Israele mi ha arrestato per aver protestato contro l’assedio di Gaza. Ecco perché mi rifiuto di essere processata

Mar 10, 2022 | Notizie

Neta Golan arrestata dalle forze israeliane durante una protesta a Turmus Ayya, Cisgiordania occupata, 19 dicembre 2014. (Per gentile concessione di Neta Golan)

Di  Neta Golan

Articolo originale: https://www.972mag.com/israeli-refuse-court-arrest/

Il 21 febbraio, ho camminato dalla mia casa nella Città Vecchia di Nablus, nella Cisgiordania occupata, fino a un negozio del centro, per inviare via fax una lettera alla Corte Magistrale di Ashdod. Ero stata convocata lì dopo essere stata arrestata nel gennaio 2020 durante una protesta contro l’assedio di Gaza. Nella mia lettera, ho annunciato che non avevo intenzione di presentarmi all’udienza, per solidarietà con i detenuti amministrativi palestinesi che sono in sciopero dal primo gennaio e che stanno boicottando il sistema giudiziario militare per protestare contro la pratica abusiva della detenzione amministrativa.

Il proprietario del negozio, che non aveva idea del contenuto della lettera, si è rifiutato di prendere i miei soldi. Poiché vivo nelle comunità palestinesi da 22 anni, mi sono quasi abituata a questi gesti quotidiani di cortesia e generosità. Sono solo un’espressione di una rete di sicurezza invisibile che ho imparato a conoscere e da cui dipendo. Ogni società ha i suoi problemi, ma io mi sento incredibilmente fortunata ad avere l’onore di vivere con i palestinesi.

Ma non è sempre stato così. Crescendo a Tel Aviv in una famiglia di ebrei ashkenaziti, la storia che sentivo era che noi israeliani eravamo moralmente superiori agli “arabi”. Mio padre ci diceva di stare attenti alle nostre borse e tasche ogni volta che entravamo in una zona palestinese. Mia nonna ci avvertiva che “un arabo ti abbraccia con una mano e ti pugnala alle spalle con un’altra”, e ci diceva a tavola che “un arabo buono è un arabo morto”.

Avevo 16 anni quando scoppiò la Prima Intifada. Sapevo molto poco dell’occupazione e niente della Nakba, ma capivo che i palestinesi stavano combattendo per la loro libertà e, in risposta, noi li stavamo uccidendo. Quando furono firmati gli accordi di Oslo, speravo che le cose sarebbero cambiate in meglio e volevo far parte di questo cambiamento. Non sapevo che si sarebbero trasformati nell’ennesimo meccanismo di espropriazione dei palestinesi.

Ho iniziato a viaggiare in Cisgiordania negli anni ’90. Per il primo anno e mezzo ero terrorizzata ogni volta che salivo su un minibus palestinese che partiva da Gerusalemme Est occupata; ero sicura che tutti intorno a me volessero uccidermi. E ogni volta, dopo che la mia ansia si placava, riuscivo a vedere che non era così. Che, in effetti, non si preoccupavano affatto di me – avevano in mente altre cose legate alle loro vite. Rimasi scioccata nello scoprire che “loro” erano esseri umani reali.

Neta Golan che viene fermata dai soldati israeliani durante una protesta di attivisti israeliani contro l’assedio a Gaza, sul lato israeliano della recinzione, dicembre 2018. (Oren Ziv)

Dopo un lungo processo di fissazione della mia paura, mi resi conto che, nonostante nessuno avesse menzionato la Nakba durante la mia infanzia, alle persone le cui case, tombe e alberi erano tutti intorno a me era stato impedito di tornare qui, mentre a me era stato permesso di stare qui al loro posto. Non è una sorpresa che li temessi: è la stessa paura che tutti i colonialisti o i beneficiari di sistemi razzisti sviluppano verso le persone che hanno spostato o oppresso.

Come israeliani, siamo nati nel progetto sionista, che si basa sull’espropriazione continua degli indigeni palestinesi. Ma esistono alternative a questo progetto di sottomissione: possiamo vivere accanto ai palestinesi piuttosto che a loro spese. E come cittadini israeliani, possiamo usare i privilegi che ci vengono concessi dal regime di apartheid per smantellare il sistema di discriminazione e oppressione. Per il bene di tutti coloro che vivono qui – indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione – possiamo unirci alla lotta per la liberazione dei palestinesi.

Le politiche di apartheid prosperano nell’oscurità, ma quando portiamo abbastanza attenzione su di esse, iniziano a raggrinzirsi. Questo è il motivo per cui ho parlato alla corte di Amal Nakhleh, una 18enne palestinese che soffre di una grave malattia ed è stata tenuta in detenzione amministrativa per oltre un anno. I detenuti amministrativi sono trattenuti per periodi di tempo indefiniti sulla base di “prove segrete” che sostengono che potrebbero commettere un reato futuro. I detenuti non vengono mai processati e né loro né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

Come parte dello sciopero dei detenuti amministrativi palestinesi, Amal ha boicottato la sua udienza davanti a un tribunale militare israeliano a gennaio. In sua assenza, il giudice ha approvato la richiesta dello Shin Bet di rinnovare la sua detenzione fino al 17 maggio, momento in cui potrebbe essere prolungata ancora. E ancora.

Attivisti israeliani e internazionali protestano sul lato israeliano della recinzione di Gaza in solidarietà con la “Grande marcia del ritorno” dei palestinesi di Gaza, settembre 2018. (Oren Ziv)

Ho detto alla corte che, a differenza di Amal, mi è stata data la possibilità di viaggiare ad Ashdod e difendermi dalle accuse. Ma i diritti concessi a me perché i miei nonni erano ebrei emigrati in Palestina dall’Europa sono negati ai palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e ai palestinesi che sono stati espulsi con la violenza dalla loro patria nel 1948, così come ai loro discendenti ai quali Israele impedisce ancora di tornare.

Se vengo imprigionata, il mio privilegio di cittadina israeliana mi garantisce il rilascio al termine della pena. Questo non è vero per i due milioni di persone che sono state imprigionate negli ultimi 15 anni nella Striscia di Gaza assediata, tra cui circa un milione di bambini che sono nati e hanno vissuto tutta la loro vita sotto la costante minaccia di violenza mortale – il loro unico crimine è di non essere nati da madri ebree.

L’oppressione e l’apartheid sono disumanizzanti sia per le vittime che per i perpetratori. Godere di privilegi a spese di altri non può essere separato dalla paura, dal razzismo e dalla violenza incessante che lo sostiene. La giustizia, sotto forma di ritorno e risarcimento per i rifugiati palestinesi, non libererà solo i palestinesi. Libererà anche noi. 

Traduzione a cura di Assopacepalestina

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