Testimonianza campo lavoro in Palestina

Set 15, 2014 | Campi di lavoro, Notizie

Testimonianza breve dell’esperienza di Maria Francesca Giordano in Palestina 

Agosto 2014

Una settimana fa tornavo dalla Palestina. Nei giorni scorsi ho incontrato tanti amici e familiari a cui ho raccontato della mia esperienza in quei territori, ma ogni volta avevo la sensazione di non aver detto abbastanza, di non aver fatto capire appieno le situazioni che avevo vissuto e la drammaticità delle storie che mi erano state raccontate. Un’amica mi ha consigliato di scrivere un resoconto di questo viaggio e pubblicarlo. Inizialmente mi sembrava solo una bella idea, ma non osavo farlo o credevo non interessasse a nessuno, poi è diventata un’esigenza e un’urgenza quella di raccontare perchè vorrei che davvero tutti sapessero cosa ho visto, imparato e vissuto in 10 giorni in Palestina, e se non tutti spero almeno di raggiungere e rendere più cosciente qualcuno di voi.

In 10 giorni io ed altri ragazzi italiani e palestinesi che non conoscevo ed ora considero amici abbiamo girato tantissimo, incontrato persone di tutte le età, responsabili di associazioni palestinesi, abbiamo visitato luoghi bellissimi, ma crudelmente ingabbiati e ogni luogo, ogni persona, ogni associazione erano una storia diversa. Purtroppo erano anche tutte la stessa storia di violenza, segregazione e regime militare di apartheid. No, non sto esagerando. L’ho semplicemente e crudelmente visto. A Betlemme, all’Aida Camp, dove il sabato mattina l’aria era irrespirabile per la puzza della “skunk water” usata dai militari israeliani per disperdere la folla. Un odore che spero nessuno senta mai e che invece permane nelle case dei Palestinesi per giorni e giorni.

A Hebron dove i Palestinesi non possono nemmeno camminare in alcune zone della città e per raggiungere la loro moschea devono passare attraverso un checkpoint, due tornelli e un controllo dei militari israeliani perchè la strada principale della città è stata chiusa come anche tutti i negozi che si trovavano lì causando l’ovvio trasferimento di migliaia di Palestinesi che non potevano più esercitare la loro attività commerciale e, conseguentemente, mantenere loro stessi e le loro famiglie. E ogni negozio sprangato di Shuhada street così come ogni casa abitata da Palestinesi è marchiato con la stella di David come segno di spregio e rivendicazione di una proprietà che però è stata tolta ad altri. Hebron è divisa in due e attraversare il checkpoint dalla parte israeliana a quella palestinese (checkpoint peraltro ora chiuso in seguito agli scontri delle ultime manifestazioni, ciò implica che i bambini non possono andare a scuola e nessuno si può spostare) è un’esperienza scioccante e si ha la sensazione di arrivare quasi in un altro Paese tanta è la discrepanza in termini di ricchezza e stile di vita fra un lato e l’altro. A Hebron in alcuni luoghi il cielo non si può vedere perchè, se si vogliono guardare le stelle, bisogna anche accettare le pietre e l’immondizia che i coloni israeliani tirano dalle loro case su quelle dei palestinesi e sul loro mercato così il cielo viene sostituito dalle più protettive reti metalliche e teli di plastica.

Abbiamo provato la violenza a Bel’in, un piccolo villaggio a ridosso del muro, dove ci sono state tirate bombe sonore e lacrimogeni per il solo essere lì vicino a quel muro insieme agli abitanti (donne e bambini compresi) per ripulire i loro terreni da tutti i candelotti e i piccoli ordigni lanciati dai militari israeliani nei mesi precedenti. Abbiamo lavorato per 10 minuti in tranquillità, senza urlare alcuno slogan, senza insulti o atti violenti e poi è arrivato il primo botto, poi il primo lacrimogeno e poi il secondo, il terzo e poi smetti di contarli perchè non credi a quello che stai vedendo, perchè pensi che semplicemente non ci sia una ragione, perchè non capisci e ti aspetti che quindi smettano. Ma non smettono, fino a quando non te ne vai, incuranti di tutto: delle donne,dei bambini, dei ragazzi e degli uomini che cercano di spiegarsi con la maglia alzata per mostrare che non sono armati:”Non stiamo facendo nulla di male, stiamo solo pulendo, che cosa fate? Sono ragazzi, sono internazionali”. Niente. Te ne devi andare. Non c’è possibilità di ribattere. I lacrimogeni e le bombe sonore devono restare in mezzo ai campi. E la cosa più brutta forse è vedere che 3 minuti dopo l’accaduto i bambini che prima scappavano piangendo dal muro stanno saltando sul tappeto elastico del loro piccolo parco giochi e realizzare come tutto questo per loro sia normale. Abbiamo visto il muro che ha diviso villaggi e tolto terreni coltivabili alla popolazione, i checkpoint che i Palestinesi devono attraversare a piedi sottoponendosi a infiniti controlli anche solo per andare a lavorare o a scuola (e non tutti possono attraversarli).
Abbiamo conosciuto ragazzi di 18 anni che non hanno mai visto il mare perchè non possono andarci, ma sono già stati arrestati o malmenati almeno un paio di volte dai militari israeliani.
E abbiamo visto altri ragazzi di 18 anni, con l’apparecchio ai denti e il mitra a tracolla e pensavamo che erano più piccoli di noi, che potevano essere quelli dall’altra parte dal muro che lanciavano i lacrimogeni e realizzavamo che erano gli stessi ragazzi accanto ai quali avevamo bevuto e ballato in un qualsiasi pub di Gerusalemme centro. Nessuno di loro aveva scritto in fronte: “Sono un soldato”, ma lo erano tutti ed era inquietante non vedere alcun segno di questa esperienza nei loro volti.

E abbiamo visto il New Askar Camp a Nablus, 7000 persone in un chilometro quadrato, le capre nelle case e le tombe nei kindergarden, perchè gli animali gli servono e i loro morti li devono seppellire, ma non hanno lo spazio. Dalla finestra di una casa potevamo toccare quella vicino, la privacy è un lusso che nessuno si può permettere.

E nonostante tutto questo, la Palestina ci ha fatto innamorare tutti: i bambini che ti corrono incontro nelle strade salutandoti e chiedendoti una foto, i vecchi che ti offrono il tè anche se l’acqua che hanno a disposizione è pochissima, famiglie che ti fanno entrare in casa loro e offrono il pranzo a 35 persone, uomini che ogni giorno da anni subiscono violenze e ingiustizie che ti dicono che tu e quel gruppo di ragazzi italiani che sono con te siete i migliori perchè avete scelto di fare quell’esperienza e potete raccontarla ad altri. Abbiamo visto la Palestina che resiste, che non si rassegna a vivere nei campi profughi, che non si dimentica; famiglie che conservano le chiavi delle case da cui sono stati scacciati nei quasi 70 anni di occupazione israeliana, ragazzi che hanno il coraggio di mettersi davanti ai lacrimogeni e rispedirli oltre il muro. Ci sono associazioni in ogni villaggio che organizzano attività per bambini e ragazzi, cercando di diventare per loro un sostegno e punto di sfogo; ragazzi armati di telecamere che documentano i quotidiani soprusi a cui sono sottoposti per difendersi da false accuse, ma soprattutto per cercare di informare più persone possibili.

Abbiamo visto la forza che c’è dovunque: oltre le bombe, oltre l’occupazione, oltre l’ingiustizia e ci siamo innamorati, Non poteva andare diversamente.

Ora, nelle mia casa tranquilla e sicura, la Palestina mi manca e un po’ mi sento in colpa per scrivere dalla mia tranquillità e sicurezza.

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