“Dovremmo essere scioccati”: un rigoroso film di Michael Winterbottom in onore dei bambini morti di Gaza

Mag 2, 2022 | Notizie

di Catherine Shoard,

The Guardian, 28 aprile 2022. 

“Eleven Days in May” racconta le storie delle più giovani vittime del conflitto dello scorso anno con Israele. I suoi autori sperano che la semplicità della narrazione restituisca la realtà della guerra.

“Non riesci mai a superare questo tipo di perdite”… alcuni membri perduti della famiglia

Due anni e mezzo fa, Michael Winterbottom iniziò un anno sabbatico. Si sentiva ferito per aver perso il controllo della versione definitiva di Greed, la sua satira su un personaggio alla Philip-Green, interpretato da Steve Coogan. Pensava che la produzione aveva sabotato l’impatto del film annacquandone il messaggio. Winterbottom voleva didascalie sui titoli di coda, che spiegassero quanto sono ricchi i magnati della moda nella vita reale e quanto poco pagano i loro lavoratori. Il capo della Sony si oppose. La verità, a quanto pare, non poteva essere trattata.

Il periodo sabbatico di Winterbottom non è durato a lungo, ma il suo impegno per i fatti più che per la finzione si è solo rafforzato. In primo luogo, ha scritto un libro, Dark Matter: Independent Filmmaking in the 21st Century. Contiene conversazioni con altri registi britannici sulle realtà del settore, con la trascrizione delle registrazioni, senza spazio per interpretazioni errate.

Poi ha iniziato a lavorare a This Sceptered Isle, una miniserie sui primi sei mesi della pandemia nel Regno Unito, raccontata attraverso le esperienze di persone reali. È in arrivo su Sky a settembre. Kenneth Branagh interpreta Boris Johnson. Winterbottom è preoccupato di essere stato un po’ troppo debole con lui – il senno di poi, in questo caso, è stato il vero punto di svolta.

Ma, sottolinea, lo spettacolo è il più diretto e originale possibile. Nessuna nuova rivelazione, nessuna speculazione radicale. “È molto neutrale. Quasi un diario. Una registrazione di qualcosa che tutti abbiamo vissuto”, mi dice Winterbottom durante una videochiamata.

“Queste persone sono per natura gentili e accoglienti.”

Ora sta per uscire qualcosa di strutturalmente simile. Eleven Days in May è un documentario sui bambini uccisi a Gaza durante il bombardamento di 11 giorni fatto da Israele lo scorso maggio. Almeno 60 delle quasi 200 vittime palestinesi erano bambini, ma la cifra esatta è impossibile da verificare. Il film si apre con le riprese della BBC News degli attacchi aerei –del tipo ben noto agli spettatori, “ma che poi tendono a dimenticare”, dice Winterbottom– e poi ripercorre il conflitto in ordine cronologico, raccontando allo spettatore i bambini morti ogni giorno, per mezzo di interviste con 28 famiglie.

Kate Winslet è la voce fuori campo, Max Richter fornisce la colonna sonora. Ma tutti e due si limitano allo stretto necessario. Tutto è spartano, rispettoso e sconvolgente.

“Volevamo fosse il più semplice possibile, quasi come un album fotografico”, dice Winterbottom. “Il formato non aveva lo scopo di dare un taglio drammatico o emotivo. Ma spero che accumuli gradualmente una sorta di potere emotivo e dia un giusto spazio ad ogni famiglia”.

Winterbottom ha avuto l’idea per il film e ha montato il filmato, che è stato girato in collegamento con Mohammed Sawwaf, un regista locale, con cui ho parlato attraverso un video e tramite un interprete nel suo ufficio sulla Striscia di Gaza.

“È difficile sentire per il rumore costante, il traffico e gli infiniti blip di Internet (spedire per e-mail il materiale girato nel Regno Unito è stata un’impresa epica)”, dice Sawwaf. “Questo edificio,” aggiunge indicando intorno, “è uno dei pochi nell’isolato non ancora raso al suolo e ricostruito.”

“Inizialmente, la maggior parte delle famiglie si è rifiutata di partecipare”, afferma Sawwaf. “C’è voluta molta persuasione”. Ma poi le famiglie si sono consultate l’una con l’altra e Sawwaf ha detto a ciascuna di loro: “Tuo figlio non è un numero. Dovresti mostrare al mondo che questi sono esseri umani che avevano le loro aspirazioni e che hanno cessato di esistere.”

Nel film non sentiamo né vediamo Sawwaf, solo i parenti in lutto, compresi i momenti in cui si ricompongono prima di parlare: genitori e nonni che fissano l’obiettivo; bambini che si muovono incerti, a volte ridacchiando, a volte asciugandosi le lacrime.

Sawwaf è rimasto stupito dalla resilienza dei genitori: “Il rifiuto di ricordare i propri figli con colori cupi. Se, Dio non voglia, fossi nei loro panni, non avrei il coraggio di parlare».

Guarda il trailer del film

Sembrano straordinariamente privi di rabbia, dico. “Queste persone sono per natura gentili e accoglienti”, afferma Sawwaf. “Stanno parlando dei loro figli persi a causa della violenza. Hanno apprezzato che le loro vite venissero commemorate”. Si ferma. “Ma, anche, le morti sono costate loro molto. Si sentono a pezzi, così sfiniti dal dolore che non possono mostrare molta rabbia”.

La richiesta più traumatica, si è scoperto, non erano le circostanze dell’omicidio, ma piuttosto le speranze riposte in vita: “Cosa stavano sognando? Cosa riservava il loro futuro? Questa era la domanda più difficile”, afferma Sawwaf.

Cosa è stato tralasciato del materiale raccolto? Non molto, dice. Poche famiglie hanno accettato di essere intervistate nel luogo in cui sono morti i loro figli. La troupe ha filmato alcune visite alle tombe, ma in genere questo ci è sembrato troppo, dice Sawwaf. A volte, i ricordi travolgono i familiari. Un fratello si ferma, singhiozzando. Due madri, separatamente, dicono di non essere in grado di comprendere cosa sia successo. Ogni rumore fuori dalla porta, pensano che potrebbe essere il loro figlio che torna a casa a piedi.

Per il pubblico occidentale, i momenti più scioccanti saranno probabilmente le foto dei bambini morti o feriti a morte, inframezzate alle loro foto in tempi felici. Queste immagini indelebili –così come i filmati apparsi sui social media del momento in cui venivano portati in ospedale o seppelliti– sono state fornite dalle famiglie, alcune delle quali avevano già realizzato i propri video sull’omicidio, dice Sawwaf.

L’intento era semplice: “Il contrasto tra la vita e la morte. Per mostrare alla gente cosa ha fatto la guerra: ha ucciso un futuro”.

Winterbottom dice di aver riflettuto molto sull’opportunità di includere le fotografie di bambini morti o morenti. I mesi passati immerso nel filmato gli hanno insegnato che il “rapporto con la perdita e il dolore” a Gaza è “sicuramente un concetto diverso da quello del Regno Unito. È più pubblico. È un aspetto più visibile della perdita e del ricordo”. La maggior parte delle famiglie ha affisso enormi poster fuori dalle loro case per commemorare i propri figli.

Se il film fosse stato su bambini scomparsi in Inghilterra, dice Winterbottom, è improbabile che le loro famiglie avrebbero acconsentito all’uso di fotografie così crude, né magari le avrebbero mai possedute.

“Il novantanove per cento del film è composto da persone che parlano di ciò che amavano del loro bambino”, dice. “Ma penso che sarebbe scioccante vedere un bambino ucciso da una bomba. Dovremmo essere scioccati dal fatto che i bambini vengano uccisi in quel modo”.

Delle campane di chiesa risuonano dietro di lui. Winterbottom è in Italia, alla ricerca di location per un film che spera di girare nel corso dell’anno, ambientato a Tel Aviv. (Girare in quella città sarebbe troppo impegnativo.)

Dice di essere ossessionato dalla natura casuale delle morti: alcuni per strada, altri a casa, altri che dormono a letto. “Quella sensazione che non puoi proteggere i tuoi figli, qualunque decisione tu prenda. Quella lotteria: se sei sfortunato, accadrà qualcosa di terribile. Questa sensazione per un genitore deve essere terribile”.

Nell’episodio finale del film, una madre racconta di essersi sentita disperatamente intrappolata anche prima del bombardamento, di aver sperato di andarsene e poi di aver mandato sua figlia a fare quella che si è rivelata una commissione fatale.

“Spero di aver dato il tempo giusto ad ogni famiglia”… Michael Winterbottom.

“Deve essere assolutamente terribile non solo avere la perdita un figlio, ma avere anche questo pensiero in fondo alla mente”, afferma Winterbottom. Lui ha tre figli: due figlie adulte e un figlio di 11 anni. Sua madre perse il suo primogenito quando era ancora bambino, dice, a causa di una malattia. “Eppure per 50 anni è stato sempre una presenza in famiglia. Non riesci mai a superare questo tipo di perdite”.

Quando, più tardi, parlo con Sawwaf in mezzo alla confusione e al caos, gli chiedo che cosa uno come me non potrebbe mai capire del vivere in una zona di guerra. Sia lui che il suo traduttore sembrano senza parole. “La guerra uccide ogni ambizione. Qualsiasi pensiero di sicurezza o di sistemazione per condurre una vita normale. Ti prosciuga. È davvero triste”.

E vale la pena ricordare, aggiunge Sawwaf, che mentre coloro che sono coinvolti in altre guerre “potrebbero avere la possibilità di cercare rifugio in altri paesi in attesa che la guerra finisca”, non solo questa non è un’opzione per la maggior parte dei palestinesi, ma inoltre “non c’è un unico rifugio nella Striscia di Gaza –non un luogo sicuro– anche se è assediata da 15 anni”. Sospira, quasi con ironia. “Ha il suo primato negativo.”

Anche Winterbottom sembra diffidente verso i confronti con l’Ucraina, almeno quelli non temperati dallo scetticismo. “Molti paesi stanno facendo molti sforzi per cercare di fermare ciò che sta accadendo in Ucraina: accogliere le persone del paese, cercare di imporre sanzioni alla Russia.”

“Ma nei primi 20 anni di questo secolo abbiamo bombardato l’Iraq, bombardato la Libia per cambiarne il regime, ciò che è illegale; non sanzioniamo Israele quando bombarda Gaza, non sanzioniamo l’Arabia Saudita quando bombarda lo Yemen. Ma per una famiglia che perde un figlio, che sia in Ucraina o a Gaza o nello Yemen o in Iraq, è la stessa cosa”.

Winterbottom è franco, triste e schietto. Il suo messaggio non è stato confuso questa volta. Quando rimuginava sulle ricadute dell’avidità (il suo Greed), mi ha detto che aveva voluto “far sentire le persone arrabbiate e frustrate e desiderose di cambiare”.

Eleven Days in May è un gesto di ricordo che funziona anche da provocazione diretta ed efficace al suo pubblico. È un cinema cupo che non può fare a meno di modificare la tua comprensione del conflitto. “Vogliamo che la gente veda che la guerra porta solo distruzione”, afferma Sawwaf. “La guerra non è una soluzione”.

C’è un gruppo di persone che non ha né il bisogno né il desiderio di vedere il film: le famiglie dei bambini. Non ci sono state proiezioni del film a Gaza. “Non ancora”, dice Sawwaf. “Potrebbe rinnovare la tristezza, quindi sono un po’ riluttanti a vederlo. Ma ogni giorno mi chiedono che impatto ha altrove”.

“Eleven Days in May” esordisce ai Picturehouse Cinemas il 6 maggio. Una premiere ospitata da Russell Brand si terrà al Picturehouse Central di Londra il 4 maggio per raccogliere fondi per la Hoping Foundation.

https://www.theguardian.com/film/2022/apr/28/michael-winterbottom-unflinching-film-honouring-gaza-dead-children-eleven-days-in-may?CMP=share_btn_fb

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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