altro che ha giustificato le bombe e i droni è oggi esercitata su questi migranti, dipingendo il loro bisogno di sicurezza come una minaccia alla nostra, la loro fuga disperata come una specie di esercito invasore. Tattiche affinate nella West Bank e in altre zone di occupazione stanno ora facendosi strada in America del Nord e in Europa. Nel promuovere il suo muro sul confine con il Messico, Donald Trump ama dire: “Chiedetelo a Israele; il muro funziona”. Accampamenti sono rasi al suolo da bulldozer a Calais; migliaia di persone annegano nel Mediterraneo e il governo australiano detiene sopravvissuti a guerre e regimi dispotici in campi nelle remote isole di Nauru e Manus. A Nauru le condizioni sono così disperate che il mese scorso un migrante iraniano è morto dopo essersi dato fuoco per cercare di attirare l’attenzione del mondo. Un’altra migrante – una ventunenne somala – si è data fuoco pochi giorni dopo. Malcom Turnbull, il primo ministro, avverte che gli australiani ‘non possono avere gli occhi velati di lacrime al riguardo’ e che ‘dobbiamo essere chiarissimi e determinati nel nostro obiettivo nazionale’. Merita di tener presente Nauru la prossima volta che un giornalista di un giornale di Murdoch dichiara, come ha fatto Katie Hopkins l’anno scorso, che è ora che la Gran Bretagna ‘diventi australiana. Mandi gli elicotteri d’assalto, costringa i migranti a tornare alle loro coste e bruci le barche’. In un altro po’ di simbolismo Nauru è una delle isole del Pacifico molto vulnerabile all’innalzamento del livello del mare. I suoi residenti, dopo aver visto le loro case diventare carceri per altri, probabilmente dovranno emigrare anche loro. I profughi climatici di domani sono stati reclutati in servizio come guardie carcerarie di oggi.

Dobbiamo capire che quello che sta succedendo nell’isola di Nauru e quello che sta succedendo all’isola stessa sono espressioni della stessa logica. Una cultura che riconosce così scarso valore alle vite dei neri e dei marrone da essere disposta a lasciare che esseri umani scompaiano sotto le onde o si diano fuoco in campi di detenzione, sarà anche disposta a lasciare che scompaiano sotto le onde anche i paesi in cui vivono i neri e i marrone, o che si dissecchino nel calore arido. Quando ciò accadrà, teorie di gerarchie umane – che dobbiamo innanzitutto preoccuparci di noi stessi – saranno schierate per rendere razionali queste decisioni mostruose. Stiamo già procedendo a una simile razionalizzazione, anche se solo implicitamente. Anche se il cambiamento climatico alla fine costituirà una minaccia esistenziale per l’intera umanità, nel breve termine sappiamo che effettivamente discrimina, colpendo per primi e peggio i poveri, che siano abbandonati sui tetti di New Orleans durante l’Uragano Katrina o che siano tra i 36 milioni che secondo l’ONU soffrono la fame nell’Africa Orientale e Meridionale a causa della siccità.

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Questa è un’emergenza; un’emergenza attuale, non futura, ma non stiamo agendo come se lo fosse. L’Accordo di Parigi impegna a mantenere il riscaldamento sotto i 2 gradi centigradi. E’ un obiettivo più che sconsiderato. Quando è stato rivelato a Copenhagen nel 2009 i delegati africani lo hanno definito “una condanna a morte”. Lo slogan di numerose nazioni isolane basse è “1,5 per restare vivi”. All’ultimo minuto all’Accordo di Parigi è stata aggiunta una clausola che afferma che perseguiremo “tentativi di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi centigradi”. Non solo non è vincolante, ma è una menzogna; non stiamo compiendo alcun tentativo simile. I governi che hanno fatto questa promessa stanno ora premendo per ulteriore sfruttamento della fratturazione idraulica e delle sabbie bituminose, il che è del tutto incompatibile con 2 gradi centigradi, per non parlare di 1,5. Questo sta succedendo perché i più ricchi delle nazioni più ricche del mondo pensano che se la caveranno, che qualcun altro dovrà subire i rischi maggiori, che persino quando il cambiamento climatico si presenterà alle loro porte qualcuno si prenderà cura di loro.

Quando le cose sono sbagliate non fanno che peggiorare. Abbiamo avuto un sentore di quel futuro quando ci sono state le alluvioni in Inghilterra a dicembre e a gennaio scorsi, che hanno inondato 16.000 abitazioni. Questa comunità non stavano solo affrontando il dicembre più piovoso della storia. Dovevano anche fare i conti con il fatto che il governo aveva scatenato un attacco incessante alle agenzie pubbliche e ai consigli comunali locali che sono la linea del fronte della difesa dalle alluvioni. Così, comprensibilmente, ci sono stati molti che volevano cambiare argomento rispetto a quel fallimento. Perché, hanno chiesto, la Gran Bretagna sta spendendo tanti soldi per i profughi e gli aiuti all’estero quando dovrebbe prendersi cura di sé stessa? “Lasciamo perdere gli aiuti all’estero”, leggiamo sul Daily Mail, “E gli aiuti nazionali?” “Perché”, si chiedeva un editoriale del Telegraph, “i contribuenti britannici dovrebbero continuare a pagare per la difesa dalle inondazioni all’estero quando i soldi servono qui?”. Non lo so; forse perché la Gran Bretagna ha inventato il motore a vapore alimentato a carbone e ha bruciato combustibili fossili su scala industriale più a lungo di qualsiasi altra nazione del pianeta? Ma sto divagando. Il punto è che questo avrebbe potuto essere un momento per capire che siamo tutti colpiti dal cambiamento climatico e dobbiamo agire insieme e in solidarietà reciproca. Non è stato così, perché il cambiamento climatico non è solo questione di più caldo o più umido: nell’attuale modello economico e politico è questione che le cose stanno diventando sempre più meschine e più violente.

La lezione più importante che ricaviamo da tutto questo è che non c’è modo di far fronte alla crisi climatica in isolamento, considerandola un problema tecnocratico. La crisi deve essere vista nel contesto dell’austerità e delle privatizzazioni, del colonialismo e del militarismo e dei vari sistemi di alterizzazione necessari per sostenerli tutti. I collegamenti e le intersezioni tra essi sono evidenti e tuttavia la resistenza a essi è spesso fortemente compartimentata. Gli oppositori dell’austerità raramente parlano del cambiamento climatico, quelli che si occupano del cambiamento climatico raramente parlano di guerre o occupazioni. Raramente operiamo collegamenti tra le armi che spengono vite di neri nelle strade di città statunitensi e sotto custodia della polizia e le forze molto più vaste che cancellano così tante vite di neri su terre aride e in imbarcazioni precarie in tutto il mondo.

Superare questa assenza di collegamenti – rafforzando i fili che legano insieme i vari temi e movimenti – è, sosterrei, il compito più pressante di chiunque sia interessato alla giustizia sociale ed economica. E’ il solo modo per costruire un contropotere sufficientemente robusto per vincere contro le forze che proteggono lo status quo fortemente redditizio ma sempre più insostenibile. Il cambiamento climatico agisce da acceleratore di molti dei nostri mali sociali – disuguaglianza, guerre, razzismo – ma può anche essere un acceleratore del contrario, delle forze che operano a favore della giustizia economica e sociale e contro il militarismo. In effetti la crisi del clima – costituendo una minaccia esistenziale per la nostra specie e ponendoci di fronte a una scadenza ferma e intransigente basata sulla scienza – potrebbe giusto essere il catalizzatore di cui abbiamo bisogno per unire molti movimenti potenti, legati dalla convinzione del valore intrinseco di tutte le persone e uniti da un rifiuto della mentalità delle zone sacrificabili, che si applichi a persone o a luoghi. Abbiamo di fronte così tante crisi che si sovrappongono e si intersecano che non possiamo permettersi di risolverle una alla volta. Abbiamo bisogno di soluzioni integrate, soluzioni che abbattano radicalmente le emissioni creando contemporaneamente un gran numero di buoni posti di lavoro sindacalizzati e garantendo una giustizia significativa ai più violati ed esclusi nell’attuale economia estrattiva.

Said è morto nell’anno in cui l’Iraq è stato invaso, vivendo abbastanza per vedere le sue librerie e i suoi musei saccheggiati, il suo ministero del petrolio fedelmente protetto. In mezzo a questi oltraggi ha trovato speranza nel movimento globale contro la guerra e in nuove forme di comunicazione della base aperte dalla tecnologia; ha segnalato “l’esistenza di comunità alternative in tutto il pianeta, informate attraverso notiziari alternativi e intensamente consapevoli dei diritti ambientali e umani e di impulsi libertari che ci legano insieme in questo minuscolo pianeta!” La sua visione aveva un posto anche per gli abbracciatori di alberi. Queste parole mi sono state ricordate recentemente mentre mi stavo documentando sulle inondazioni in Inghilterra. In mezzo a tutto l’additamento di capri espiatori e a tutti i diti puntati, mi sono imbattuta in un post di un uomo di nome Liam Cox. Era sconvolto per il modo in cui alcuni nei media stavano sfruttando il disastro per istigare sentimenti xenofobi e ha detto questo:

Vivo a Hebden Bridge, Yorkshire, una delle aree maggiormente colpite dalle inondazioni. E’ merda, tutto è diventato davvero inzuppato. Comunque … sono vivo. Sono al sicuro. La mia famiglia è al sicuro. Non viviamo nella paura. Sono libero. Non ci sono pallottole che volano in giro. Non ci sono bombe che scoppiano. Non sono costretto ad abbandonare la mia casa e non sono svillaneggiato dalla nazione più ricca del mondo o criticato dai suoi residenti.

Tutti voi deficienti che vomitate la vostra xenofobia … a proposito di come i soldi dovrebbero essere spesi solo “a casa nostra” dovete guardarvi attentamente allo specchio. Vi chiedo di porvi una domanda molto importante … sono un essere umano decente e onorevole? Perché la patria non è solo il Regno Unito; la patria è dappertutto su questo pianeta.

Penso che valga come un’ottima ultima parola.

 

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/let-them-drown/

Originale: London Review of Books

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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